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My USA on the Road...and more.

USA Coast to Coast and Par to Park  OK.webp
Prologo

Nel 2013, il viaggio a Sturgis e al 73° Motorcycle Rally mi aveva talmente entusiasmato che si era insinuata nella mente l’idea di potervi partecipare nuovamente, partendo questa volta dalla California.
Ero appena tornato e già soffrivo di “mal d’America” perché pensavo a quanto poteva essere interessante compiere una grande avventura “coast to coast”, partendo da Los Angeles.
Questo nuovo viaggio, a parte San Francisco, Las Vegas e altre realtà, mi avrebbe consentito di visitare ragguardevoli parchi nazionali, di tornare a rivivere la bolgia motociclistica di Sturgis e di concludere questa nuova esperienza a Cleveland, percorrendo un itinerario verso quella città che già conoscevo perfettamente.
Pian piano mi convinsi che l’operazione poteva essere portata in porto con successo e quindi cominciai a riflettere su come avrei potuto organizzarla nel migliore dei modi. L’arco di tempo da mettere in campo doveva essere per forza di cose abbastanza cospicuo e quindi mi occorreva almeno un mese. Non da meno, era necessaria una base logistica dalla quale partire e a questo scopo avevo preso in considerazione l’idea di spendere qualche giorno a Fresno, in California, dove vivono i nipoti di mia moglie.
In questa città avevo già soggiornato nel lontano periodo di Natale del 1984 quando con tutta la mia famiglia fummo ospiti a casa della sorella di mia moglie e di altra parentela che viveva a San Francisco. Visitammo questa città, dedicandole comunque pochissimo tempo, ma almeno avemmo l’opportunità di vedere il superlativo Golden Gate, China Town, alcuni bei quartieri residenziali e Lombard Street, la strada più tortuosa del mondo.
Rammento che il clima californiano, nonostante fosse inverno, era molto gradevole e nonostante avessi una disponibilità di ferie limitata riuscimmo a visitare anche lo Yosemite National Park. Fui veramente colpito dalla scenografica bellezza di questo parco, dai cervi che vagavano liberi al suo interno, da altissimi dirupi come l’Half Dome, dai poderosi alberi Sequoia e dal meraviglioso salto delle cascate Yosemite Falls.
In definitiva, pur avendo dimorato in territorio americano per poco tempo, ero rimasto favorevolmente impressionato da tutto ciò che poteva offrire a un viaggiatore, vantando paesaggi superlativi, città bellissime e parchi estesissimi.
A distanza di anni, quindi, i presupposti necessari per un nuovo viaggio c’erano tutti.
Ma sarebbe stato un altro sogno relegato nel cassetto?

Forse sì, o forse no!

Insomma, l’idea c’era, i requisiti anche, non mancava l’esperienza del viaggio in moto e quindi una nuova avventura e nuove mete da raggiungere potevano essere messe in cantiere.
Solo un ostacolo, non di poco conto, si frapponeva al progetto: rendere partecipe mia moglie che mi avrebbe sicuramente rimproverato per il fatto di partire nuovamente, dopo essere appena tornato. Pertanto, occorreva cercare un modo per superare “l’asticella”, trovarla di buon umore e attendere il momento migliore per dirle quello che avevo in mente.
Nel periodo di Natale si è soliti pensare ai reciproci scambi di regali e quando ne parlammo lei mi chiese quale fosse la strenna che mi avrebbe fatto piacere ricevere.
Perbacco! Si presentava un’occasione irripetibile che mi permise immediatamente di chiederle in dono una cosa che si impegnava però a non rifiutare: il benestare a tornare a Sturgis, partendo da Los Angeles, o meglio, da Fresno dove viveva Jack, suo nipote.
Lasciandomi stupefatto e felicissimo, mi regalò ciò che le avevo chiesto.

Per iniziare questa nuova avventura, era opportuno che Fresno e Jack dovevano costituire un punto di riferimento necessario sia per la sistemazione alberghiera sia per le escursioni ai parchi di Yosemite e Sequoia.
Jack non lo vedevo da molto e certamente gli avrebbe fatto piacere condividere il mio soggiorno e accompagnarmi nelle mie “gite”. Fresno, dunque, si presentava come un’ottima base per tutte quelle operazioni preliminari per la preparazione del mio nuovo viaggio negli “States”.

Navigando in internet, già da tempo mi ero fatta un’idea, al momento solo approssimativa, dell’itinerario “coast to coast” e del mezzo di trasporto che avrei dovuto adoperare. Certo, in prima battuta, sarebbe stato bello viaggiare in motocicletta ma non avrei disdegnato di utilizzare, in alternativa, un’automobile presa a noleggio il cui costo, peraltro, sarebbe risultato notevolmente inferiore.
Com’è mia abitudine, subito dopo il “lasciapassare” che mia moglie mi aveva graziosamente concesso, iniziarono i “lavori in corso” di progettazione del viaggio, questa volta meno problematici e più veloci rispetto al tempo che avevo dedicato negli anni precedenti. Insomma, per esperienza, sapevo già dove “mettere le mani”!
Per il trasferimento dall’Italia, presi in considerazione il volo Alitalia da Roma a Los Angeles senza scalo. Poi feci un confronto di costi con un volo di Air Transat su Toronto, più una coincidenza per Los Angeles con la compagnia Air Canada.
Il costo della trasvolata con Alitalia risultò notevolmente superiore all’altra opzione, anche se ovviava all’inconveniente di dover utilizzare due vettori.
Il denaro risparmiato, comunque, era un elemento da non trascurare e quindi decisi che, a tempo debito, avrei prenotato e comprato i biglietti per volare a Los Angeles con le compagnie Air Transat e Air Canada, facendo uno stop a Toronto,

Per il viaggio “coast to coast” vero e proprio, da Fresno a Cleveland, potevo valutare diverse opzioni di itinerario, ma tutte le scelte vertevano sull’esigenza di poter visitare i maggiori parchi nazionali americani, prima di transitare da Sturgis.
Per il ritorno in Italia avrei utilizzato i mezzi già sperimentati in passato: il bus Greyhound da Cleveland a Toronto, il volo Air Transat per Roma e infine il treno per tornare a casa.
Coerentemente con queste prime scelte, incominciai a prendere in considerazione i parchi che avrei potuto visitare, il tempo necessario per il viaggio e il periodo dell’anno nel quale intraprendere l’avventura. Era fuor di dubbio che se volevo transitare da Sturgis avrei dovuto scegliere il periodo della prima settimana di agosto. A conti fatti, per il soggiorno a Fresno, l’itinerario negli Stati Uniti e i voli andata/ritorno erano necessari 40 giorni, da programmare fra il mese di luglio e di agosto.

In primo luogo, alloggiando a Fresno non potevo mancare di andare a visitare Yosemite Park, e Sequoia Park, distanti circa cento chilometri.
Dopo aver lasciato Fresno, nella prima tappa avrei dovuto raggiungere Las Vegas, imperdibile, passando per la Death Vally. L’attraversamento di questa zona desertica si presentava però abbastanza insidioso e pericoloso a causa dell’elevatissima temperatura diurna, difficile da sopportare fisicamente per l’uomo e…meccanicamente per l’automobile utilizzata perché le occorreva una notevole quantità di liquido refrigerante.
La prudenza e la prevenzione, in questi casi, non devono mai essere sottovalutate per evitare rischi di compromissione di tutto il viaggio. Quindi, dopo un’attenta valutazione, decisi di scartare, per sicurezza, l’attraversamento della Death Valley.
Da Las Vegas, raggiungere il Grand Canyon del Colorado sarebbe stato poi abbastanza semplice, ma prima di arrivarci, passando a nord, avrei avuto l’occasione di non perdere di vista altri due parchi molto interessanti: Zion Park e Bryce Canyon.
L’itinerario successivo mi avrebbe condotto a superare la diga di Page, sul fiume Colorado. Abbastanza vicino a questa città, avevo avuto modo di sincerarmi sulla presenza di due luoghi singolari: Horseshoe Bend, una sorta di meandro a ferro di cavallo che il fiume descrive nel suo percorso e che è possibile osservare dall’alto di una rupe; poi, il magico e stupefacente Antelope Canyon.
Di quest’ultimo ignoravo l’esistenza fin quando mi era fortunatamente capitata sotto mano una copia del mensile Airone che lo descriveva come un luogo eccezionale dove la natura, l’acqua e il vento si erano divertiti, nel corso di milioni di anni, a dare alle rocce di arenaria forme e colori fantastici.
Tappa successiva, lo spettacolare e infinito Grand Canyon, da gustare attentamente. In seguito mi sarei diretto verso il meno conosciuto Canyon de Chelly, in pieno territorio della Navajo Nation e luogo di antiche abitazioni di quelle popolazioni, all’epoca delle conquiste spagnole.
Di seguito, non mi sarebbe sfuggita Monument Valley, icona intramontabile dei viaggi “on the road”, e poi Arches Park, vicino alla città di Moab nello Stato dello Utah. Anche qui l’erosione millenaria si era divertita in modo particolare a creare grandissimi e spettacolari archi naturali di pietra arenaria. Come se non bastasse, a una sessantina di chilometri occorreva inoltrarsi, per quanto fosse possibile, nell’estesissimo Canyolands National Park.
Da Moab avrei puntato a nord e dopo aver superato Salt Lake City sarei giunto al meraviglioso Grand Teton Park e al prodigioso ed estesissimo Yellowstone Park, nel Wyoming.
Da Yellowstone mi sarebbe piaciuto poi visitare altri due siti interessanti: Medicine Wheel, un luogo sacro per la cultura dei nativi nordamericani. Poi nel stato del Montana, Little Bighorn, il luogo storico della famosissima battaglia fra gli indiani Sioux, guidati da Toro Seduto e il 7° Cavalleria del colonnello Custer.
A questo punto avrei proseguito decisamente verso est, in direzione di Sturgis, partecipando nuovamente al Rally, mentre la conclusione del “coast to coast” avrebbe ricalcato il medesimo itinerario del mio viaggio di ritorno verso Cleveland e Toronto.

Mi ci volle un mese per affinare tutto l’itinerario e stabilire un programma di massima con le seguenti date: inizio viaggio 8 luglio, ritorno a casa il 17agosto.
Tutto ciò che mi ero prefisso lo portai a conoscenza di mio nipote Jack verso metà del mese di gennaio 2014. Gli chiesi anche un parere circa il mezzo migliore da utilizzare per questo mio viaggio e, in particolare, se fosse stato meglio noleggiare una motocicletta a Fresno, oppure servirsi di un’automobile. In attesa della sua risposta, contattai a Los Angeles il mio amico Duncan Williams chiedendogli un preventivo per il noleggio della moto. Mi rispose cortesemente chiamandomi “Wild Man” e mi disse che il prezzo scontato ammontava a circa 2.500 dollari.
Simulai anche il costo del noleggio di un’auto con diverse compagnie affidabili: l’esborso si rivelò abbondantemente al di sotto di quello proposto da Duncan.
A fine gennaio Jack mi rispose dicendomi che il viaggio in moto sarebbe stato sicuramente apprezzabile ma nei mesi luglio e agosto la temperatura molto elevata era un ostacolo. Per di più, nel periodo scelto forti venti imperversavano nelle zone desertiche, mentre non era improbabile che incappassi in fortissimi fenomeni temporaleschi. In definitiva, riteneva che viaggiare in macchina sarebbe stato molto più agevole e quindi confortato da queste sue valutazioni decisi che una “car” americana era il mezzo più idoneo per viaggiare da una parte all’altra degli Stati Uniti.

Sulla scorta di quanto avevo preparato nel viaggio dello scorso anno, mi risultava adesso facile stilare una lista di tutto quello che dovevo mettere in valigia, nel trolley e nello zainetto. Era comunque necessario portarsi dietro, ancora una volta, la tenda e il sacco a pelo per ogni evenienza, mentre i capi di abbigliamento, l’attrezzatura fotografica, carte stradali e documenti e altro ancora ricalcavano quasi esattamente quello che era stato già adoperato.
Tuttavia, dovevo preparare con cura un nuovo road book con tutte le tappe e le informazioni utili per l’itinerario di viaggio da Fresno fino a Sturgis; per quello successivo fino a Cleveland potevo avvalermi di quelle che già possedevo.
Sostanzialmente, gli aggiornamenti riguardavano una nuova assicurazione, una nuova patente di guida internazionale, una carta di credito supplementare e un nuovo telefono cellulare con le mappe gps degli stati che avrei attraversato.
Inoltre, questa volta, bisognava predisporre l’ESTA per l’ingresso negli Stati Uniti con il volo da Toronto - Los Angeles.

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continua…
 
Bene altro viaggio interessante da seguire dove un tratto del percorso si intreccia anche con parte di un mio viaggio negli USA.
 
