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"giada50" il video di "dalsnibba" che cortesemente ha messo in onda non è mio.
Ho cercato di inserire su You Tube qualche mio video (sound e tricolore al vento) ma i risultati sono scadenti e li ho rimossi. Tuttavia sul mio computr li vedo benissimo.
Ho un rapporto conflittuale con l'informatica e quindi faccio quello che posso.
Vi ringrazio comunque perchè siete assidui nel seguire la mia avventura.
 
"giada50" il video di "dalsnibba" che cortesemente ha messo in onda non è mio.
Ho cercato di inserire su You Tube qualche mio video (sound e tricolore al vento) ma i risultati sono scadenti e li ho rimossi. Tuttavia sul mio computr li vedo benissimo.
Ho un rapporto conflittuale con l'informatica e quindi faccio quello che posso.
Vi ringrazio comunque perchè siete assidui nel seguire la mia avventura.
Ciao.
Ancora non ho scritto sul tuo tread ma seguo ammirata e con un pizzico di invidia ( sana invidia) questi magnifici luoghi troppo lontani per me, ma che da sempre ho il desiderio di vedere e grazie a questo racconto in parte ne ho l'opportunità'.
Semplicemente Grazie!
 
23 - seguito Electra Glide in Blue to Sturgis

STURGIS – Giorno 2
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Ieri sera era un po’ tardi quando ho piazzato la tenda e stamani, dopo aver passato una notte tranquilla, me la ritrovo in pieno sole sotto i suoi raggi piacevolmente caldi.
Metto il naso fuori dal mio riparo in un silenzio inverosimile; guardo il cielo sgombro di nuvole e siccome la temperatura è abbastanza gradevole penso che sia la premessa per un’altra giornata da trascorrere intensamente.
Me ne sto tranquillo nel sacco a pelo a pensare come potrei sfruttare il poco tempo che ho disponibile per vivere al meglio il Raduno, già in pieno svolgimento. Avevo messo in conto di pernottare a Sturgis lunedì sera, di dedicare due giorni completi al raduno, più tutta la mattinata di giovedì e partire il pomeriggio per il viaggio di ritorno. Purtroppo, oggi è già mercoledì e a causa delle vicissitudini legate alle condizioni meteorologiche di qualche giorno fa me ne rimane solo uno da sfruttare appieno.
Quindi, risolvo la questione in questo modo: decido di dedicare tutta la giornata odierna al raduno, andando a piedi in città, così non ho il problema di lasciare incustodita la moto chissà dove; domani invece, andrò a visitare Deadwood, distante appena venti chilometri, mentre al ritorno rimarrò il pomeriggio a Sturgis, prima di prendere la strada del ritorno e far tappa per pernottare nella cittadina di Wall.

