Stanotte ho dormito bene ma solo fino a quando sono stato svegliato dal fragore di un temporale che mi aveva buttato giù dal letto per guardare fuori dalla finestra: pioveva!
Tuttavia, nonostante l’ora e il buio che lentamente veniva sopraffatto dall’alba incombente, percepivo che il cattivo tempo si stava spostando verso est e questo, almeno, era un buon segno.
Approfitto per sistemarmi, mettere a posto i bagagli e ingannare in qualche modo il tempo perché penso che dovrò attendere almeno un paio d’ore prima di rimettermi in marcia.
Sono in fortissimo ritardo sulla mia tabella di marcia perché oggi avrei dovuto concludere l’itinerario turistico delle
Black Hills e giungere in serata a Sturgis.
Quando smette di piovere, esco dalla camera per andare a fare comunella con i motociclisti, tutti intenti ad asciugare le moto e caricare i bagagli. Colloquiando con uno di loro apprendo che viene dal Tennesy; è un poliziotto della narcotici, ha una motocicletta Harley e per giunta il suo cognome, ironia della sorte, è
Davidson: un’accoppiata decisamente perfetta!
Appena pronti, sono le otto e mezzo, mi salutano e partono tutti fragorosamente, nonostante cada una pioggerellina e la strada sia completamente bagnata: non hanno tempo da perdere perché il raduno è già iniziato. Per quel che mi riguarda, preferisco attendere che spiova completamente e che l’asfalto si asciughi almeno parzialmente.
Nell’attesa, vado a piedi al grande supermercato di fronte al motel per fare qualche rifornimento alimentare e comprare un tubetto di colla per sistemare in qualche modo il supporto della
camera car che si è rotto due giorni fa mettendomi in sella.
Parcheggiato nel grande piazzale mi imbatto in qualcosa di stravagante, che avvalora la mia certezza che a Sturgis si va anche per metter in mostra il proprio mezzo di trasporto.
Infatti, ciò che osservo è un massiccio triciclo Harley di colore rosso che ha sulla forcella anteriore, sotto il faro, due grandi corna di bue; sulla sella c’è una bianca pelliccia di pecora ma il pezzo forte sta nel carrello attaccato al gancio di traino posteriore. Si tratta di una casetta di legno, rossa, con tetto spiovente, frangiata alla base con striscette verdi per simulare l’erba, e un pupazzo del
cartoon Barone Rosso sull’apice: è la dimora del cane al seguito!
La proprietaria del motel mi ha chiesto di chiudere la porta della camera lasciando però all’interno la chiave di accesso.
Lo so non è corretto, ma sono certo mi perdonerà se porterò con me, per protezione, l’immagine Sacra trovata nel comodino. La sostituirà certamente con un’altra che appagherà devotamente futuri clienti cattolici.
Alle dieci, tardi, parto sotto un cielo coperto ma senza pioggia e poco fuori del paese, a causa di lavori in corso, mi imbatto subito in una deviazione che mi porta obbligatoriamente a fare un fastidioso giro vizioso sulla SD-44, più a nord, prima di poter tornare sull’US 18 verso ovest.
Tornato finalmente sul tracciato originario, trovo un cartello stradale di benvenuto nel territorio della
Riserva Indiana di Rosebud, una fra le più estese del Sud Dakota. Adesso le reminiscenze infantili, quando giocavamo agli indiani, si fanno strada nell’immaginario delle battaglie con archi e frecce combattute dai pellerossa contro i bianchi armati di fucili e usurpatori dei loro territori di caccia.
Gli indiani Sioux, ieri liberi, sono ora relegati in case prefabbricate e
conteiners che, sparsi nella prateria, scorgo di tanto in tanto. Queste dimore sono squallide, povere, con qualche segno di paleria elettrica, di automobili vecchie e decrepite e di bambini intenti a giocare fra cumuli di oggetti in disuso. Posso anche immaginare la vita che conducono all’interno di queste supposte case dove tutto parla di condizioni assolutamente precarie e umili, favorite da disoccupazione, problemi sociali, assistenziali e quant’altro.
Tutto questo, però, non sminuisce, immagino, la fierezza degli abitanti di appartenere ai popoli nativi che amavano grandemente “la madre terra” perché forniva loro la possibilità di cacciare, quale sostentamento, e la libertà non condizionata, fino all’arrivo dell’
uomo bianco.