2 – seguito USA Coast to Coast and Park to Park

Mancavano cinque mesi alla data di partenza e quindi c’era tutto il tempo per mettere a punto i dettagli organizzativi. Quindi, per prima cosa, stilai un promemoria, una sorta di scadenzario delle attività da rispettare e da eseguire fino al giorno della partenza.
Per quanto riguarda i parchi da visitare, mi feci una vera cultura per ciascuno di essi. Per di più, poiché erano presenti numerosi tracciati per il trekking, mi colpì e mi entusiasmò in modo particolare quello che, partendo da un punto preciso della sommità del Grand Canyon, scendeva fin giù al fiume Colorado con un percorso di 11 chilometri. Il sentiero, dopo essere passato sulla riva opposta attraverso un ponte, conduceva nuovamente alla sommità con un tragitto di 14 chilometri.
Anche Zion Park, Bryce Canyon, Canyon de Chelly e Arches Park avevano tracciati escursionistici di tutto rispetto ed io intendevo praticarli, se mi fosse stato possibile. Per questo, nel road book, oltre ai dettagli stradali delle tappe automobilistiche di avvicinamento a tutti i parchi, inserii anche i percorsi trekking e tutte le informazioni riguardanti le escursioni.

Prima di dar corso alle prenotazioni dei biglietti dei voli di andata e ritorno per gli Stati Uniti, dovevo procurarmi l’autorizzazione all’ingresso tramite la procedura elettronica denominata ESTA, usufruendo del programma senza visto,
Verso la metà di aprile, decisi che era giunto il momento opportuno e collegandomi attraverso internet con il sistema operativo americano inserii tutte le risposte alle più svariate domande, pagai elettronicamente 14 dollari e ottenni quasi immediatamente la risposta alla mia richiesta di visto: “Autorizzazione approvata”. Potevo entrare negli Stati Uniti come turista e rimanervi per un massimo di 90 giorni.
Il passo successivo fu quello di prenotare e pagare i voli di andata e ritorno con la compagnia canadese Air Transat, perché era possibile avvalermi, una volta alla settimana, di un transfer senza scalo da Lamezia Terme, in Calabria, verso Toronto.
A conti fatti, il prezzo del biglietto era inferiore a quello con partenza da Roma. Inoltre, l’aeroporto di Lamezia era pur sempre di tipo regionale e quindi molto meno congestionato di quello della capitale. Arrivarci non sarebbe stato difficile perché avrei utilizzato l’autobus delle Ferrovie dello Stato che ogni giorno, a mezzanotte, collegava la stazione ferroviaria di quella piccola città.
Il volo di ritorno, in ogni caso, avrebbe avuto come scalo Roma e poi avrei dovuto prendere il treno pomeridiano. Questa volta, però, avevo deciso di acquistare in anticipo il biglietto ferroviario per ovviare a tutti gli inconvenienti che l’anno scorso mi erano capitati a Roma - Termini.
Pochi giorni dopo, comprai on-line, anche il biglietto Air Canada da Toronto per Los Angeles.

Per essere sicuro di non perdere la coincidenza, mi premurai di inserire, come data di partenza, il giorno seguente dell’arrivo del volo Air Transat da Lamezia. Si trattava in definitiva di attendere a Toronto meno di una giornata, con l’opportunità di andare a trascorrere un po’ di tempo “down town”.
I biglietti dei voli arrivarono con la posta elettronica e la polizza assicurativa fu stipulata on-line.
Per quanto riguardava il noleggio dell’autovettura, dopo alcune simulazioni mi affidai a una delle più note compagnie internazionali. La località di consegna era l’aeroporto di Fresno e quella di fine viaggio l’aeroporto di Cleveland.
Peraltro, il luogo esatto dove riconsegnare l’auto si trovava vicinissimo all’albergo Americas Inn dove avevo avuto modo di soggiornare nel mio viaggio precedente. L’unico inconveniente dipendeva dal fatto che, lasciando l’auto in una stazione di noleggio diversa da quella in cui era stata presa in consegna, bisognava pagare il cosiddetto “drop off” (oneri di riconsegna) abbastanza oneroso. In ogni caso, non c’erano alternative valide. Fra molte auto disponibili scelsi una Ford Focus, un’autovettura di media cilindrata che a mio avviso avrebbe consumato poca benzina e sarebbe stata di sicura affidabilità.

Da ultimo, bisognava recarsi alla Motorizzazione per la richiesta della Patente Internazionale.
Preparai la documentazione, la consegnai, pagai il balzello di tasse e andai a ritirarla dopo una settimana, così come mi era stato comunicato. Però, nel momento della consegna e stranamente, l’impiegata non riusciva a trovare quel documento di guida. Mi pregò di attendere e quando tornò mi disse che dovevo salire negli uffici del piano superiore, senza fornirmi ulteriori spiegazioni.

Questa faccenda mi sembrava alquanto strana e negli uffici del piano direzionale mi informarono che non potevano darmi il foglio della patente internazionale perché la fotografia sulla mia patente di guida ordinaria era troppo datata.
Il dirigente della Motorizzazione, una signora altezzosa con la quale discutevo e alla quale rendevo le mie contestazioni, si mostrò irremovibile, pretendendo che sostituissi la vecchia patente con una nuova su cui apporre una fotografia recente. Solo dopo quest’operazione mi avrebbero potuto rilasciare la Patente Internazionale. Più adirato che mai, le feci presente che fra poco più di un mese mi sarei dovuto recare negli Stati Uniti e quindi non c’erano i tempi tecnici per rinnovare la patente.
In ogni caso, le precisai che se fosse stato valido ciò che asserivano, non vedevo la ragione per la quale l’anno precedente la patente internazionale mi era stata concessa.
La direttrice continuava imperterrita nel rifiuto, sostenendo anche inverosimile il rilascio della patente dell’anno precedente. Di rimando le feci presente che sarei tornato il giorno seguente e che gliel’avrei mostrata, dopo di che avrei preteso che la consegna immediata di quel documento internazionale.
Il giorno seguente tornai dalla direttrice e le mostrai la patente internazionale dello scorso anno: la firma di convalida su questo documento era proprio la sua!
La nuova Patente Internazionale mi fu consegnata senza indugio.

“Meno di un mese all’alba”, un’allocuzione di stile naia militare che allude alla fine di qualcosa a cui si è obbligati a soggiacere con sacrificio.
Per me, “l’alba”, rappresentava la data di inizio del mio nuovo viaggio in America nel quale riponevo tutte le aspettative, le fantasticherie e le sensazioni di libertà che mi avrebbero condizionato positivamente.
Pertanto, scrissi a Jack una mail informandolo che avevo organizzato tutta la “spedizione” e che sarei arrivato a Los Angeles il 10 luglio con un volo Air Canada proveniente da Toronto. Poi avrei cercato di prendere il bus Greyhound che partiva dopo mezzogiorno e arrivava a Fresno alle 17 e 30. Jack mi confermò che sarebbe venuto a prendermi alla stazione degli autobus di Fresno. Così era stato deciso e con Jack non ci furono ulteriori contatti.

Fervevano dunque i preparativi e, per quanto riguarda i tre colli costituiti da zainetto, valigia e trolley, occorreva prestare particolare attenzione al peso di questi ultimi due.
Tuttavia, la tenda e il sacco a pelo, li avevo riposti nella valigia che, a differenza del sacco dell’ultimo viaggio, era adesso più facile da trasportare perché …aveva le ruote.

Qualche giorno prima della partenza tutto era stato sistemato a dovere ed ero pronto e preparato per dare inizio alla mia seconda spedizione in territorio americano.​

continia…
 
3 – seguito USA Coast to Coast and Park to Park

TRIP START and FLIGHT TRANFER to TORONTO


Tra mille incombenze dell’ultimo minuto e il meticoloso controllo di tutto il bagaglio che mi porto
appresso, finalmente è arrivato il giorno della partenza.
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E’ una giornata molto umida con un vento di scirocco che mi fa sudare continuamente, anche dopo aver fatto più volte una doccia fresca. Sono anche un po’ irrequieto, come sempre accade in questi momenti, e non vedo l’ora di avviarmi per stemperare la lunga e stressante attesa.
Ho già il biglietto per Lamezia, ma l’autobus delle Ferrovie dello Stato partirà soltanto alle 22 e 30 di stasera. Con il bagaglio pronto devo solo aspettare e l’impazienza si attenua soltanto verso le otto di sera quando mi concedo un poco di relax. Due ore più tardi, mia moglie con due amici mi accompagnano alla stazione e, chiacchierando, attendiamo che l’autobus si presenti sul piazzale.
Non ci sono molti passeggeri in attesa e quando arriva il bus carico i bagagli, saluto mia moglie e i miei amici che mi fanno festa e salgo a bordo, sperando di sistemarmi negli ultimi posti per cercare di dormire: tutto inutile perché sono già occupati.
Una lunga notte, questa notte, perché il bus arriverà a Lamezia Terme alle 3 e 30, ma è sempre meglio del viaggio in autobus dell’anno scorso quando impiegammo almeno sette ore per giungere a Roma.
Viaggio stressante e insonne a bordo dell’autobus anche perché, verso le due di notte, c’è una fermata…straordinaria causata da un’ispezione della Guardia di Finanza.
A Marina di Roseto Capo Spulico, in Calabria c’è un distributore di benzina che ha un’area abbastanza grande da far sostare grandi mezzi di trasporto e proprio lì i finanzieri sono soliti appostarsi per controlli.
Un poliziotto sale sul bus e, insospettito da non so cosa, invita un giovane viaggiatore a scendere. Oltre il vetro del finestrino osservo il conciliabolo nel buio della notte rischiarato solo dalla tenue sorgente luminosa di una lampada a mano dei finanzieri. Passa più di mezz’ora affinché il viaggiatore torni a sedersi al suo posto e solo dopo questo intermezzo noioso e perdita di tempo ripartiamo sulla costa jonica.
A Sibari, abbandonato il mare, ci dirigiamo sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Dopo quasi due ore di viaggio vedo sulla mia destra le luci di Falerna e la lunghissima spiaggia ad arco del golfo di Lamezia che si spinge fino al promontorio di Tropea. Siamo abbastanza vicini alla meta ma impieghiamo più di mezz’ora per arrivare alla stazione ferroviaria di Lamezia Terme Centrale, nome altisonante di quella città ma nulla di più.
Sono le 4 e 40 del mattino e mi tocca attendere parecchio, fino alle sei, per prendere la prima navetta che parte per l’aeroporto. Fortunatamente c’è un bar aperto e almeno faccio colazione all’italiana. Cerco di comprare anche il biglietto della navetta ma mi dicono che posso acquistarlo all’altro bar, proprio lì accanto, quando aprirà più tardi…alle 5 e 30.
Fa abbastanza caldo, già a quest’ora del mattino, e quindi me ne sto seduto fuori a sorseggiare la mia colazione e attendere pazientemente che giunga l’ora, quasi sonnecchiando.
Non c’è quasi nessuno in giro, salvo sporadici clienti che forse si sono levati presto al mattino per andare a lavorare e alcuni viaggiatori che attendono l’autolinea per Catanzaro.
Di treni, invece, neanche l’ombra.
All’ora prevista acquisto il biglietto della navetta e quando di lì a poco si presenta un bus di colore giallo-taxi mi chiedo se è proprio quello che stavo aspettando. Sul davanti non ha alcun cartello che indichi la destinazione. Mi tocca chiedere all’autista e solo quando mi sposto dal lato della salita noto una tabella alquanto striminzita con la dicitura “Shuttle Aeroporto”. L’autobus, comunque, è tutto per me, l’unico passeggero e dopo un percorso di cinque minuti scendo sul piazzale “Partenze” dell’aeroporto di Lamezia.
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Le ombre del mattino, mie e dei miei bagagli, si allungano sull’asfalto e prima che diventino corte, molto corte, ci vorrà molto tempo, perché l’aereo partirà soltanto all’una. Mi guardo un po’ in giro e le grandi aiuole verdi messe a prato e le palme conferiscono un tocco piacevole agli ingressi aeroportuali. Mi incuriosisce molto un monumento stilizzato sul quale si eleva una piccola statua di una Madonna Nera con Bambino.
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L’aeroporto è abbastanza piccolo, ma frequentato a ragione di molti turisti che scelgono la regione Calabria e questo territorio per passare le proprie vacanze.
Entro per sincerarmi circa l’ubicazione dei cancelli di imbarco e per dare un’occhiata alla tabella elettronica dei voli in partenza: il mio è già in scaletta…ma bisogna attendere.
Gironzolo qui e là fin quando chiamano al controllo i passeggeri del volo Air Transat per Toronto. Sono fra i primi a presentarmi al banco di accettazione bagagli e, successivamente, ai varchi di sicurezza. Transito senza che scatti l’allarme, ma un addetto, gentilmente, desidera ispezionare il mio zainetto, che autorizzo subito non avendo nulla da nascondere: tutto bene!
Man mano che il tempo passa, la sala di attesa comincia ad essere sempre più gremita di viaggiatori e di famiglie con bambini almeno fino al momento in cui chiamano l’imbarco.
Nonostante i posti siano già assegnati, la ressa è sempre la medesima, perché tutti hanno fretta di salire a bordo per sistemarsi. Non è il mio caso perché mi avvio tranquillamente verso la scaletta trovando anche il tempo di scattare una bella fotografia al Boeing 330 che mi condurrà in Canada.
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In perfetto orario, terminate le procedure, l’aereo incomincia a rullare sulla pista e pian piano prende quota lasciandosi alle spalle il golfo di Santa Eufemia e le montagne della Sila verso il nuovo mondo.
Nella traversata, a differenza di altre volte, voliamo sopra un tappeto di nuvole che non consente di guardare il paesaggio sottostante, ma presto siamo in pieno atlantico e mi concedo qualche ora di sonno quando mancano ancora sei ore di volo.​

continua…
 
Forse la responsabile della motorizzazione concedeva le patenti internazionali a seconda come si alzava. Quella mattina era una giornata no ed infatti il giorno dopo che era una giornata si l'ha concessa. 😂🤣
 
