Mi spiace che la signora che mi siede a fianco non sia molto loquace, perché avrei potuto scambiare quattro chiacchiere e ingannare il tempo. Insomma, fra una rilettura del mio programma di viaggio e vari spuntini che si succedono nel corso del viaggio, dopo oltre nove ore giungiamo in territorio canadese, a Toronto. Il cielo è parzialmente nuvoloso e quando l’aereo atterra rivedo nuovamente lo “
skyline”, il profilo panoramico della metropoli delineato dei grattacieli e dall’altissima
Canadian Tower.
![TORONTO atterraggio.webp TORONTO atterraggio.webp](https://forum.crocieristi.it/data/attachments/64/64802-697ae2ca0ba3dd904e496c9ca27bc2b2.jpg?hash=UrIB6WizI5)
Il ritiro dei bagagli non è affatto difficile e per giunta posso ingannare il tempo assistendo a qualche partita dei mondiali di calcio che sono in corso in Brasile.
Sono le sette di sera e con tutti i bagagli me ne vado in centro, tanto so già quali mezzi adoperare e quale linea della metropolitana prendere per andare a
Yonge Street. Prendo il treno al capolinea di
Kipling e ad una delle numerose fermate entrano nel vagone una signora e sua figlia, accomodandosi in due posti quasi dirimpetto a me.
Dai loro modi di fare, dal loro abbigliamento, dalle calzature, da quello che riesco vagamente a udire e dal fatto che di tanto in tanto guardano la cinghia tricolore che avvolge la mia valigia, deduco che non siano proprio canadesi.
Infatti, poco prima di scendere assieme alla stessa fermata, causa interruzione sulla linea principale della metro, in un tentativo di approccio, quasi simultaneo, scopro che sono italiane, hanno parenti a Toronto, sono in vacanza e vivono….in un paese vicinissimo al mio: il mondo è sempre piccolo!
Scambiamo solo qualche parola di circostanza e mentre loro si allontanano in una direzione opposta alla mia, utilizzo la Linea Gialla della metropolitana di raccordo. Tuttavia, la stazione dove scendo non è certo il posto ideale per raggiungere Yonge Street a piedi. Mi consolo andando al vicino Subway per mangiare qualche cosa e fare due passi in attesa di tornare in aeroporto.
Purtroppo, non posso andare a dormire in albergo perché domani mattina, prestissimo, inizia l’imbarco del volo per Los Angeles e quindi dovrò passare la notte in aeroporto per non perdere la preziosa coincidenza.
Nella notte, mi aggiro nel grande Terminal 1 del
Pearson International Airport di Toronto, quasi tutto dedicato ad arrivi e partenze nazionali della compagnia Air Canada, la medesima che alle 7 mi farà volare a Los Angeles.
Non riesco a trovare un luogo adatto dove poter almeno sonnecchiare per qualche ora prima di recarmi all’accettazione dell’imbarco con molto anticipo perché non sono a conoscenza della procedura riservata agli stranieri. Insomma, dopo un tentativo, andato a vuoto, di trascorrere il tempo andando almeno al Terminal 3, quello internazionale, e una striminzita colazione prima che faccia giorno, alle 5 decido di recarmi comunque al banco di accettazione di Air Canada.
So che dovrò pagare un sovraprezzo per imbarcare la valigia. All’operatrice che mi assegna il posto nell’aereo presento un biglietto da venti dollari canadesi ma resto sorpreso quando mi avverte che posso pagare soltanto con la carta di credito. Va bene!
Seguo le indicazioni per la porta di imbarco e appena arrivato, nonostante il passaporto in regola e l’autorizzazione ESTA, devo compilare uno stampato che mi viene consegnato da un addetto all’imbarco. Le domande sono scritte in inglese e, per quanto ne so, le risposte che fornisco non comportano ulteriori complicazioni.
Per tutta questa trafila è occorsa più di un’ora, ma sono quantomeno tranquillo nella sala d’attesa dalla cui vetrata vedo il mio aereo e all’orizzonte l’alba incombente e molte luci ancora accese dei grattacieli della città di Toronto.
Finalmente viene annunciato l’imbarco ma ci vorranno ancora cinque ore di volo e per via dei fusi orari arriverò a Los Angeles per colazione.
Sonno e fame si alternano nel tragitto che sorvola tutto il continente americano e mi pare di scorgere dal finestrino le Montagne Rocciose e poi i deserti californiani.
Los Angeles ci accoglie alle nove di mattino sotto una cappa di umidità non indifferente ed è già un’avvisaglia della temperatura che dovrò patire nel viaggio successivo.
Quando avevo pianificato il da farsi per spostarmi dall’aeroporto alla stazione dei bus di Greyhound, lontana più di trenta chilometri, avevo preso in esame il servizio di trasporto pubblico.
Tuttavia, ero al corrente dell’inefficienza di quel servizio perché a Los Angeles quasi tutti preferivano spostarsi in auto, nonostante il traffico caotico e i lunghi tempi di percorrenza all’interno dell’estesissima area metropolitana di questa città.
L’alternativa: il taxi, abbastanza oneroso, ma tutto sommato la soluzione migliore per giungere in tempo utile alla Greyhound e prendere il bus delle 13 per Fresno.
Così, ripescando la mia valigia dal ritiro bagagli, dopo aver passato la dogana senza impedimenti, esco facilmente dall’aeroporto, faccio cenno al primo taxi che vedo arrivare e mi faccio trasportare in mezz’ora alla mia destinazione: sessanta dollari per una tremenda sfacchinata risparmiata.