Quando organizzai l’itinerario di viaggio, il passaggio attraverso le riserve indiane fu intenzionalmente pianificato ed ora, realmente e con entusiasmo, mi sto dirigendo verso il territorio della Riserva Indiana di Pine Ridge che accoglie
Sioux delle tribù
Lakota e
Oglala.
Sfortunatamente, l’epicentro di questa riserva è rappresentato da un luogo dove accadde una vicenda cruenta e ignobile perpetrata dai soldati americani nel dicembre del 1890:
Wounded Knee.
Il luogo, annunciato da un cartello sulla statale, lo raggiungo dopo una deviazione e sette miglia di percorso.
Le condizioni meteo sono ora splendide, con cielo azzurro e poche nuvole bianche. In questo contesto sereno guardo con compassione, su una verde e piccola collina, il luogo che accoglie i resti umani del massacro di Wounded Knee. La vicenda è ricordata su un tabellone di ferro, fondo rosso e lettere bianche, posizionato proprio sul luogo dell’eccidio, non lontano dalla base dell’altura. Sinteticamente, riporto i fatti appresi.
"Il 28 dicembre 1890, senza combattere, Big Foot si arrese al 7° Cavalleria USA comandate dal Maggiore Whitesides presso un posto distante cinque miglia a norde la tribù fu poi condotta sotto scorta a Wounded Knee per la sistemazione della notte che incombeva. La mattina del 29 dicembre il Colonnello Forsythe prese il comando di una forza di 470 uomini e una batteria di quattro cannoni Hotchkiss fu posta sulla collina che dominava l’accampamento indiano composto da 106 guerrieri e 250 donne e bambini.
Agli indiani fu ordinato di cedere le armi prima di procedere per Pine Ridge e il Capitano Wallace, con un gruppo di soldati, iniziò a cercare armi nascoste nelle tende.
Ad un tratto, non si sa come e da chi, partì un colpo di fucile e si scatenò l'inferno.
Le truppe spararono una raffica mortale sui guerrieri uccidendo quasi la metà di loro. Seguì una lotta sanguinosa corpo a corpo, tanto più disperata in quanto gli indiani erano armati per lo più con mazze, coltelli e qualche pistola. I cannoni Hotchkiss spararono dalla collina uccidendo indiscriminatamente guerrieri, donne e bambini.
Un'ora più tardi, 146 uomini indiani, donne e bambini giacevano morti nella valle del Wounded Knee. I corpi di molti erano sparsi lungo una distanza di due miglia dalla scena dello scontro. Venti soldati dell’esercito perirono sul campo mentre sedici morirono in seguito per le ferite riportate. A causa di una bufera di neve, solo quattro giorni dopo l’eccidio gli indiani morti furono raccolti dai soldati e sepolti in una fossa comune in cima alla collina.
Il campo di battaglia Wounded Knee è il luogo dell'ultimo conflitto armato tra gli indiani Sioux e l'esercito degli Stati Uniti”
Dopo aver parcheggiato la moto, proseguo a piedi sul viottolo sterrato che conduce sulla collina. Il silenzio è assoluto e il paesaggio tutt’intorno è solo prateria, quasi priva di segni di vita come il cimitero che è stato eretto in cima all’altura.
Attorno al sacrario non c’è alcuna recinzione a meno dell’entrata composta da due colonne quadrate di mattoni bianchi e rossi sovrastate da un arco di ferro con sopra una piccola e semplice Croce.
Varco questo semplice passaggio trovando, subito dopo, una recinzione di rete metallica che delimita un rettangolo di terreno lungo 25 metri per 2 di larghezza: questa è la fossa comune nella quale furono sepolti uomini, donne e bambini uccisi dal fuoco dei soldati americani.
E’ veramente triste vedere questa spoglia e piatta dimora di poveri sventurati.
Sulla recinzione, soltanto pezzetti di stoffa colorata sventolano, accarezzati dal vento che semina preghiere per quanti sono lì sepolti, mentre nel mezzo di questa fossa comune si leva un cippo di marmo grigio con la seguente iscrizione:
“
Questo monumento è stato eretto dai parenti indiani superstiti dei Sioux Oglala e Cheyenne
in memoria del Capo Big Foot e della strage del 29 dicembre 1890”.
Altre tombe di nativi sono collocate nei dintorni della collina, sotto la poca ombra di qualche basso alberello, in un terreno lasciato quasi volutamente sterile, ma certo non in abbandono o dimenticato. In fondo a questo cimitero, quasi a ricordare in qualche modo l’identità cattolica di quei poveri resti sepolti, c’è una piccola chiesa di legno sormontata da una Croce.