4 – seguito USA Coast to Coast and Park to Park

FLIGHT TRANFER to LOS ANGELES and GREYHOUND to FRESNO

Mi spiace che la signora che mi siede a fianco non sia molto loquace, perché avrei potuto scambiare quattro chiacchiere e ingannare il tempo. Insomma, fra una rilettura del mio programma di viaggio e vari spuntini che si succedono nel corso del viaggio, dopo oltre nove ore giungiamo in territorio canadese, a Toronto. Il cielo è parzialmente nuvoloso e quando l’aereo atterra rivedo nuovamente lo “skyline”, il profilo panoramico della metropoli delineato dei grattacieli e dall’altissima Canadian Tower.
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Il ritiro dei bagagli non è affatto difficile e per giunta posso ingannare il tempo assistendo a qualche partita dei mondiali di calcio che sono in corso in Brasile.
Sono le sette di sera e con tutti i bagagli me ne vado in centro, tanto so già quali mezzi adoperare e quale linea della metropolitana prendere per andare a Yonge Street. Prendo il treno al capolinea di Kipling e ad una delle numerose fermate entrano nel vagone una signora e sua figlia, accomodandosi in due posti quasi dirimpetto a me.
Dai loro modi di fare, dal loro abbigliamento, dalle calzature, da quello che riesco vagamente a udire e dal fatto che di tanto in tanto guardano la cinghia tricolore che avvolge la mia valigia, deduco che non siano proprio canadesi.
Infatti, poco prima di scendere assieme alla stessa fermata, causa interruzione sulla linea principale della metro, in un tentativo di approccio, quasi simultaneo, scopro che sono italiane, hanno parenti a Toronto, sono in vacanza e vivono….in un paese vicinissimo al mio: il mondo è sempre piccolo!
Scambiamo solo qualche parola di circostanza e mentre loro si allontanano in una direzione opposta alla mia, utilizzo la Linea Gialla della metropolitana di raccordo. Tuttavia, la stazione dove scendo non è certo il posto ideale per raggiungere Yonge Street a piedi. Mi consolo andando al vicino Subway per mangiare qualche cosa e fare due passi in attesa di tornare in aeroporto.
Purtroppo, non posso andare a dormire in albergo perché domani mattina, prestissimo, inizia l’imbarco del volo per Los Angeles e quindi dovrò passare la notte in aeroporto per non perdere la preziosa coincidenza.
Nella notte, mi aggiro nel grande Terminal 1 del Pearson International Airport di Toronto, quasi tutto dedicato ad arrivi e partenze nazionali della compagnia Air Canada, la medesima che alle 7 mi farà volare a Los Angeles.
Non riesco a trovare un luogo adatto dove poter almeno sonnecchiare per qualche ora prima di recarmi all’accettazione dell’imbarco con molto anticipo perché non sono a conoscenza della procedura riservata agli stranieri. Insomma, dopo un tentativo, andato a vuoto, di trascorrere il tempo andando almeno al Terminal 3, quello internazionale, e una striminzita colazione prima che faccia giorno, alle 5 decido di recarmi comunque al banco di accettazione di Air Canada.
So che dovrò pagare un sovraprezzo per imbarcare la valigia. All’operatrice che mi assegna il posto nell’aereo presento un biglietto da venti dollari canadesi ma resto sorpreso quando mi avverte che posso pagare soltanto con la carta di credito. Va bene!
Seguo le indicazioni per la porta di imbarco e appena arrivato, nonostante il passaporto in regola e l’autorizzazione ESTA, devo compilare uno stampato che mi viene consegnato da un addetto all’imbarco. Le domande sono scritte in inglese e, per quanto ne so, le risposte che fornisco non comportano ulteriori complicazioni.
Per tutta questa trafila è occorsa più di un’ora, ma sono quantomeno tranquillo nella sala d’attesa dalla cui vetrata vedo il mio aereo e all’orizzonte l’alba incombente e molte luci ancora accese dei grattacieli della città di Toronto.
Finalmente viene annunciato l’imbarco ma ci vorranno ancora cinque ore di volo e per via dei fusi orari arriverò a Los Angeles per colazione.
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Sonno e fame si alternano nel tragitto che sorvola tutto il continente americano e mi pare di scorgere dal finestrino le Montagne Rocciose e poi i deserti californiani.
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Los Angeles ci accoglie alle nove di mattino sotto una cappa di umidità non indifferente ed è già un’avvisaglia della temperatura che dovrò patire nel viaggio successivo.
Quando avevo pianificato il da farsi per spostarmi dall’aeroporto alla stazione dei bus di Greyhound, lontana più di trenta chilometri, avevo preso in esame il servizio di trasporto pubblico.
Tuttavia, ero al corrente dell’inefficienza di quel servizio perché a Los Angeles quasi tutti preferivano spostarsi in auto, nonostante il traffico caotico e i lunghi tempi di percorrenza all’interno dell’estesissima area metropolitana di questa città.
L’alternativa: il taxi, abbastanza oneroso, ma tutto sommato la soluzione migliore per giungere in tempo utile alla Greyhound e prendere il bus delle 13 per Fresno.
Così, ripescando la mia valigia dal ritiro bagagli, dopo aver passato la dogana senza impedimenti, esco facilmente dall’aeroporto, faccio cenno al primo taxi che vedo arrivare e mi faccio trasportare in mezz’ora alla mia destinazione: sessanta dollari per una tremenda sfacchinata risparmiata.
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Nella stazione Greyhound compro subito il biglietto per Fresno per trenta dollari, qualche mela alla rivendita e siccome c’è tempo vado a riposarmi fuori su una panchina a cui concede ombra un’altissima palma. Con un cielo azzurro e privo di nuvole avverto il gran caldo che fa da queste parti, come da noi nelle ore pomeridiane di agosto, ma è scontato.
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Ben prima dell’ora di partenza, rientro e mi metto in coda con gli altri passeggeri nella fila che si è formata davanti alle porte di imbarco. Poco tempo dopo un incaricato, che ci fa allineare per bene, “alla voce”, con tono alto, perentorio e assolutamente americano, annuncia la partenza dell’autobus per Barkerfield, Fresno, Modesto e Sacramento.
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Deposito la mia valigia che sarà messa nei cassoni del bus, ma con fortuna mi porto appresso il trolley, trovandogli uno spazio adeguato nelle ultime sedute dove mi accomodo. Quando partiamo la cosa che noto maggiormente sono le macchine, tantissime, enormi e lunghissime che in città e nell’autostrada viaggiano senza soluzione di continuità in ogni direzione, infestando l’aria con gli scarichi e i consumi rilevanti dei loro poderosi motori.
Più passa il tempo e più il flusso cospicuo dell’aria condizionata provoca tanto freddo da farmi rammaricare di non poter utilizzare il giubbino riposto nella valigia. Tuttavia, non appena arriviamo a Barkerfield, per la prima sosta di un quarto d’ora, mi precipito in strada.
Mi sembra di passare, in un batter d’occhio, dal Polo Nord all’Equatore a causa dell’elevata temperatura esterna, resa ancor più infernale da tubi di scappamento del motore del bus, lasciato acceso, che vomitano fumi infuocati. Mi rifugio nella stazione, ma ben presto, quando ripartiamo, si passa nuovamente all’insidioso freddo dell’aria condizionata, mentre fuori dal finestrino è un susseguirsi di un paesaggio assolutamente desertico e privo di attrattive, nella calura pomeridiana della California centrale.
Mentre si fa più vicina la città di Fresno, mi assale qualche dubbio sull’eventualità che Jack non sia lì ad attendermi poiché l’ultimo contatto che ho avuto con lui risale all’ormai lontano inizio di maggio.
Forse il medesimo dubbio lo ha percepito anche Jack perché, quando il bus giunge alla meta, perché sono l’ultimo fra i passeggeri a scendere dall’autobus e a recuperare la valigia. Ma per entrambi, non appena ci notiamo, si fa subito strada l’allegria, mentre un saluto di benvenuto e un sorriso reciproco, senza tante parole, è il miglior modo per festeggiare il mio arrivo a Fresno.
La città è molto estesa in lunghezza e la casa dove vive Jack, pur non trovandosi in periferia, è lontana ben 14 chilometri. Quando finalmente arriviamo alla dimora posso finalmente riposarmi e stemperare la calura con una buona birra fresca.
Avevo programmato che mi sarei sistemato in un motel di Fresno e quando gliene ho fatto parola mi ha semplicemente replicato: “Non se ne parla proprio!”
Per sfuggire al detto “chi non accetta non merita”, ho capitolato accettando l’ospitalità.
L'abitazione si trova in un quartiere residenziale con molte villette, quasi tutte a pian terreno e grande garage annesso. La sua non fa eccezione, è una bella casa con giardino posteriore mentre il prospetto anteriore è libero da inferriate e altri sistemi di divisione con le altre che sono accanto.
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Jack ha una Jeep che usa come mezzo di trasporto, la stessa con la quale è venuto a prendermi alla stazione degli autobus, e nel garage sostano una motocicletta Harley e una vecchia Camaro rossa. Ha inoltre due cani che gli fanno compagnia e, momentaneamente, si è liberato dagli impegni di lavoro per agevolare la mia permanenza e per portarmi a spasso.

A causa del fuso orario sono appena le otto di sera e dopo aver chiacchierato a lungo, Jack mi invita ad andare alla pizzeria italiana di suo cognato: Luna Restorant.
Nel ristorante lavorano il cognato con i suoi figli e il menu con il quale è possibile pranzare è composto da una lunga lista di pietanze tipicamente italiane; anche il genere “pizza” non fa eccezione e Jack chiede di portarcene due. La mia, però, è talmente farcita di fettine di salsiccia che, pur assaporandola con molta birra, devo scusarmi con la ragazza che l’ha portata per non averla mangiata tutta.
Nel locale ci sono molti avventori, ma vedo che dopo circa un’ora di cena siamo rimasti solo noi due, il proprietario, i figli a qualche altro dipendente. E’ come se fosse scattato una sorta di coprifuoco, perché mi sembra di capire che alle dieci di sera qui chiudono tutto e Jack me lo conferma.
E’ talmente lampante la differenza con i nostri usi e costumi che rammento a Jack, e a me stesso, che invece, a quest’ora della sera, a casa nostra …comincia la baldoria.
Comunque, dopo aver salutato tutti, assecondiamo le consuetudini e torniamo a casa a chiacchierare ancora un po’. Mi sa però che obbligatoriamente dovrò andare a riposare, dopo 48 ore di stress ininterrotto.
Tuttavia, ne è valsa la pena perché… sono dall’altra parte del mondo.​

California dreaming!

continua...
 
5 – seguito USA Coast to Coast and Park to Park

A WEEK in FRESNO

LOGO FRESNO.webpFresno, nel bel mezzo della Central Valley della California e sede dell’omonima Contea, ha più di mezzo milione di abitanti e l’area metropolitana, con un’estensione di 271 kmq, raggiunge una popolazione di oltre un milione di abitanti.
In gran parte di questo territorio californiano, l’influenza del passato ispanico si nota ovunque e ne consegue che anche il nome di questa città è una etimologia spagnola della parola “frassino”.
L’economia è basata soprattutto sull’agricoltura, fortemente caratterizzata da grandi estensioni di vigneti tanto che, non a caso, nel logo della città è rappresentato un grappolo di uva.
A detta di Jack la città non è molto attraente è non ha monumenti di rilievo che mi possano far propendere per una visita. A parte questa considerazione, ho trascorso una settimana piacevolissima e la colazione di ogni mattino iniziava con un buon caffè fatto con la piccola “moka” che avevo messo nel bagaglio.
A giorni alterni ho accompagnato Jack a lezione di chitarra elettrica. Con altri tre amici formavano una band e si esercitavano nel retrobottega di un fornitissimo negozio di strumenti musicali. Musica rock, ovviamente, che mi divertiva tanto, comprese le performance di Jack con assoli alla chitarra elettrica assolutamente impegnativi e piacevoli.
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Conoscendo questo suo hobby, mi ero portato dietro anche alcuni spartiti musicali e così nei pomeriggi in cui non avevamo nulla da fare ci divertivamo a strimpellare qualche canzone sulle chitarre acustiche che aveva in casa.
Con la sua compagna di origine greca, con dimora in una zona centrale di Fresno, un giorno siamo andati “down town” per una serata in un pub con intrattenimento di musica live.
Abbiamo preso anche qualcosa da mangiare ma quello che ci è stato servito sembrava frutta con una pallina farcita che assomigliava a un arancino di riso dal sapore dolciastro. Boh! La birra fresca era il rimedio indispensabile.
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Ad un certo punto, proprio sul più bello, nonostante il complesso stesse eseguendo buona musica blues, sembrava che il locale si stesse svuotando. Di lì a poco, anche la band ha smobilitato perché, immancabilmente, alle dieci…tutti a casa!
La medesima situazione si è verificata quando siamo andati ad ascoltare un'altra band in una piazza centrale di Fresno, vicino a un museo di arte messicana, dove ogni venerdì si teneva un evento musicale. Il batterista di colore e abbondante di stazza era molto bravo sia nelle percussioni che per la voce e le sue esecuzioni non erano da disprezzare. Immancabilmente, più o meno verso le nove e mezzo, si è verificato l’abbandono del giardino e alle dieci di sera non c’era più alcuno.