Fa decisamente caldo nella tenda, piazzata così com’è sotto il sole, e visto che c’è abbondante spazio verde, cerco di spostarla all’ombra di un grande albero. Operazione facile quella di cambiar posto alla tenda, non altrettanto quella di spostare a mano la pesantissima Harley. L’impresa si rivela difficile, se non impossibile e mi astengo in ogni caso di metterla in moto per non disturbare il vicinato. Tuttavia, mentre mi sto cimentando nel secondo tentativo, ecco che accade la cosa più strana e impensabile. Un dirimpettaio, accampato anch’egli in una tenda molto più grande della mia, vedendomi in difficoltà, viene in soccorso e assieme risolviamo la faccenda sistemando la motocicletta accanto mia alla tenda.
Il “buon samaritano” ha notato la bandierina italiana che svetta sull’asta dell’antenna radio e così comincia a parlare in italiano. Sono sbalordito, meravigliato e stento a credere che dopo giorni e giorni che non proferisco parola nella mia lingua, mi si presenta un’occasione che non posso non cogliere al volo.
Il motociclista si chiama Antonio, è messicano e lavora in un ristorante di San Francisco il cui proprietario è italiano. Mi chiede se desidero parlare telefonicamente con questo suo datore di lavoro e non so sottrarmi a questa ulteriore opportunità che mi è data da questa bella coincidenza.
Il “messicano” lo chiama in California e gli dice che a Sturgis ha incontrato un italiano, che è lì presente e mi passa il cellulare perché inizi la conversazione. Insomma, appena saluto l’interlocutore, resto assolutamente esterrefatto nel constatare, dall’altro capo del telefono, un sentimento di gioia palpabile e un “accento” che non mi giunge nuovo: il connazionale si chiama Enzo ed è di Bari!
Conversando, gli dico che sono di un paese vicino e mentre lui è doppiamente felice perché mi enuncia cognomi di paesani che sono suoi amici, io sono doppiamente stupito da queste combinazioni fortuite che capitano ogni tanto nella vita.
Quasi al termine della telefonata, il conterraneo mi chiede l’indirizzo ed lo scrivo volentieri sul taccuino del messicano, meditando che, un giorno o l’altro, “Enzo di Bari” me lo ritroverò sotto casa.
Ancora una volta devo pendere atto che nei viaggi le piacevoli sorprese non mancano mai!
Dopo questo interessante e gradevole inizio di giornata è ora di andare in città per godermi il raduno motociclistico, per “fare spese”, per soddisfare le mie esigenze alimentari al McDonald’s e per trovare finalmente un ufficio postale dal quale spedire le cartoline ai miei amici.
Lascio la moto a riposare e mi incammino osservando prima di tutto che il campeggio Hog Heaven non è particolarmente affollato, ma penso che dipenda dalla grande estensione degli spazi disponibili. Dista in linea d’aria solo mezzo chilometro da “down town Sturgis” ma, per via dei binari ferroviari e dell’autostrada 90 che si frappongono, mi tocca aggirarli e percorrerne almeno due per arrivare in città.
Comunque, dopo un quarto d’ora di cammino giungo a un incrocio a T che mi sembra un punto assai nevralgico. Infatti, andando a destra si può prendere l’autostrada; passando sotto il cavalcavia, si può andare in città; svoltando a sinistra, invece, la US-14 conduce a Deadwood. Perfetta quest’ultima indicazione quando domani andrò in quella città.
In questo settore cittadino la quantità di traffico di motociclette è smisurata; ci sono molti motel tipo Super 8 e Days Inn; nelle aree circostanti grandi gazebo messi ad arte in occasione del rally per soddisfare l’esigenza alimentare e lo shopping. Una stazione di servizio Conoco, con annessa attività commerciale e affollata da motociclisti intenti a far rifornimento, fa la sua parte nel contesto economico.
Passo proprio nel bel mezzo delle pompe di carburante e vicino a un muro del fabbricato una “cosa” stranissima attira il mio sguardo e subito medito che il mezzo di trasporto che sto osservando dovrebbe essere etichettato in questo modo: “Frankenstein Motorcycle”!
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Infatti, questa “cosa” sembra un mostro partorito a seguito di un rapporto incestuoso fra un’automobile e una motocicletta.
Il motore è un V8 350 Chevrolet di 5,7 litri di cilindrata, appoggiato su un telaio di tubi quadri; due marmittoni a scarico libero per bancata; il radiatore è più grande di quelli dell’aria condizionata; il grande filtro dell’aria nasconde sotto di se un carburatore quadricorpo; la ruota anteriore è piccola e senza sistema frenante; la forcella, doppia e striminzita, ha alla sommità una piastra da cui si allungano, per un metro e mezzo verso il guidatore, due barre di tondino di ferro che terminano al manubrio che funziona da sterzo; un parabrezza di plexiglass per protezione e due altoparlanti per ascoltare la musica, attaccati ai bracci del manubrio; il pannello di controllo ha 7 strumenti circolari e varie spie dislocate a caso, la chiave di accensione e l’autoradio; una leva laterale comanda la trasmissione; due posti, uno dietro l’altro, sul supporto del ponte posteriore; due parafanghi adeguatamente dimensionati alle ruote posteriori che sono larghe quanto quelle di Formula 1; il bagaglio può essere stivato in una cassa di alluminio mandorlato posta sul retrotreno e non mi è parso di vedere la ruota di scorta.