Nella stazione Greyhound compro subito il biglietto per Fresno per trenta dollari, qualche mela alla rivendita e siccome c’è tempo vado a riposarmi fuori su una panchina a cui concede ombra un’altissima palma. Con un cielo azzurro e privo di nuvole avverto il gran caldo che fa da queste parti, come da noi nelle ore pomeridiane di agosto, ma è scontato.
Ben prima dell’ora di partenza, rientro e mi metto in coda con gli altri passeggeri nella fila che si è formata davanti alle porte di imbarco. Poco tempo dopo un incaricato, che ci fa allineare per bene, “alla voce”, con tono alto, perentorio e assolutamente americano, annuncia la partenza dell’autobus per
Barkerfield,
Fresno,
Modesto e
Sacramento.
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Deposito la mia valigia che sarà messa nei cassoni del bus, ma con fortuna mi porto appresso il trolley, trovandogli uno spazio adeguato nelle ultime sedute dove mi accomodo. Quando partiamo la cosa che noto maggiormente sono le macchine, tantissime, enormi e lunghissime che in città e nell’autostrada viaggiano senza soluzione di continuità in ogni direzione, infestando l’aria con gli scarichi e i consumi rilevanti dei loro poderosi motori.
Più passa il tempo e più il flusso cospicuo dell’aria condizionata provoca tanto freddo da farmi rammaricare di non poter utilizzare il giubbino riposto nella valigia. Tuttavia, non appena arriviamo a
Barkerfield, per la prima sosta di un quarto d’ora, mi precipito in strada.
Mi sembra di passare, in un batter d’occhio, dal Polo Nord all’Equatore a causa dell’elevata temperatura esterna, resa ancor più infernale da tubi di scappamento del motore del bus, lasciato acceso, che vomitano fumi infuocati. Mi rifugio nella stazione, ma ben presto, quando ripartiamo, si passa nuovamente all’insidioso freddo dell’aria condizionata, mentre fuori dal finestrino è un susseguirsi di un paesaggio assolutamente desertico e privo di attrattive, nella calura pomeridiana della California centrale.
Mentre si fa più vicina la città di Fresno, mi assale qualche dubbio sull’eventualità che Jack non sia lì ad attendermi poiché l’ultimo contatto che ho avuto con lui risale all’ormai lontano inizio di maggio.
Forse il medesimo dubbio lo ha percepito anche Jack perché, quando il bus giunge alla meta, perché sono l’ultimo fra i passeggeri a scendere dall’autobus e a recuperare la valigia. Ma per entrambi, non appena ci notiamo, si fa subito strada l’allegria, mentre un saluto di benvenuto e un sorriso reciproco, senza tante parole, è il miglior modo per festeggiare il mio arrivo a Fresno.
La città è molto estesa in lunghezza e la casa dove vive Jack, pur non trovandosi in periferia, è lontana ben 14 chilometri. Quando finalmente arriviamo alla dimora posso finalmente riposarmi e stemperare la calura con una buona birra fresca.
Avevo programmato che mi sarei sistemato in un motel di Fresno e quando gliene ho fatto parola mi ha semplicemente replicato:
“Non se ne parla proprio!”
Per sfuggire al detto “
chi non accetta non merita”, ho capitolato accettando l’ospitalità.
L'abitazione si trova in un quartiere residenziale con molte villette, quasi tutte a pian terreno e grande garage annesso. La sua non fa eccezione, è una bella casa con giardino posteriore mentre il prospetto anteriore è libero da inferriate e altri sistemi di divisione con le altre che sono accanto.
Jack ha una Jeep che usa come mezzo di trasporto, la stessa con la quale è venuto a prendermi alla stazione degli autobus, e nel garage sostano una motocicletta Harley e una vecchia Camaro rossa. Ha inoltre due cani che gli fanno compagnia e, momentaneamente, si è liberato dagli impegni di lavoro per agevolare la mia permanenza e per portarmi a spasso.
A causa del fuso orario sono appena le otto di sera e dopo aver chiacchierato a lungo, Jack mi invita ad andare alla pizzeria italiana di suo cognato:
Luna Restorant.
Nel ristorante lavorano il cognato con i suoi figli e il menu con il quale è possibile pranzare è composto da una lunga lista di pietanze tipicamente italiane; anche il genere “pizza” non fa eccezione e Jack chiede di portarcene due. La mia, però, è talmente farcita di fettine di salsiccia che, pur assaporandola con molta birra, devo scusarmi con la ragazza che l’ha portata per non averla mangiata tutta.
Nel locale ci sono molti avventori, ma vedo che dopo circa un’ora di cena siamo rimasti solo noi due, il proprietario, i figli a qualche altro dipendente. E’ come se fosse scattato una sorta di coprifuoco, perché mi sembra di capire che alle dieci di sera qui chiudono tutto e Jack me lo conferma.
E’ talmente lampante la differenza con i nostri usi e costumi che rammento a Jack, e a me stesso, che invece, a quest’ora della sera, a casa nostra …comincia la baldoria.
Comunque, dopo aver salutato tutti, assecondiamo le consuetudini e torniamo a casa a chiacchierare ancora un po’. Mi sa però che obbligatoriamente dovrò andare a riposare, dopo 48 ore di stress ininterrotto.
Tuttavia, ne è valsa la pena perché… sono dall’altra parte del mondo.