Parliamo di pranzi e cene immancabili.

Nel corso del mio soggiorno a Fresno, una persona fantastica si è rivelata la zia di Jack, con il suo sorriso sempre pronto e che ha avuto nei miei riguardi un’accoglienza e ospitalità senza pari.
E’ senz’altro una cuoca sopraffina e insieme a suo figlio Nick gestiscono da esperti imprenditori un supermercato di alimentari dove tutto parla italiano.
Quando per la prima volta mi recai con Jack al negozio, la zia fu felice nel rivedermi (qualche anno prima era stata ospite con a casa mia) e mi fece i complimenti per il viaggio che avevo intrapreso. Naturalmente, ci deliziò subito con pane fatto in casa, prosciutto e birra Moretti.
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Gli scaffali dello store erano ricolmi di prodotti italiani delle migliori marche: dalla pasta, all’olio extra vergine della nostra terra; dai biscotti, alle confetture di olive dolci; dai salumi, ai formaggi e tutti gli altri prodotti che si possono trovare in supermarket di qualità delle nostre parti.
Nel retrobottega, se così lo vogliamo chiamare, c’era un grande laboratorio di prodotti artigianali fatti in casa che la zia cura personalmente per preparare pane fresco, focacce, pasta per i dolci e dolci che sono una delizia per il palato.
Nick, il figlio, cura il reparto enoteca e mi ha molto colpito una camera a temperatura controllata, con vetrata a vista, che ha lo scopo di conservare nel migliore dei modi le preziose e costose bottiglie di vini rinomati. Questa camera è la cantina del market e negli ultimi dieci anni Nick ha continuamente ampliato il proprio reparto e aggiunto vini di qualità provenienti della California, dell’Argentina, dalla Francia e ovviamente dell’Italia: Super Tuscans, Malbecs, Barolo, Brunello di Montalcino, e molto altro fino a raggiungere una collezione di oltre settecento etichette.
Nella squisita ospitalità della zia non poteva certo mancare, nella pausa domenicale, l’invito a pranzo a casa sua. Invito che ho naturalmente accettato, consegnandole almeno un bouquet di fiori come omaggio alla sua genuina accoglienza nei miei confronti.
La casa si trova a Fresno, ma è come se ci dovessimo spostare in un’altra città visto che abbiamo impiegato parecchio tempo per raggiungere il grande ed elegante complesso residenziale nel quale l’abitazione è inserita. Una bella casa arredata in stile americano con una grande zona living e un bel giardino affacciato su un golf club.
La zia mi ha accolto con il suo smagliante, immancabile e simpatico sorriso e ha poi tranquillamente ha continuato a preparare le portate del pranzo che, da quello che vedevo, capivo che si sarebbe trattato di qualcosa da leccarsi i baffi. Ad affiancarla nella preparazione dei cibi c’era anche la figlia Carmela, che ho conosciuto per la prima volta e che ha le stesse caratteristiche affabili della madre, come pure il marito Fabiano.
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Da Fremont era giunta per salutarmi anche l’altra sorella di Jack, sempre più grassottella e con tre cani al seguito.
Devo dire che il pranzo è stato eccezionale, come se stessi a casa mia: antipasto di prosciutto e melone, pasta al sugo, carne arrostita sull’enorme barbecue fuori nel giardino, vino californiano, acqua San Pellegrino, frutta e immancabile dolce preparato da Carmela.
Alla fine, avevo trascorso una bella domenica all’italiana, allo stesso modo di quando tutti si riuniscono a tavola per pranzare con le nostre pietanze preferite, pasta asciutta in testa, e pur trovandomi così lontano mi sembrava di essere proprio a casa.
Nel corso della settimana queste scorpacciate all’italiana si sono ripetute per altre due volte.
La prima quando siamo andati a prendere l’altra sorella di Jack e con lei siamo andati a pranzo nel ristorante “Bella Pasta” di Fabiano.
Un pranzo che non dimenticherò mai perché, per iniziare, ho scelto un piatto di spaghetti aglio e olio cucinato a dovere e al dente. Poi, quando Fabiano mi ha chiesto che cosa desideravo per secondo gli ho risposto che preferivo una pietanza di pesce a base di crab, i grandi crostacei che abbondano nel Pacifico. Fabiano mi ha fatto portare una zuppa saporitissima e mi ci è voluto tempo per mangiarla tutta, innaffiata con vino Pinot Grigio.
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La seconda volta siamo andati ancora a casa della zia che ha preparato spaghetti e fagiolini al pomodoro ed è capitato che mentre li togliesse dalla pentola per metterli nei piatti le ho fatto una fotografia con il cellulare.
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Questa foto ha fatto il giro del mondo su facebook e alla zia sono arrivati i complimenti da ogni dove.
Antipasti, bistecche di maiale cotte alla brace, vino abbondante, dolce e alla fine anche l’Amaro Lucano completavano il menu luculliano.
A me non capita mai, sottolineo mai, ma pur non avendo bevuto qualche bicchiere in più, quel liquore mi ha fatto inebriare quanto basta per non riuscire ad aprire lo sportello della Jeep di Jack quando a mezzanotte dovevamo tornare a casa.
Come se tutto ciò non bastasse, un altro giorno siamo andati a fare una specie di scampagnata a Shaker Lake, 71 miglia da Fresno, dove Nick possiede uno chalet grande e bellissimo, nel bosco e con una veduta panoramica sul lago: valore immobiliare… altissimo!
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Durante tutto il giorno vi è stato un andirivieni di bambini e cagnolini del circondario per giocare e mangiare patatine e panini, mentre il vitto per noi adultii, comodamente seduti a guardare la partita dei mondiali, era composto da salsiccia alla brace e birra a volontà.
Tanto per digerire, Nick ci ha portati giù al lago, ha messo in acqua il suo elegantissimo motoscafo e il figlio si è esibito nello sci d’acqua con una sorta di piccola tavola per il surf. La gente sulla riva sembrava stesse al mare con tanto di ombrellone, mentre molti facevano il bagno, seppur l’acqua fosse molto fredda.
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Per tutta la famiglia di Nick questa bella abitazione montana è il comodo rifugio per rimediare alla calura di Fresno che nella settimana del mio soggiorno ha oscillato, come valore termico, fa i 35 e i 41 gradi!​

continua…
 
Recuperata tutta la lettura…da motociclista dico che e’ stato un viaggio impagabile ed impareggiabile alla stessa stregua del racconto! Meraviglioso, detto da uno che ha girato tutta l’Europa in lungo ed in largo in moto, dal Portogallo alla Turchia, dall’Italia a Capo Nord!
 
6 – seguito USA Coast to Coast and Park to Park

A WEEK in FRESNO /2

KINGS CANYON e SEQUOIA PARK

Il programma della mia permanenza a Fresno è incentrato sull’escursione, in giorni diversi, nei due parchi nazionali che si trovano a cento chilometri di distanza: Yosemite e Sequoia. Pertanto, con i miei due nipoti e per cominciare siamo andati a visitare Kings Canyon e Sequoia Park.
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La catena montuosa californiana ricoperta da foreste lussureggianti che ha al suo interno Yosemite, Kings Canyon, Sequoia e altri parchi minori, ma non per questo meno attraenti, si estende da nord a sud dello stato per 640 chilometri, con un’ampiezza compresa tra i 100 ai 130 chilometri, mentre il gruppo del monte Whitney, nel Sequoia Park, vanta sei picchi superiori a 4.200 metri.
Quando penso a queste grandezze e le paragono a quelle del nostro territorio nazionale, la vastità di quella catena montuosa supera per estensione l'intera area delle Alpi francesi, svizzere e italiane, messe insieme. L’unico inconveniente - ma forse è meglio così per preservare una natura incontaminata – è dato dal fatto che non esistono strade, propriamente dette, che attraversano l’intera catena montuosa, la cui estensione e maestosità si può apprezzare appieno solo con escursioni a piedi, oppure con il servizio di navette gratuite all’interno dei parchi.
In ogni caso, almeno le strade di accesso ai parchi che ho intenzione di visitare ci sono e quindi con la Range Rover dei miei due nipoti prendiamo la statale California 180, un’autostrada che taglia in due la città e prosegue poi con il nome di Kings Canyon Road, e ci dirigiamo verso la nostra meta.
La prima parte del percorso è piatta e la strada scorre in una vallata fra estese coltivazioni di bassi vigneti e frutteti, ma poi, non appena termina il lunghissimo rettilineo, si intravede, nella foschia della calura estiva, il profilo delle montagne dove siamo diretti.​
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Avvistiamo una piccola area di sosta e alcune persone che scendono da una collinetta sulla quale c’è qualche cosa di sicuro interesse e quindi chiedo a Jack di fermarsi. Quello che osservo è il cippo Giant Sequoia National Monument che segna il punto di inizio del parco nazionale e quindi qualche foto si rende certamente necessaria.​

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I boschi di conifere si fanno ora più evidenti fino a quando arriviamo al vero e proprio casello del parco e ci mettiamo in coda a molte altre macchine che sono in attesa di passare dal varco. Tutti attendono pazientemente il proprio turno e nell’attesa esco dalla macchina per fare qualche ripresa fotografica. Proprio al di là dell’ingresso, grandi e altissime sequoia sembrano invitare perentoriamente a farsi ammirare rendendomi impaziente di continuare l’escursione.
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Nel frattempo è arrivato il nostro turno e alla finestrella del gabbiotto si presenta una ranger carina alla quale chiediamo il Park Annual Pass. Il costo di 80 dollari mi sembra assolutamente irrisorio perché già questa volta entriamo tutti e tre con la macchina e successivamente mi permetterà di entrare gratuitamente in tutti gli altri parchi nazionali che visiterò. In più, ha la durata di un anno solare e può essere ceduto anche un’altra persona: mitico!
Come avevo avuto modo di appurare lo scorso anno, quando si tratta di gestire i parchi nazionali, di farli funzionare e di permettere al visitatore la migliore fruizione di quello che la natura rende disponibile, gli americani e i rangers in particolare sono veramente encomiabili e imbattibili.
Giunti a un bivio e prendiamo a sinistra della strada, che ora si chiama General Highway, per andare a vedere il Grant Tree.
Il paesaggio diventa subito stupefacente perché si transita tra boschi di sequoia di legno rosso, più snelle di quelle giganti e più simili a conifere, fin quando giungiamo al Visitor Center, affollato.​
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Una breve deviazione conduce più in basso al parcheggio del bosco dove sono presenti enormi sequoia, fra cui quella denominata Grant, in onore del generale protagonista con altri della guerra di secessione americana.
Non appena scendo dalla macchina mi trovo di fronte a centinaia di sequoia giganti che sembrano colonne che si stagliano dritte verso il cielo occupando, con i loro rami terminali e il fogliame, tutta la luce che penetra vagamente attraverso: qualcosa di veramente spettacolare che non ti aspetteresti mai di vedere!​
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Molti camminamenti, sapientemente predisposti e provvisti di staccionate di legno, partono dal parcheggio per poter visitare questa porzione del parco, assolutamente rilevante. Pertanto, mi addentro in uno di questi sentieri e le sequoia cominciano ad avere i tronchi sempre più grandi di circonferenza. Nel corso di centinaia di anni qualcuno è caduto e mi sembra alquanto bizzarro il fatto di poter perfino camminare nel vuoto del tronco, come se stessi percorrendo un tunnel, senza nemmeno dovermi piegare per attraversarlo.
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Gli alberi sequoia sono talmente longevi che non muoiono mai di vecchiaia ma solo per caduta e mi sembra molto strano che nel bosco vi siano molti rami secchi che non vengono rimossi e lasciati lì quasi per una sorta di incuria di manutenzione. Ma non è così perché quando si verificano incendi è proprio il fuoco che, distruggendo i ceppi e i rami accumulati al suolo, permette alle ceneri di creare un fertile umus che facilita la sopravvivenza delle giovani sequoia e assicura, inoltre, la propagazione dei semi.
Nella Giant Forest si trovano quattro dei cinque alberi più grandi del mondo e adesso, quando tutti noi ci aggiriamo in questa foresta, sembriamo insignificanti in confronto con quest’opera straordinaria della natura.
Ora, come può non destare stupore un albero che è alto più di 80 metri, ne ha 32 di circonferenza e 8 di diametro? Questo è il Grant Tree, un gigante davanti al quale mi trovo: una colonna di legno che si leva poderosa dal terreno e che in grandezza è inferiore solo alla sequoia Sherman.​

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E’ una meraviglia della natura che si stenta a credere come abbia fatto a crescere così tanto e che i secoli non hanno affatto scalfito nella sua potenza espressiva.
A parte tutti gli altri alberi che lo circondano, sono stupefatto anche da una sequoia del tutto particolare: ha un unico ceppo alla base ma presto si divide in due per dar vita a quelle che sembrano torri siamesi altissime, al pari di altre due caratterizzate come gemelle.
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Purtroppo i parchi sono molto, molto estesi e le attività escursionistiche sono infinite. I richiami dei punti panoramici sono come tante sirene pronte ad adescarti e dedicare un solo giorno a questa eccelsa espressione naturalistica è assolutamente riduttivo. Il tempo da dedicare – sempre scarso – gioca sempre a mio sfavore ma almeno cerco di sfruttare al meglio le circostanze che si presentano cammin facendo.

