E da qui nascono probabilmente certe azioni legali che possono sembrare assurde ed inconcludenti.
Luca posso chiederti perché questo tipo di "patto quota lite", non ne conoscevo il termine ma l'iter al contrario sì, non è ammesso in Italia se non con una piccola parentesi, perché, forse illegalmente, ne ho sentito parlare anche qui da noi.
Il tema è complesso, provo a fare una sintesi (avviso già, non sarà breve, ma del resto solo così potrebbe essere chiaro e utile il discorso) copiando da un mio precedente scritto sul tema. Ho tolto alcuni passaggi e ne ho semplificati altri. Se qualcosa non fosse chiaro resto ben volentieri a disposizione.
Il patto di quota lite può essere definito come la convenzione con la quale cliente e avvocato stabiliscono come compenso del professionista, in caso di successo della causa, una parte del bene o del credito litigioso, o una percentuale del suo valore; è stato tradizionalmente vietato nell’ordinamento italiano in quanto ritenuto in contrasto con il dovere di correttezza e probità dell'avvocato, e con il principio di proporzionalità tra compenso e lavoro svolto (perchè, per fare un esempio, il lavoro per gestire una causa di 1 milione di € o da 100 milioni di € certamente cambierà, ma probabilmente non sarà 100 volte tanto).
In particolare, l’art. 2233 del codice civile, al comma 3, stabiliva che “gli avvocati, i procuratori e i patrocinatori, non possono, neppure per interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio, sotto pena di nullità e dei danni”.
L’art. 45 del codice deontologico forense, nel testo ante riforma del 2014, nel disciplinare gli accordi sulle definizione del compenso a sua volta richiamava il principio posto dal codice civile vietando il patto di quota lite.
Successivamente è intervenuto il D.L. 4.7.2006, convertito con modificazioni dalla legge 248/2006, che all’art. 2 stabiliva: “In conformità al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, nonché al fine di assicurare agli utenti un'effettiva facoltà di scelta nell'esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, dalla data di entrata in vigore del presente decreto
sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali: a) l'obbligatorietà di tariffe fisse o minime
ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti”.
Per tali patti si prevedeva la forma scritta a pena di nullità. Alla riforma legislativa si è adeguato il codice deontologico forense, modificato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 18.01.2007. Restava però fermo il divieto posto dall’art. 1261 c.c. In altre parole si distingueva, in quel periodo, tra due diverse pattuizioni: la prima, legittima, avente ad oggetto un compenso parametrato all’obiettivo raggiunto e calcolato in ragione di una percentuale dei beni o interessi litigiosi; la seconda, sanzionata con la nullità, avente ad oggetto la cessione dei diritti oggetto di lite.
Nel 2012 è intervenuto nuovamente il legislatore introducendo, all’art. 13 co. 4 della l. 31.12.2012 n. 247, ossia la nuova legge forense, la seguente norma: “sono vietati i patti con i quali l'avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa”, sicchè il patto di quota lite è tornato ad essere proibito (ecco perchè ho parlato di una breve parentesi). Infine il nuovo codice deontologico forense riprende tale divieto sanzionandolo con la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi.
Tali previsioni vanno coordinate rispettivamente con il comma 3 del medesimo art. 13 della l. 247/2012 (che stabilisce che: “la pattuizione dei compensi è libera: è ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfetaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all'assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l'intera attività, a percentuale sul valore dell'affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione”) e con lo speculare comma 1 dell’art. 25 Codice Deontologico Forense. Il coordinamento va effettuato valorizzando le differenze anche lessicali tra le due disposizioni, oltre che la ratio che sta alla base del patto di quota lite. Ed infatti il comma 1 dell’art. 25 C.D.F.(così come il comma 3 dell’art. 13 l. 247/2012) si riferisce al valore dell’affare o a quanto si prevede possa giovarsene. È evidente che il riferimento ad un previsione necessariamente si colloca in un momento di incertezza, in un momento cioè in cui la causa non è ancora definita. Viceversa il comma 2 dell’art. 25 C.D.F. si riferisce all’esito di una determinata vertenza, cioè al risultato conseguito.
Una tale interpretazione è conforme con la ratio del divieto, ossia far sì che l’avvocato non sia coinvolto nella gestione della vicenda da un personale tornaconto economico, che potrebbe far venire meno la sua capacità di giudizio.