Insomma, ho poco da commentare in merito al trattamento subito dagli indiani nativi per la sete di conquista, per gli affaristi senza scrupoli, per la sottrazione indiscriminata di terre durante la corsa all’oro dei pionieri e della condotta di molti ufficiali dell’esercito americano desiderosi di far carriera a scapito di quei popoli quasi inermi.
Per ironia della sorte, il 7° Cavalleria presente a Wounded Knee era il medesimo che, al comando di
Custer, aveva subito nel 1876 la cocente sconfitta a
Little Bighorn da parte di
Toro Seduto. Con la sola differenza, sostanziale, che lì si svolse una vera e propria battaglia, mentre a Wounded Knee si trattò di un massacro indiscriminato di uomini, donne e bambini.
Dall’alto della collina scorgo tre o quattro bancarelle con vendita di souvenir e mi reco per cercare qualcosa che possa interessarmi.
Dietro una delle bancarelle c’è un indiano Oglala che sta intrattenendo due turisti americani con la storia della vicenda, cercando inoltre di piazzare anche la sua mercanzia. Attendo, ma quasi mi spazientisco per il protrarsi della conversazione e inizio a pensare che forse sarebbe meglio non perdere tempo e lasciare il luogo. Comunque aspetto ancora un poco e finalmente posso dare un’occhiata agli oggetti che l’indiano ha da vendere sul banco e intavolare qualche conversazione.
L’Oglala incomincia a sfogliare un raccoglitore e a mostrarmi molte copie di fotografie in bianco e nero scattate subito dopo il verificarsi dell’evento tragico: le spoglie degli sventurati, fra cui quella di Big Foot, che giacevano in pose strane e irrigidite dal gelo perché composte solo quattro giorni dopo la battaglia; la fossa comune parzialmente riempita; il campo di battaglia dopo l’evento; i soldati che avevano partecipato alla sparatoria e molte altre immagini sull’argomento dell’eccidio.
Una fotografia, emblematica, ritrae il Generale L.W. Colby che ha in braccio una bambina Sioux Lakota di pochi mesi, scampata miracolosamente al massacro, che fu in seguito da lui adottata.
Altre fotografie, invece, attestano come questo posto sia diventato un luogo sacro, fungendo anche da richiamo, nell’anniversario, per cerimonie commemorative di indiani Sioux delle generazioni successive.
Nel frattempo, una donna indiana, forse la moglie, piuttosto grassa ma direi abbastanza giovane, volutamente disinteressata ai nostri colloqui e seduta in disparte all’ombra, sta confezionando alcune collane di perline di vetro. Dalla bancarella improvvisata, scelgo un paio di orecchini e un braccialetto di manifattura tipica indiana che l’uomo mi assicura essere di produzione artigianale propria. In più, un cerchietto con croce centrale e piccole penne d’uccello appese ai lati: la “ruota della medicina”, oggetto misterioso che simboleggia non tanto “la guarigione”, quanto il “potere della conoscenza”.
Pine Ridge dista 25 km; devo affrettarmi per raggiungerla, fare una sosta e ripartire alla volta di
Hot Springs.
Percorrendo la statale che va in quella direzione, si susseguono sparpagliate molte case prefabbricate dove vivono indiani e avvicinandomi alla città quasi si compattano per formare un paese. Nell’incedere, mi attraversano la strada due ragazzi che cavalcano “a pelo” altrettanti cavalli, quasi stessero giocando, e poi arrivo nel centro cittadino. L’impressione è quella di essere giunto ad uno svincolo importante della US18.
In questa zona centrale di Pine Ridge c’è un traffico considerevole di enormi e rumorosi
pick up, nonché un via vai incessante di persone. Tutto sembra gravitare attorno a un distributore di benzina
Shell e al
Big Bats, l’esercizio commerciale della stazione di servizio. Inoltre, sembra che a
Pine Ridge non piova da mesi con tutta la polvere che si è accumulata sulle strade e che inevitabilmente e senza riguardi viene sollevata dai mezzi di trasporto che vi transitano.
Per curiosità, mi reco nel
Big Bats. All’infuori di me, bianco, a cui peraltro nessuno fa caso, le persone presenti sono nativi Sioux della riserva. La corporatura è abbastanza imponente e spesso obesa, gli uomini. Le donne, invece, di norma acconciate con trecce, accompagnano bambini grassottelli che si trastullano con ingordigia tra patatine fritte e altra roba calorica.