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Accontentato quindi da questa sorta di antipasto scenografico, con Jack ci spostiamo a piedi su un sentiero che conduce al parcheggio del Visitor Center per andare a dare un’occhiata all’atra attrazione spettacolare del Sequoia Park: General Sherman.​

continua...
 
7 – seguito USA Coast to Coast and Park to Park

GENERAL SHERMAN e MORO ROCK


Una strada tortuosa ma bellissima, che taglia i boschi e che bisogna percorrere, come per tutte le altre, con obbligo di 35 miglia orarie di velocità, ci conduce al grande parcheggio del sito della sequoia Shermam. C’è un grande via vai di famiglie con bambini e molti turisti perché, come è noto, la maggior parte delle persone che visitano il parco viene proprio qui per vedere la sequoia gigante General Sherman.

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Attraverso un corto sentiero ma molto ampio, scendiamo circondati da grandi e altissime sequoia per vedere quell’attrazione che è capace di stupire e attrarre i visitatori grazie alla sua mole. Nei pressi del punto esatto dove si erge l’albero, un percorso circolare fa sì che lo si possa guardare da ogni angolazione possibile.

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Quando arriviamo innanzi, molte persone sono in fila in attesa del proprio turno per farsi fotografare davanti al suo tronco e alla grande tabella di legno che intitola la sequoia all’omonimo generale della guerra di secessione americana.
Ebbene, questa sequoia gigante è l'albero vivente più grande della terra, come il suo enorme tronco di forma conica lascia facilmente intendere. Ha un’età compresa tra i 2.300 e i 2.100 anni, un’altezza di 83 metri, una circonferenza alla base di 31 metri e un diametro di 11. Il suo ramo più grande raggiunge quasi due metri di diametro e ogni anno la sua crescita equivale a un albero di proporzioni normali alto 18 metri.
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Questa sequoia gigante è qualcosa di veramente impressionante e non so quale meraviglia abbiano potuto provare i pionieri che ebbero la fortuna di vederla per la prima volta durante l’esplorazione di questa foresta incontaminata. Non finisco mai di alzare lo sguardo verso la cima che si staglia verso il cielo e che sembra comunque incombere con la sua chioma, quasi a nostra protezione. Il rito fotografico è assolutamente di prammatica e poi raccolgo dal terreno qualche corteccia e qualche pigna che cercherò di conservare gelosamente fra i cimeli di questo viaggio in California e nel Sequoia Park.

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A rendere ancor più esaustiva la visita, c’è una bella tavola esplicativa che mostra l’evoluzione di questi alberi possenti nel corso dei millenni e una piccola “fetta di tronco” offre l’opportunità di un confronto con l’altezza delle persone.
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La Sherman quasi non mi stanco di guardarla con meraviglia se non fosse per il fatto che dobbiamo proseguire per andare a vedere un altro luogo interessante: Moro Rock.
Tornati al parcheggio sento parlar in italiano e scambio qualche parola con due famiglie con ragazzi che sono in viaggio nella California e che domani hanno intenzione di attraversare la Death Valley. Non so ce la faranno, visto che la temperatura diurna potrebbe raggiungere anche i 55 gradi.
E’ un’escursione che avevo deciso a priori di non intraprendere perché in estate mi sembra sconsiderata, ma comunque faccio loro gli auguri per una bella…infornata e di uscirne sani e salvi.

Solo quattro chilometri in macchina e più avanti giungiamo al piccolo ma affollato parcheggio di Moro Rock.
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Saliamo su questo alto sperone granitico con un’ascensione a piedi di almeno trecento scalini scavati nella roccia e un corrimano di ferro messo nei punti più esposti per agevolare l’arrampicata.
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Tutta l’operazione non è pericolosa, ma bisogna fare un poco di attenzione alle strettoie e quando arriviamo finalmente in cima, un po’ fiacchi, troviamo uno spiazzo rettangolare delimitato da una ringhiera di ferro.
Da questa sommità di 2.200 metri, il paesaggio mozzafiato su Sequoia Park, a 360 gradi, è bellissimo ma potrebbe essere decisamente migliore se le attuali pessime condizioni meteorologiche fossero di tutt’altro tenore. Infatti, si nota benissimo tutta la pioggia e i temporali che si sono scatenati sulle cime dei monti non proprio lontani e nei canyon sottostanti.

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L’aria umida è talmente carica di elettricità che è impossibile toccare le inferriate, pena una scarica, seppur leggera. Un’altra evidenza tangibile del fenomeno delle cariche elettrostatiche presenti nell’aria è raffigurato dai capelli di mia nipote: quasi fossero stati scompigliati da un vento impetuoso, sono invece attratti verso l’alto al pari dell’effetto di una calamita.

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La scena è molto esilarante e divertente ma qualche cartello disposto opportunamente invita a essere prudenti. Infatti, è molto pericoloso stare quassù quando ci sono temporali nella zona per il propagarsi di fulmini che potrebbero “andare a segno” su persone. Pertanto, ci affrettiamo a scendere perché sembra che la pioggia si stia avvicinando molto velocemente proprio verso di noi. Tanto velocemente che nella discesa non riusciamo a evitarla, ci inzuppiamo e purtroppo non abbiamo indumenti di ricambio.​
Non è che faccia freddo, anzi, ma riteniamo conclusa la nostra escursione considerando conveniente tornare a Fresno che raggiungiamo dopo due ore abbondanti!

Al ritorno da questa “gita” sono abbastanza stanco ma molto appagato per aver visto le sequoia giganti, qualcosa di straordinario che vegetano da millenni, che entusiasmano tutti coloro che le guardano nella loro esuberante massa legnosa con cui la natura ha magnanimamente voluto stupire anche me…ancora una volta!​

continua…
 
Vedere il Generale Sherman deve essere qualcosa di impressionante vista la sua mole ed essersi beccati un po' di pioggia in fondo penso che sia valsa la pena per godere dello spettacolo dal Moro Rock.
 
8 – seguito USA Coast to Coast and Park to Park

A WEEK in FRESNO /3
YOSEMITE PARK
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Stamani mia nipote è partita per Fremont; noi invece siamo andati a fare spese per preparare la colazione a sacco e recarci in seguito al Yosemite National Park.
A Fresno fa abbastanza caldo, ma su in montagna sono sicuro che la temperatura sarà più gradevole e comunque, prima di giungere a Yosemite Village, punto nevralgico di tutte le escursioni nel parco, dobbiamo percorrere quasi 150 chilometri.

Lo Yosemite National Park, situato nel cuore della Sierra Nevada e istituito nel 1890, copre un'area di oltre tremila chilometri quadrati con altitudini comprese tra 600 a 4.000 metri. Presenta paesaggi tra loro molto diversi con maestosi dirupi granitici, foreste di sequoia e aree che sono simili alle nostre zone alpine. Ha una fauna molto ricca, in completa libertà, che comprende orsi, lupi e soprattutto scoiattoli. Gli avvisi affissi un po’ ovunque, consigliano di non dar loro del cibo, mentre per gli orsi, che sono di regola molto golosi, è norma precauzionale non lasciare derrate alimentari in macchina.
Il parco offre molti sentieri per bellissime escursioni che purtroppo non potrò permettermi perché, oltre che arrivare, bisogna soggiornare…sempre che si trovi posto negli alberghi. Infatti, oltre tre milioni di visitatori l’anno non sono pochi ma, in ogni caso, c’è sempre la possibilità di andare in campeggio.
Questa volta non è il mio caso perché il tempo a mia disposizione è sempre tiranno. Yosemite è grande, troppo grande per dedicare più o meno mezza giornata, ma almeno potrò togliermi la soddisfazione di essere venuto a visitarlo, sempre che le condizioni del tempo, con un cielo non completamente sereno, non ci faccia brutti scherzi.
I primi settanta chilometri della US-41 che percorriamo nella Central Valley californiana sono abbastanza monotoni perché le coltivazioni sembrano sterminate ma, non appena ci avviciniamo ai confini del parco, il paesaggio cambia radicalmente e le foreste di pini cominciano a farsi più cospicue.
Il consueto cippo del National Park Service ci avverte che stiamo entrando nella Sierra Forest e la strada comincia a serpeggiare in un territorio fitto di boschi e pinete; quando il campo visivo è più libero si può osservare il profilo di alcune montagne verso cui ci dirigiamo.
Venti chilometri di questa stretta strada boschiva, senza possibilità di sorpasso, li percorriamo in tranquillità con una velocità adeguata a farci apprezzare il paesaggio, arrivando poi al casello della stazione dei Rangers. Mostriamo il pass e subito ci fanno transitare per percorrere la strada interna che ora si chiama Wawona Road.
Poco dopo il casello, un bivio conduce a sinistra a Yosemite Valley e verso destra al bosco Mariposa Grove. Ci indirizziamo verso quest’ultimo, perché vicinissimo, e appena vi giungiamo le sequoia intorno al parcheggio sono lì a giganteggiare, quasi a gareggiare con quelle vicine per contendersi il primato e il vanto dell’altezza e della circonferenza dei loro fusti.
Ancora una volta la scenografia è spettacolare e i numerosi camminamenti predisposti consentono di ammirare questo orgoglio della natura in tutto il suo splendore. Inoltre, si possono vedere impressionanti segni di bruciatura sul fusto degli alberi più grossi e robusti, la qual cosa dimostra che sono sopravvissuti a numerosi incendi.​
Tutti i boschi delle sequoia hanno necessità che questo elemento, il fuoco, seppur dannoso, compia il rito della fertilizzazione del terreno, permettendo il perpetuarsi di questa specie di alberi unici al mondo. Tuttavia, abbastanza strano per me, se il fuoco non si manifesta naturalmente ci pensano gli stessi Rangers del servizio parchi, con una tecnica circoscritta e programmata, proprio per tutelare lo stato di salute della foresta.
Torniamo indietro, dopo questo aperitivo che la natura ci ha offerto, e dieci chilometri oltre giungiamo a Wawona, un tempo insediamento indiano e ora piccola comunità; il centro storico è costituito da numerose abitazioni dell’epoca dei pionieri e una collezione di carrozze e carri da trasporto con il classico telone bianco per copertura che si vedono nei film western.
Poi, la Wawona Road si insinua ora fra un paesaggio bellissimo di verdi boschi e giunge a un bivio dove si potrebbe proseguire per Glacier Point, dall’alto del quale si potrebbe apprezzare una bellissima veduta sulla valle, oltre che seguire molti sentieri panoramici.
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Purtroppo, fra andata e ritorno da Glacier Point occorrono non meno di tre ore che non abbiamo disponibili. Me ne rammarico, ma non per molto perché, dopo tredici chilometri e un buio tunnel abbastanza lungo, giungiamo, quasi senza preavviso, a un’area di sosta panoramica con spettacolo assicurato.
Quando gli americani istituiscono i parchi e le strade che li attraversano, sono impareggiabili nel sistemare a dovere le aree di sosta e quelle panoramiche. Questa grandissima area parcheggio denominata Tunnel View è senza dubbio il miglior punto di osservazione della Yosemite Valley per tutti coloro che giungono in auto. Infatti, il parcheggio, appena fuori dal tunnel, è stracolmo e il panorama che si può osservare è assolutamente indimenticabile e straordinario.​
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Sono affascinato da questa incomparabile veduta da cartolina perché mostra la Yosemite Valley, non a caso è chiamata "la grande cattedrale della natura", in tutta la sua magnificenza: un esempio senza pari di una conca scavata da un ghiacciaio nel corso di milioni di anni di ere geologiche.
Le ripide pareti di granito, le massicce formazioni rocciose e i boschi verdissimi, il risultato di quei sconvolgimenti millenari, mostrano come il paesaggio generato sia un'autentica meraviglia della natura.
Nel lato ovest di questa conca svetta El Capitan, un gigantesco monolito roccioso alto 900 metri - dove molti scalatori si cimentano nell’arrampicata sulle ripide pareti - la cui massa imponente è simile ad una sorta di fortezza naturale a protezione di un’ansa della valle.
Inoltre, si scorgono, anche se solo vagamente a causa della scarsa portata di acqua in estate, le famose cascate che si gettano da alti dirupi. Di contro, in fondo alla valle si vede chiaramente l’altro imponente orgoglio della natura: lo spettacolare e bellissimo Half Dome che con la sua forma caratteristica a mezza cupola e una parete verticale granitica domina dall’alto dei suoi 2.700 metri.
Nella zona pedonale dell’area panoramica, delimitata da un basso parapetto, tutti si affrettano, come noi del resto, a scattare fotografie scenografiche. C’è anche un plastico di bronzo della valle nel quale è segnato con una crocetta il punto esatto nel quale ci troviamo. Si può leggere benissimo come la Yosemite Valley, chiusa all’estremità da Half Dome, abbia la caratteristica forma a U nel cui fondo scorre il fiume Merced River. Nell’era glaciale, la poderosa avanzata delle incontenibili masse ghiacciate hanno dato vita a un vastissimo canyon e man mano che avanzavano hanno eroso il granito più morbido, lasciando invece quasi intatte le tipiche formazioni più dure El Capitan o Cathedral Rocks.
Scatto molte fotografie a questo bellissimo paesaggio che è imprescindibile venire a visitare, forse più di Los Angeles, Hollywood o San Francisco, perché questa meta della California vale il viaggio…da sola!​
Riprendiamo l’auto e qualche chilometro più avanti giungiamo alla zona parcheggio dal quale parte un sentiero che conduce alla cascata Bridalveil Fall.
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Il sentiero nel bosco, abbastanza breve, asfaltato e reso accessibile anche alle persone disabili, conduce proprio sotto la cascata denominata “velo da sposa” che dall’alto dei suoi 180 metri si tuffa in una sorta di piccolo anfiteatro naturale. Il flusso dell’acqua non è abbondante e il poco vento la disperde all’estremità superiore sotto forma di un leggero spruzzo prima di cadere scivolando sulla parete rocciosa e sui grandi massi di granito che si trovano alla base. Proprio da questo punto lo spettacolo è comunque assicurato e molti si avventurano in arrampicate su questi grandi massi di pietra cercando di avvicinarsi quanto più è possibile alla cascata, nonostante i cartelli avvertono di fare attenzione perché le rocce sono molto scivolose e pericolose.
Affatto infastiditi dalla cospicua presenza umana i nostri amici animali sgaiattolano qua e là e qualcuno si mette anche in posa per farsi fotografare.
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Yosemite è famoso anche per le sue cascate rilevanti: Vernal (97 metri), Nevada (181 metri) e Illilouette (113 metri). Non possiamo raggiungerle perché i sentieri a piedi devono essere preparati con attenzione. Peraltro, il meglio lo offrono all’inizio di primavera quando il flusso delle acque è imponente, mentre in questo periodo potrebbero anche essere di magra portata.
Le cascate che invece non possiamo mancare di vedere, nonostante la scarsità d’acqua di questo periodo estivo, sono le Yosemite Falls, 700 metri di dislivello.
Avviandoci verso il Visitor Center dello Yosemite Village, lontano appena 7 km, la strada attraversa il fondo valle fra i prati e i boschi dove scorre il fiume Merced al nostro fianco, mentre l’onnipresente e imponente struttura granitica del di Half Dome sembra sorvegliare attentamente tutto il territorio.
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Il percorso è bellissimo e abbastanza trafficato ma si può benissimo parcheggiare la macchina e dedicare tutto il tempo che si vuole per passeggiare, per andare sulle rive del fiume, fare picnic nelle piazzole attrezzate oppure per sistemarsi “en plein air” nei campeggi che si trovano in zona.
Ad un certo punto, ci imbattiamo nel punto di partenza del sentiero Four Mile Trail.
Il parcheggio dedicato è affollato di auto, tanto da far pensare che molte persone si sono avviate per percorrere questo arduo itinerario da trekking di 15 km, fra andata e ritorno e una durata di 6-8 ore, che conduce fino a Glacier Point: gli scenari spettacolari di Yosemite Valley, El Capitan e Half Dome sono senza dubbio assicurati.
Purtroppo, sono necessari ameno due giorni di permanenza nel parco, con pernottamento, per poter praticare e vivere al meglio questa interessantissima escursione e, gioco forza, non è nei miei programmi. Pazienza!
Superata una vasta area attrezzata sul fiume Merced, dopo aver attraversato un bosco la strada giunge in una splendida e vastissima pianura erbosa dalla quale possiamo osservare la Yosemite Fall a sinistra e il massiccio di Glacier Point a destra. Poco dopo arriviamo al parcheggio del Village Park, talmente affollato che a malapena troviamo posto per lasciare la macchina.
Il villaggio e il Visitor Center sono località nevralgiche del parco. Ci sono due campeggi e il capolinea di tutte le navette, numerate per destinazione, assolutamente gratuite, con le quali si possono raggiungere i punti di partenza dei sentieri escursionistici e i luoghi più interessanti, cascate comprese.
Nella palazzina del Centro Visitatori dove ci rechiamo, si ha una dimostrazione dell’eccellente organizzazione che regna in tutti i parchi nazionali e che prevede iniziative, filmati che ogni mezz’ora vengono proiettati in sale dedicate, esposizione multimediale interattiva della storia geologica e culturale di Yosemite e delle tribù indiane Miwok e Paiute che popolavano questa valle rimasta inviolata fino al 1850 quando fu esplorata per la prima volta.
Le Rangers sono sempre prodighe di informazioni e assistenza e non di rado sono attorniati da gruppi di bambini ai quali vengono illustrate soprattutto le caratteristiche della fauna e della flora del parco.
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Attendiamo una navetta, vi saliamo e scendiamo alla fermata numero 6 da cui parte un breve sentiero asfaltato che attraversa un bel bosco. Giungiamo così a Lower Yosemite Fall dove possiamo godere una bellissima veduta sulle cascate superiori e inferiori che ci sovrastano. L’acqua che scende dall’altezza di 700 metri, non è abbondante, ma nessuno della nutrita folla presente può rimanere deluso dalla scenografia delle Yosemite Falls, stando seduto sui tronchi di legno tagliati a forma di panche e messe proprio di fronte a loro.
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Prendiamo un’altra navetta e scendiamo nei pressi di una grande area picnic, situata proprio sotto la verticale, vertiginosa e monolitica parete granitica del Capitan. I nativi americani consideravano sacra questa roccia mentre oggi è diventata una delle più famose mete al mondo dove gli amanti delle scalate amano cimentarsi sul dirupo. Non mancano sul posto alcuni arrampicatori che con corde e scarpette apposite sono in procinto di tentare l’impresa.
Più avanti, in un’ansa del fiume Merced, sembra di essere al mare perché molti si bagnano in un ambiente scenografico davvero fantastico e idilliaco: grandi alberi di pino, piccole dune sabbiose e aree di relax, mentre su tutto incombe quasi minaccioso il monolite del Capitan.

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Di malavoglia, è già tempo di rientrare da questa escursione meravigliosa, anche se il rammarico per la scarsità di tempo che ho potuto dedicarvi è palese.
Ho comunque imparato una lezione: ai parchi nazionali americani occorre dedicare minimo due giorni e, a seconda dell’estensione e dalle opportunità offerte, anche tre, mettendo in conto pure il pernottamento.
Spero pertanto che il prossimo futuro voglia concedermi generosamente un’altra occasione che mi faccia apprezzare meglio quello che è disposto a offrirmi lo straordinario Yosemite National Park.

A conclusione di quest’altra splendida “gita”, torniamo a Fresno e, tanto per gradire, Jack mi porta ad High Sierra un caffè/ristorante dove sono radunati numerosi motociclisti per passare la serata all’aperto con grigliate, birra e musica live, da me molto apprezzata per il livello di esecuzione abbastanza professionale.​
Le moto sono bellissime e sul far del tramonto mi sembra di rivivere Sturgis… in miniatura!
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La mia permanenza a Fresno ha lo stesso tenore del calar del sole e per opportunità ci rechiamo all’aeroporto per sincerarmi sullo stato della prenotazione che avevo fatto in Italia circa il noleggio dell’auto. Tutta la documentazione è già pronta ma non possono mostrarmi l’autovettura perché è in manutenzione per i necessari preparativi di consegna. Al banco, pertanto, mi pregano di rimandare a domani tutte le formalità relative ai controlli e all’iter del noleggio. Acconsento.​

continua…
 
9 – seguito USA Coast to Coast and Park to Park

A WEEK in FRESNO / 4
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Oggi 19 luglio è il mio 67° compleanno e per il dilettevole soggiorno in California è veramente una ciliegina sulla torta. Da casa mi hanno fatto gli auguri per telefono e gli amici su face book, mentre mio figlio ha effettuato una videochiamata direttamente dalla sua barca a vela ancorata nel porto.
La giornata è iniziata nel miglior modo possibile e sono arcifelice.
Tempo prima, avevo edotto Jack su questo evento e come regalo si è affabilmente premurato di portarmi a cena in un ristorante italiano assieme alla compagna, a sua sorella e la suocera.
Ho tempo per preparare tutto il bagaglio per la partenza di domani alla volta di Las Vegas e poi, verso mezzogiorno, vado con Jack a salutare zia. Al solito, la sua ospitalità è eccellente perché ci fa preparare il caffè e mi delizia con pasticcini e piccoli cannoli con ricotta preparati con le sue mani.​

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Al momento dei saluti mi abbraccia forte affettuosamente ed io non posso far altro che ricambiare, sperando che un giorno possa ripagare l’ottimo trattamento che mi ha riservato durante le mie visite e per i pranzi eccellenti che ho molto apprezzato.

Verso l’imbrunire, andiamo a prendere la compagna di Jack e ci rechiamo al Ristorante Gallo per festeggiare. Attendiamo sua sorella che, immancabilmente, si presenta a bordo della sua fiammante Mercedes SLK rossa, mentre poco tempo dopo ci raggiunge anche la suocera.​
Il ristorante è decisamente affollato alle sette di sera e il regalo di compleanno è il diletto di star qui a passare questa serata in allegria. Alla cameriera di nome Cristina le diciamo di portare un secchiello con ghiaccio per mettere in fresco la bottiglia del mio spumante preferito che mi son portato da casa per questa ricorrenza speciale: Martini, ovviamente!
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Pietanze “all’americana” e a me è toccata una bistecca enorme e super condita con molta salsa. Poi la torta per fare festa, ma è il Martini fresco che fa la parte più appropriata e mentre faccio saltare il tappo i miei commensali cantano allegramente “Happy Birthday… Giovanni”.
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La suocera di mia nipote mi ha regalato un pacco di biscotti che ha preparato con le sue mani. Ho intenzione di portarmeli fino a casa, in Italia, ma ho la vaga sensazione che il propisito durerà poco perchè, prima o poi, mi delizierò a gustarli durante le mie tappe.
Come da prassi, alle dieci di sera, tutti e noi compresi, dobbiamo lasciare il ristorante perché chiude inderogabilmente. Non ci rimane altro se non chiacchierare gioiosamente sul piazzale del parcheggio con battute di spirito fra me e mia nipote che allegramente ci fanno ridere abbastanza sopra i toni.
Poi, inesorabilmente, dobbiamo salutarci. La suocera parte subito e mentre stringo forte a me mia nipote le dico, in americano, che resterà sempre nel mio cuore e di non dimenticare che sua zia attende da tempo di rivederla in Italia. Accompagniamo a casa la compagna di Jack che mi regala una maglietta di una squadra di calcio americano mentre la saluto cordialmente, sperando di rivederla ancora.

Tonnati a casa, sbrigo gli ultimi preparativi per la partenza di domani e poi di corsa a letto perché inizia un’altra….lunga e grande avventura: prima tappa, Las Vegas.
A new Adventure begins!

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10 – seguito USA Coast to Coast and Park to Park

1ª Tappa - FRESNO – PRIMM - LAS VEGAS - 645 km

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Giorno di partenza per la prima tappa “on the road” dal Pacifico all’Atlantico che mi vedrà impegnato a raggiungere Las Vegas nello stato americano del Nevada.
Stamani, dopo gli ultimi preparativi per sistemare convenientemente i bagagli in auto, di buon ora mi reco con Jack all’aeroporto di Fresno per prendere in consegna la Ford presa a nolo. Al banco informazioni una signora ha preparato tutta la documentazione e mi consegna le chiavi dell’autovettura, già pronta nel parcheggio dedicato. Andiamo a fare un controllo per vedere se tutto è in ordine e se ci sono eventuali ammaccature o altri inconvenienti di cui devo far prendere nota sul modulo di restituzione.
Il modello di automobile è quello scelto in sede di prenotazione dall’Italia. E’ una bella Ford Focus tre volumi di un colore grigio abbastanza gradevole, 1.600 di cilindrata, con una targa che è il massimo che mi potesse capitare come viaggiatore: Alaska!
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Gli interni sono confortevoli e direi che non manca proprio nulla per quanto riguarda gli accessori ad eccezione del navigatore satellitare. A questa carenza rimedierò con il mio telefono cellulare che ha incorporate tutte le mappe degli stati americani che dovrò attraversare.
Il cambio dei rapporti è di tipo automatico, presente in tutte le auto americane, ed è qualcosa a cui mi dovrò abituare nel corso del viaggio. Sul parabrezza è presente un piccolo graffio che non vedo segnato sulla scheda di controllo e, di ritorno al desk, Jack si premura di farle prendere nota sul foglio di restituzione di fine noleggio.
Assolte queste pratiche burocratiche torniamo a casa per imbarcare i bagagli e adesso è proprio dura passare ai saluti perché, come sempre accade in questi casi, c’è in fondo al cuore la tristezza di dover lasciare le persone care e gli amici che ho conosciuto. Grazie all’ospitalità di cui mi hanno fatto segno, ho trascorso una bellissima settimana fatta di escursioni entusiasmanti e pranzi all’italiana indimenticabili dei quali sono particolarmente grato alla zia Angelina, ai figli Nick e Carmela, nonché all’impareggiabile ristoratore Fabiano.
Non da meno posso trascurare l’accoglienza di Linda e di Tina che si è presa la briga di partire da Fremont per venirmi a salutare personalmente. E poi la compagna di Jack, sempre affabile e allegra, con l’unico inconveniente che durante il mio soggiorno non ho potuto colloquiare con lei se non attraverso le traduzioni.
Infine, Jack che mi ha messo a disposizione tutta la sua casa, che si è prodigato a portarmi a spasso a Fresno e nelle bellissime escursioni che abbiamo fatto a Sequoia e Yosemite. Lo ringrazio per essersi preso cura di me e, prima di partire, un abbraccio commosso e poche parole di saluto sono le uniche cose che riesco a dirgli, ma che riflettono ampiamente i miei sentimenti di affetto e il rammarico per dovermi congedare.