All’interno del negozio non c’è aria condizionata e il calore, per me opprimente, attira inevitabilmente sciami di mosche alle quali nessuno bada. Questa condizione mi infastidisce non poco e quindi, dopo aver acquistato un gelato, vado a gustarmelo fuori, dall’altra parte della strada, sotto un albero che con la sua ombra stempera vagamente la calura pomeridiana.
Sul mio itinerario ho preso nota che non lontano da Pine Ridge, circa sette chilometri, c’è la tomba di un altro importante capo indiano:
Nuvola Rossa.
Non attendo oltre e parto verso questo luogo che, strada facendo, si fa individuare, oltre che da un cartello che reca la scritta
Red Cloud Indian School, anche e soprattutto dalla collina sulla cui cima svetta una grande croce. Svoltando sulla strada indicata, mi ritrovo quasi subito nel parcheggio di un collegio cattolico che ha una grande chiesa dedicata alla Madonna. Il luogo è ben curato, c’è molto verde, alberi d’alto fusto, un silenzio che invita alla meditazione e ospita scuole di primo e secondo grado per i giovani indiani. Una bacheca informa i visitatori che questo è l’unico collegio della riserva indiana di
Pine Ridge. La missione di
Red Cloud Indian School è un istituto gestito da Gesuiti e dal popolo Lakota.
Su una grande bacheca di ferro, di colore verde e simile a quella di Wounded Knee, sono narrate le gesta del leggendario capo Nuvola Rossa e quasi introduce al viottolo sterrato che porta sulla collinetta dove è sepolto.
Seguo l’acciottolato e dopo qualche minuto mi ritrovo in un cimitero indiano in fondo al quale c’è una bassa recinzione di tavole bianche con una panchina di ferro posta di fronte alla tomba di Nuvola Rossa. Una lastra di pietra e un cippo di marmo grigio, sormontato da una croce artisticamente lavorata, segnano il luogo in cui riposa. Accanto, solo una piccola croce bianca di legno indica la sepoltura della moglie Mary Oca Ze Win.
Per la sepoltura, certo intenzionalmente, è stata scelta proprio questa zona della piccola collina:
Red Cloud può dominare dall’alto e per sempre la grande prateria del Dakota accarezzata dal vento e attraversata dalle grandi mandrie di bisonti al pascolo.
Fino a questo momento la giornata non è stata avara di spunti nostalgici e gratificanti riguardo ai Sioux e appagato abbandono la collina di Nuvola Rossa e la riserva di Pine Ridge con l’intento di raggiungere quanto prima la città di
Hot Spings, “la porta sud” di ingresso del Parco Nazionale delle Black Hills”.
Cento chilometri dalle nostre parti non sono poi tanti, potendosi distrarre in molte occasioni; nel Sud Dakota gli stessi chilometri sembrano molto di più se percorsi su una strada che offre solo prateria su prateria. Comunque, raggiungo
Hot Springs, una città nata nel 1870 perché c’era abbondanza di acque termali e la sua prosperità è stata determinata, più tardi, dal turismo legato alla scoperta di un sito preistorico di Mammut. Inoltre, a soli undici chilometri più a nord c’è il
Wind Cave National Park con le sue gallerie naturali sotterranee, le più estese del mondo.
Il Motel 6 dove sono diretto si trova poco prima di entrare in città e quando vi giungo trovo l’ampio parcheggio già occupato da numerosissime motociclette: brutto segno!
Infatti, alla reception mi chiedono se ho una prenotazione. Ovviamente no e quindi devo cercare altrove. Vado in centro, preso d’assalto da numerosi gruppi di motociclisti e nei pressi di un bel parco trovo l’albergo America Inn e tento la fortuna: la camera c’è, ma la stangata è 160 dollari per una notte!
Non sono affatto disposto a spendere quella cifra e neanche dieci in meno ad un altro albergo al quale ho chiesto dimora. Con tutti i motociclisti di passaggio diretti a Sturgis, gli albergatori fanno festa con prezzi a dismisura, certi di una sosta quasi obbligata.
Per me non è così e allora:
- primo: “
footlong” al Subway e coca cola abbondante;
- secondo: ho capito che anche questa volta dovrò accamparmi sotto le stelle e il posto migliore e tranquillo sembra essere un boschetto vicino al grande parcheggio del Motel 6.