Sono le 9 e tre quarti, imposto la mia destinazione di viaggio sul navigatore del telefono, saluto Jack con la mano, quasi fosse un arrivederci a casa mia, e mi allontano dalla sua abitazione.
Dopo dieci chilometri mi immetto sulla Golden State California 99, l’autostrada che seguirò fino a Bakersfield. Nella Central Valley della California seguo l’autostrada a tre corsie per ogni senso di marcia, piatta e rettilinea, fra estese piantagioni e nessuna località o attrazione degna di rilievo. La temperatura è piacevolmente calda, ma il cielo coperto da nubi stratificate, senza comunque alcun rischio di pioggia, è la miglior condizione per viaggiare su lunghi percorsi. Il cielo grigio, comunque, mi trasmette un po’ di malinconia, stemperata e addolcita fortunatamente dalla piacevole musica latino/americana trasmessa dalla radio di bordo.
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Sono solo, solo con me stesso e con l’obbligo, peraltro piacevole, di dover rispettare il mio programma della tappa di quest’oggi e di quelle successive, facendo appello a tutte le mie risorse di viaggiatore e alla necessità di spostarmi con serenità e a velocità moderata.
In totale ossequio a quanto appena esposto, dopo 160 chilometri, percorsi sotto il limite delle 75 miglia orarie, raggiungo il raccordo autostradale di Bakersfield che mi permette di dirigermi a sud/est sulla Highway 58.
L’autostrada scivola piatta nella parte finale della San Joaquin Valley fra frutteti e seminativi ma, ben presto, all’orizzonte si staglia la catena montuosa di Tehachapi, una sorta di barriera oltre la quale c’è il deserto Mojave.
Appena sotto la catena montuosa la strada rettilinea comincia a salire di quota e a serpeggiare in un contesto scenografico abbastanza attraente fino a quando transito su un valico a 1.200 metri di altitudine per scendere poi nella piccola vallata nella quale alberga la cittadina di Tehachapi.
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Più avanti, mentre mi appresto a raggiungere il Mojave, cominciano ad apparire piccole piante di cactus e, a riprova che mi trovo in pieno deserto, il termometro di bordo segnala una temperatura esterna di 106 Fahrenheit, quasi 42 gradi.
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Ho percorso circa 380 chilometri senza fermarmi e appena intravedo un’area di sosta attrezzata cerco di sgranchirmi un poco. Fuori, il caldo del deserto è insopportabile e un bel albero cactus, abbastanza alto, fa bella mostra di sé in un paesaggio intorno a me dove non c’è nulla di nulla. Ma il contesto è abbastanza attraente per la sensazione di vastità che il deserto sa sempre manifestare e incantare. Mi rifugio all’ombra dei muri dell’area ristoro e qui non è difficile notare la presenza di molti manifesti che invitano a far attenzione a non allontanarsi per qualche escursione inopportuna a causa della presenza in zona di varie specie di serpenti.

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Nella mia tabella di marcia è prevista una pausa pranzo a Barstow e quindi riprendo subito a viaggiare su un rettilineo desertico che si perde nell’infinito dell’orizzonte. Il cielo ora è sereno, nessuna nuvola, il caldo delle prime ore pomeridiane imperversa e bisogna tenere l’aria condizionata ad un valore elevato; quel tanto che basta, però, per non dover poi andare incontro a un forte sbalzo di temperatura uscendo dalla macchina.
impiego più di un’ora per raggiungere, poco prima di Barstow, il raccordo per la Intestate 15, una delle quattro transcontinentali americane sulla direttrice nord-sud, che attraversa California, Nevada, Arizona, Utah, Idaho e Montana e che mi condurrà direttamente a Las Vegas.
Superato il raccordo, proseguo per pochi chilometri e, così come avevo programmato, mi fermo alla mia prima vera sosta di tappa: Subway, naturalmente!

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In verità, lì vicino, sono tentato di andare al Mexican Food Jmenez, un ristorante messicano, ma non mi fido molto di quello che mi daranno da mangiare. Meglio il Subway dove almeno posso scegliere cosa mettere nel panino guardando il companatico che hanno “a vista”.
Nel locale, l’aria condizionata va che è un piacere ma, per poter gustare convenientemente lo spuntino e la Coca Cola fresca, mi siedo dove posso evitare il flusso diretto d’aria fredda.
Appena pronto, proseguo sull’autostrada “Mojave free way” addentrandomi sempre più in questo estesissimo territorio di sabbia e bassi cespugli di roveti cotti dal sole. Ben 90 chilometri di rettilineo e poi ancora altri 90 costeggiando l’area protetta del deserto Mojave, grande quanto i parchi di Yosemite e Sequoia messi insieme, fanno sembrare interminabile questa prima tappa. Tuttavia è strano, ma a dispetto di quello che mi circonda, non cado nella noia. Talvolta, vedo piccoli insediamenti di capannoni nei quali non riesco a capire quale attività produttiva si possa svolgere in questa landa desolata e sconfinata. Qualche camion parcheggiato qua e là mi fa supporre che sono per lo più officine meccaniche per sopperire a inconvenienti al motore.
Sull’autostrada, infatti, molti cartelli invitano i camionisti a controllare frequentemente i freni dei loro mastodontici mezzi di trasporto e all’occorrenza sono presenti sul tracciato piccole cassette rosse con telefono per le richieste di soccorso.
Continuando a viaggiare sulla free way, in questo territorio pianeggiante e vastissimo, a volte fra alti cumuli laterali di scarno terriccio pietroso privo di vita e vegetazione, mi incuriosisce il cartello di un’uscita che reca la seguente indicazione e direzione: “Exit 239 – Zzyzx Road”. Sembra un “codice cifrato” comprensibile solo a chi ne possiede la chiave di lettura e, peraltro, sono sarei curioso di conoscere dove possa condurre quella strada che si dirige verso il territorio più pericoloso e sconosciuto del deserto del Mojave!​
Dopo una decina di chilometri l’autostrada passa vicinissimo a Baker, un insediamento che sembra un’oasi nel deserto, assolutamente priva di palme ma con parecchi distributori di benzina, qualche motel, tavole calde, un ristorante “greco”, pubblicizzato ancor prima da cartelli autostradali, e una sorta di altissimo totem, uguale per forma e funzione a un termometro, che indica la temperatura locale: 43°.
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Continuo e la strada comincia a salire verso una sorta di passo montano, così indicato da un cartello stradale assieme all’ammonimento rivolto ai guidatori dei camion di controllare i freni e di adoperare, nella successiva discesa, le marce basse proprio per non affaticarli. Quando arrivo in cima – si fa per dire – si stagliano all’orizzonte, nella foschia della caligine, la catena frastagliata dei monti che attorniano il Lago Mead. Non di meno, intravedo una grandissima piana, assolutamente piatta e di colore chiaro che mi fa tanto pensare alla presenza di una depressione desertica.vlcsnap-00041.webp
Più l’autostrada scende di quota, più si avvicina il confine dello stato californiano e sulla sinistra noto una grande ed estesa luce abbagliante. Più mi avvicino e più mi rendo conto che è il grandissimo insediamento della centrale solare che fornisce energia elettrica a tutte le strutture limitrofe. Il primo ad approfittarne è il vicino Primm Valley Golf Club nel quale ci si può divertire al Casinò, nuotare in piscine e giocare a golf su erba “vera”….tutto in pieno deserto!
Mancano pochi chilometri al confine della California e mentre attraverso la depressione desertica, già avvistata dal passo, assolutamente piatta e di un colore nocciola chiaro, si stagliano più in fondo gli alti pennoni pubblicitari delle strutture ricettive, dei casinò e delle attrazioni di quello che definire un paese è assolutamente un eufemismo: Primm, avamposto “mangia soldi” di Las Vegas.​
Proprio sulla linea immaginaria di confine c’è un cartello di benvenuto:
“WELCOME TO NEVADA - The Silver State”. vlcsnap-00044 7.webp
Questa è la porta di ingresso in uno Stato americano dove molte regole non valgono, a parte una: “Fare soldi, in qualunque modo!”. Infatti, proprio dietro al cartello comincia Primm che al momento non so bene come definire. Non è un paese, non è una città ma ha tutto quello che potrebbe essere paragonato a un grimaldello capace di aprire con disinvoltura e voluttà il portafoglio dei tuoi soldi, pochi o molti che siano… per farteli spendere in qualunque modo!
Il Nevada ha una popolazione di appena tre milioni di persone e quasi tre quarti di quella gente vive nell’aerea metropolitana di Las Vegas. E’ famoso per le sue leggi permissive, la legalizzazione del gioco d'azzardo, i veloci procedimenti di matrimonio e divorzio e la prostituzione legale che lo hanno trasformato in una meta turistica unica. Proprio questa “industria” è la più grande fonte di occupazione e guadagno.​

continua…

 
11 – seguito USA Coast to Coast and Park to Park

1ª Tappa /2 - PRIMM – LAS VEGAS – 70 km

IMGP2425.webpDopo almeno 200 chilometri di autostrada e di deserto è giusto che metta piede a terra per andare a dare un’occhiata a Primm, la prima occasione per il gioco d'azzardo ante Las Vegas o l’ultima possibilità prima di lasciare il Nevada.
Non ho la minima intenzione di spendere un cent!
Il traffico è caotico ma non abbastanza da non permettermi di parcheggiare davanti al grande magazzino commerciale di abbigliamento Fashion Outlets of Las Vegas. Faccio un giro all’interno dove sono presenti le migliori marche mondiali di abbigliamento e accessori. Molte persone, per lo più donne, vanno disinvoltamente a spasso con voluminose borse di cartoncino che contengono gli affari già conclusi. Gli spazi sono abbastanza eleganti e soprattutto puliti, niente schiamazzi, gabbiotti che vendono gadget e un po’ di tutto, immancabili tavole calde e …assidua presenza di macchinette per giocare!
Nelle zone di parcheggio e nei vialetti, piccole e altissime palme con pennacchio striminzito sembrano aspettare l’acqua che non arriverà mai, mentre, in prossimità di ristoranti, alberghi e casinò, aiuole verdi curate e altre palme e alberelli di tutto rispetto sono il “biglietto da visita” che invogliano i clienti a mettervi piede. Attività e attrazioni, l’una a fianco dell’altra senza soluzione di continuità, quasi fanno a gomitate per contendersi i turisti in possesso forse di lauti portafogli.
E’ il caso dell’onnipresente McDonald e del Primm Valley Resort Casino, un elegante e lungo palazzo bianco con torrette ottagonali appuntite. Il dirimpettaio, dall’altra parte della strada, è il Buffalo Bill's, un casinò reclamizzato dalla grande insegna di un copricapo pellerossa e dalla veloce giostra di montagne russe che lo racchiude.
Dall’altra parte dell’autostrada, mostra la sua accattivante e fiabesca struttura il Whiskey PePe’s Hotel e Casino, ma non mi avventuro nelle vicinanze. Gli alberghi di questi casinò hanno un costo irrisorio, circa 60 dollari o anche meno, in rapporto alla sistemazione apprezzabile in camere molto ampie con tutti i confort.
Ai manager di questi alberghi interessa che il soggiorno dei clienti sia abbastanza lungo e invitante, quanto basta per permettere loro di dilapidare i loro averi al gioco d’azzardo, alle roulette e alle slot machine, spendendo molti dollari senza vincere…nulla!
Per ora, non oso entrare in questi casinò; sono invece invogliato – e molto – di andare a curiosare in quelli di Las Vegas, meta della lunga tappa odierna, e lontana appena 70 chilometri.
Pertanto, dopo aver fatto benzina alla Chevron riparto sul rettilineo dell’arido territorio circostante guardando l’ultimo casinò di Primm che offre una sistemazione al disotto degli standard: solo 39 dollari per notte.
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Più avanti incomincio a vedere grandi tabelloni pubblicitari che mi inducono a pensare essere vicino alla meta. Nel mio road book c’è scritto di prendere l’uscita 25 per raggiungere, con una sorta di complanare, Tropicana Avenue, nelle cui vicinanze devo pernottare. E’ una soluzione meno complicata di altre perché evita molti raccordi pericolosi di questa autostrada che, si stenterebbe a credere, attraversa praticamente tutta Las Vegas passando quasi nel centro della città.
Proseguo a modesta andatura per non farmi sfuggire la deviazione e quando la impegno percorro una strada a due corsie, niente affatto trafficata, fino a un agglomerato di edifici di non molti piani e senza clamore. Penso di essere entrato a Las Vegas dalla parte meno appariscente della città ma, procedendo, quasi subito mi si para a sinistra l’elegante Sud Point Hotel con aiuole rasate e piccoli alberi di pino.
Aree alberate sono più fitte a sinistra nei pressi del World Mark Las Vegas mentre sulla mia destra è ancora zona desertica. Non per molto perché poco più avanti riesco a ritrarre di sfuggita la mitica insegna “Welcome to Fabulous Las Vegas”.

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Direi che da questo punto in poi comincia il bello!
Infatti, le palme sono il segno distintivo dello spartitraffico di Sud Las Vegas Boulevard che sto percorrendo e che annuncia casinò lussuosi, motel per tutte le tasche, snack-bar e immancabili negozi di video poker. Ad un tratto ecco l’elegantissima struttura elicoidale del Mandalay Bay.

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Molti resort e casinò di Las Vegas hanno una tematica che fa da sfondo alle decorazioni, esterne e interne: per il Mandalay il tema dominante è il sud-est asiatico in un ambiente da super villaggio turistico con almeno sei piscine dove divertirsi all’ombra dei 43 piani del palazzo. Ha un solo casinò che però si estende su 12.000 metri quadri, numerosi ristoranti con chef di fama internazionale e un Centro Congressi che ospita spesso convention, esposizioni, concerti e incontri di pugilato.
Non faccio in tempo a distrarmi con Mandalay che subito si staglia accanto, sempre a sinistra, l’obelisco, la sfinge e la piramide nera di Luxor, hotel e casinò: sconcertante tematica egiziana presa a prestito in modo accattivante ma sicuramente…illusoria.
Il tempo di passare l’incrocio sul quale insiste Luxor ed ecco un’altra attrazione alberghiera fantasmagorica: Excalibur con guglie colorate di improbabili castelli medievali fiabeschi che farebbero la felicità e la curiosità dei bambini solo a guardarlo.​

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Las Vegas Boulevard è ora un’arteria a sei corsie per senso di marcia, un’autostrada in mezzo alla città, e ho la certezza di essere arrivato in pieno centro.
Infatti, a destra ora c’è il mitico Tropicana e poco oltre, appena superato l’importante incrocio di Tropicana Avenue, interconnessione nevralgica con la Interstate 15, c’è il casinò tematico New York New York con gli edifici strutturati in modo da simulare i grattacieli di quella città, soprattutto l’Empire State Building e il ponte di Brooklyn che fanno da sfondo al glorioso monumento della Statua della Libertà.
Nel mio programma di tappa c’è scritto che proprio in quell’incrocio devo svoltare a destra perché dopo appena 700 metri si trova il Motel 6 che avevo programmato per il soggiorno. Il semaforo è rosso e mi permette di dare uno sguardo alla mole dell’hotel MGM Grand con annesso casinò, il cui emblema è un gigantesco leone che sembra essere stato messo a guardia dell’intera grandissima struttura alberghiera. Sulla sommità campeggia un’enorme insegna pubblicitaria per gli spettacoli dell’illusionista David Copperfield.
Per il soggiorno di due notti, ho scelto questa zona di Las Vegas perché mi permetterà di passeggiare subito sulla “Strip”, gergo famosissimo del Las Vegas Boulevard. E’ lungo almeno cinque chilometri, inizia proprio dall’incrocio del Tropicana e su questa specie di autostrada cittadina insistono quasi tutte le maggiori attrazioni del gioco d’azzardo e non solo.
Nel circondarioi ci sono altre strutture ricettive interessanti e dopo aver individuato il Motel 6, un hotel misero ed essenziale al cospetto di quelli blasonati, penso che la mia permanenza meriti qualcosa di meglio. Accanto c’è Hooters Hotel, molto più sfavillante, e allora decido di …andare a provare!

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Parcheggio, entro e mi reco alla reception o per meglio dire…nel casinò! Una macchina americana del tipo “muscol car” è il primo “biglietto da visita”. E’ offerta in premio a chi la vincerà non so a quale gioco in un salone ampio e lunghissimo dove molta gente è dedita a giocare a roulette, baccarà, slot machine e atri passatempi “spenna polli”.
Spendo 140 dollari per due notti e mi sistemo al decimo piano dell’hotel. La stanza è abbastanza confortevole ma la finestra è senza balcone e si affaccia sul vicino aeroporto, mentre lateralmente si nota il casinò MGM. Una veloce sistemata e poi scendo in strada con l’intento di girovagare un pò.
Un ponte pedonale, accessibile anche con ascensore, mi permette di passare dall’altra parte delle otto corsie di Tropicana Avenue e non posso fare a meno di entrare nel casinò MGM.
L’ingresso è libero, non c’è nessun controllo e l’impatto è decisamente eclatante perché tutte le sale da gioco sono in piena attività. Soffitti bassi incombono sui tavoli verdi dove disinvolti croupier sono impegnati a distribuire prontamente le carte da gioco americane a scommettitori dediti a tentare la sorte …fumando tranquillamente!
Sì, perché la regola di fumare al tavolo da gioco è una delle caratteristiche imprescindibili dell’accanimento ludico. Mi sembra che non sia minimamente vietata, anzi incoraggiata, in tutti gli ambienti di casinò, ristoranti, alberghi e altre attrattive di Las Vegas. Sono allibito!
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Il lunghissimo e ampio corridoio – se posso così definirlo - dove sono sistemate tutte le attrezzature per far soldi è sfavillante di luci e colori attraenti. Tappeti e moquette dappertutto sono di prammatica al pari degli squilli e del tintinnio delle file interminabili di slot machine posizionate ad arte. Anche i banconi dei bar non sono esenti dalla possibilità di tentare la fortuna, bevendo contemporaneamente alcolici: basta solo pigiare i tasti del monitor di una slot elettronica inserita nel lucido ripiano delle consumazioni. Non mancano i ristoranti dove far colazione e dopo aver attraversato tutto il casinò ne trovo uno decisamente fuori dal comune: Rainforest Cafè.
Dalle vetrate posso osservare, con sconvolgente ilarità e stupore, che i commensali pranzano in una…giungla.
L’ambientazione ha tutti gli ingredienti per replicare una foresta amazzonica, naturalmente finta, nonostante l’impegno artistico – si fa per dire - di impiegare ingredienti e addobbi tipici: liane di pura plastica colorata, al pari delle piante di verde cupo, un gorilla che sbraita, l’acqua di una cascata con annesso laghetto in cui si muove un coccodrillo telecomandato che è l’attrazione principale di tutti i bambini.

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In questo scenario se la spassano i clienti seduti a panche di finto legno esotico, al bagliore di improbabili torce la cui fiamma è …elettrica!
Nel frattempo, è sopraggiunto un po’ di languore allo stomaco. Passo fuori attraverso a una grandissima porta girevole e mi reco in un luogo retrostante MGM dove so che c’è il mio solito posto per mettere qualcosa in pancia: Subway.
Il locale e abbastanza modesto, condiviso con un negozio che vende bibite e soprattutto qualsivoglia gadget e souvenir di Las Vegas. Le pareti simulano la roccia e il soffitto è dipinto come il cielo azzurro con qualche nuvoletta. Ma il meglio sta negli uccelletti, questa volta in carne ed ossa, che cinguettano e svolazzano dappertutto nell’attesa di reperire qualche briciola che inevitabilmente cadrà sui banchi di consumo.
Intanto, è già sera. La temperatura elevata e un vento torrido, complice anche la stanchezza del lungo viaggio, mi convincono a desistere dal proseguire, rimandando il prosieguo del tour sulla strip a domani mattina presto. Comunque, non manco di scattare qualche foto “by night” al casinò fiabesco e alla Statua della Libertà e poi vado a rintanarmi nella mia fresca stanza, guardando ciò che di Las Vegas si riesce a vedere dalla finestra.

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Good nigth Las Vegas!

continua...
 
12 – seguito USA Coast to Coast and Park to Park

LAS VEGAS STRIP

Las Vegas è notoriamente identificata come la capitale mondiale del gioco d’azzardo” nonché, in passato, “cassaforte” della mafia italo-americana che proprio qui creò il gioiello del suo impero finanziario clandestino: il Famingo.
L'affascinante e gigantesca macchina mangiasoldi denominata Paradise che aggromela la città e tutte le estese aree limitrofi funziona 24 ore su 24, tutti i giorni, senza mai fermarsi.
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Fondata dai Mormoni verso la metà del 19° secolo, nel deserto del Mojave, deve la sua straordinaria fortuna al gioco d’azzardo legale e ai milioni di turisti che ogni anno vengono in questa città scintillante di neon, “la più americana delle città americane”, a tentare la sorte, caparbiamente e inutilmente, ai tavoli dei casinò e alle famose “slot machine”. A Las Vegas si contano non meno di 40.000 macchinette “mangiasoldi” e almeno 2.000 tavoli da gioco affinché tutto possa essere orientato al divertimento e al profitto. Se nei lussuosi alberghi che fiancheggiano la Strip il costo delle camere è assolutamente conveniente e i prezzi dei ristoranti sono dimezzati rispetto alle altre città degli Stai Uniti, non è certamente per generosità o dovere di ospitalità. Lo si deve piuttosto alla speranza, e direi alla certezza, che la febbre del gioco possa invogliare e incitare il turista a divertirsi con i suoi dollari sui tappeti verdi o davanti agli “one armed bandits” – banditi armati di un sol braccio - come in gergo sono chiamate le macchinette ruba soldi.
Ma se il gioco, lo spettacolo e la prostituzione legale e organizzata sono le principali fonti di milioni di dollari, c’è un altro aspetto dell’industria locale che non va sottovalutato. Infatti, su Las Vegas Boulevard ci sono decine e decine di cappelle, aperte di giorno e di notte, dove si possono celebrare matrimoni “lampo” e legali, officiati da un esercito di pastori, al modico prezzo di 50 dollari.

Dopo una notte un po’ insonne per il continuo rombo del via vai di elicotteri che partivano dal vicino aeroporto e suppongo portassero i turisti a vedere dall’alto lo spettacolo scintillante di “Las Vegas in the night”, mi son dovuto levare alle sei del mattino. Colazione a una caffetteria interna dell’albergo, una passeggiata nel casinò con avventori già intenti a giocare e sono pronto per accingermi a passare la giornata nella famosissima Strip di Las Vegas.
A quest’ora del mattino in giro c’è poca gente ma sono sicuro che sia la notte a far la parte del leone. Transito nuovamente attraverso MGM, senza un minimo controllo che mi permettesse di accedervi, e già così presto le sale da gioco sono sempre in attività illudendo gli incalliti habitué che per stemperare la delusione della mancata vincita…fumano!
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Dal punto in cui mi trovo, il tratto della strip da percorrere sarà lungo almeno quattro chilometri, ma è un pellegrinaggio che mi tocca se voglio vedere le attraction che si affacciano su questa strada. Mi muovo a destra, in ombra, e subito le attrazioni e i negozi simbolo si snodano uno affianco all’altro: Coca Cola, Hard Rock Cafè, Harley-Davidson, ristoranti, pizzerie, negozi di abbigliamento, altri di variegata mercanzia.
Mi sembra, però, che qualcosa il meglio e più elegante si trovi dalla parte opposta.

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Infatti, si snodano i negozi alla moda di Dolce e Gabbana, Tiffany, Gucci, Prada, i grattacieli del Cosmopolitan, Aria e, più avanti, il quadrilatero forse più interessante e visitato dell’intero Las Vegas Boulevard: l’elegantissimo palazzo Bellagio con il suo mitico lago, il Caesars Palace dalla inconfondibile tematica da “impero romano”; di fronte il casinò Paris Las Vegas, facilmente individuabile, anche da lontano, per via di una grande Mongolfiera colorata e da un’imitazione, in scala ridotta, della Torre Eiffel.
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Volutamente, non entro in questi casinò perché il cliscè dei tavoli da gioco è sempre il medesimo ma presto più attenzione al Bellagio, il casinò esteticamente e architettonicamente più bello di tutta Las Vegas e una delle più importanti case da gioco del mondo. Il Bellagio è una struttura polivalente che funge da hotel, casinò, ristorante, centro congressi e avvenimenti sportivi e fu edificato spendendo circa 1,6 miliardi di dollari. La sua architettura è modellata sullo stile delle case e del paesaggio presenti sul Lago di Como sul quale il comune di Bellagio si affaccia. La capacità alberghiera è forte di circa 4.000 stanze e dinanzi all'edificio sono presenti le famosissime fontane semoventi, costate 50 milioni di dollari, e considerate da tutti come una delle principali attrazioni della strip.
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Ho atteso pazientemente che mettessero in funzione le fontane, ma forse al mattino non è prevista alcuna esibizione. Forse ci sono fasce orarie per lo spettacolo ma purtroppo non le conosco. Comunque, mentre il tempo passa… avanzava inesorabilmente il caldo asfissiante del deserto!
Sono appena le dieci di mattino ed è impossibile andare in giro con un’aria soffocante maggiore di 35 gradi; anche per questo la presenza turistica è irrilevante.​
Gioco forza, torno indietro, compro una maglietta con paillettes per mia figlia, le cartoline da spedire agli amici e poi cerco di andare a dare uno sguardo al casinò Luxor.

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Il caldo però è già diventato insopportabile tanto da convincermi a rintanarmi prima possibile nell’aria condizionata del mio hotel.​

continua…
 
...e poi cerco di andare a dare uno sguardo al casinò Luxor.

Ed è qua che si interseca una parte del mio viaggio con il tuo. Io sono arrivato a Las Vegas venendo da Phoenix passando per Sedona e attraversando una zona paesaggisticamente molto bella abitata, una volta, dagli inadiani Navajo e che a me piace molto dato che amo i film western (io da piccolo stavo sempre con gli indiani).

p.s. Questo era l'hotel in cui ho soggiornato per tre giorni a Las Vegas era tra il Mandalay Bay e l'Excalibur
 
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