Dopo questa visione “horror” entro nell’esercizio commerciale che, fra l’altro, vende soprattutto magliette del raduno: ne individuo due o tre, ma mi riservo di comprarle se non trovo di meglio.
Passo anche da McDonald’s per vedere cosa c’è di buono da mangiare e mentre ieri la zona era affollata, oggi lo è ancora di più. Infatti, proprio da qui transitano tutti coloro che vogliono andare nella “main street”, nella parallela Lazalle Street e in tutti gli altri isolati di Sturgis. Questo luogo è il posto ideale dove meglio si può misurare dal vivo l’affluenza del mezzo milione di “riders” che vengono al raduno.
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Lateralmente alla zona parcheggio del McDonald’s c’è la piazzetta con il bar Sturgis Coffee e la grande bacheca di “benvenuto” dove ieri pomeriggio mi sono fermato per fare una fotografia alla mia Electra Glide. Di fronte e dall’altra parte della strada, c’è un grande distributore di carburante con annessa un’altrettanto estesa area di servizio e di lavaggio.
Ebbene, in questo incrocio senza semaforo, rispettando rigorosamente il diritto di precedenza per le svolte e senza il minimo accenno di utilizzo del clacson – qualcosa di impensabile dalle nostre parti - si fermano pazientemente e poi ripartono in fila indiana mandrie di motociclette, letteralmente, che occupano tutta la larghezza della carreggiata. Il loro divertentissimo girovagare consiste nello spostarsi tutto il giorno da un capo all’altro di Sturgis, in un andirivieni frenetico e assordante di scarichi liberi che si scatena in un trambusto “ordinato”.
In concomitanza, nell’area lavaggio del distributore carburante un drappello di ragazze in bikini agita cartelli recanti “cambio olio” e sventola grandi fazzoletti di pelle di daino per asciugare. Altre ragazze sono effettivamente occupate a lavare moto, ad asciugarle e a lustrarle a dovere perché i loro proprietari devono figurare, mantenendo piuttosto pulite le loro costose cavalcature.
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Già da qui, posso già immaginare ciò che oggi troverò realmente in centro dove, peraltro, ho avuto già un cospicuo “assaggio” ieri pomeriggio.
Intanto, mi informo sul luogo dove si trova l’ufficio postale. E’ lontano un chilometro e quando ci arrivo, finalmente spedisco le cartoline a tutti coloro ai quali “non ho detto” dove sarei andato in vacanza. Spero di far loro una simpatica sorpresa, sperando che il postino arrivi a casa prima di me.
Piccole colline dominano l’abitato e sul fianco di una di queste alture è stata composta a grandi lettere bianche la scritta “STURGIS”, visibile anche da molto lontano.
Continuando verso il corso principale, noto per lo più case basse recintate da piccoli prati erbosi, concessi a pagamento e occupati da tende per campeggio, e qualche simpatica bambina che offre acqua fresca in cambio di donativo.
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Molte grandi aree piane sono invase da grandi capannoni mobili pieni di mercanzia motociclistica; oppure sono adibite a esibizioni e mostre statiche di motociclette elaborate artigianalmente. Insomma, tutti gli spazi disponibili di Sturgis, tutte le strade, tutti gli isolati e tutti i locali sono stracolmi di moto e motociclisti.
Attraverso Lazalle Street e dopo un isolato mi immergo nella impressionante folla della “main street”, l’indiscusso regno di riders e Harley nel mese di agosto.
Descrivere tutto quello che passa sotto gli occhi è francamente impossibile ma, per sommi capi cercherò di rappresentarlo, non celando il mio entusiasmo per essere, quasi certamente, l’unico “italiano” presente alla manifestazione.

Anzitutto, solo in questa strada principale del paese sono parcheggiate e ammassate, a mio avviso, non meno di 3.000 motociclette. Ai più sembrerà un numero esagerato. Se però qualcuno provasse a salite su un’altana a pagamento, sistemata al centro della carreggiata della main street, il colpo d’occhio fotografico sulla moltitudine sarebbe straordinario. Quel numero di moto, allora, forse sarebbe sottodimensionato rispetto alla effettiva presenza sul corso, considerando anche la sua lunghezza.
C’è un formicaio di persone, uomini e donne, spesso entrambi sulla cinquantina, con il solito abbigliamento casual, tatuaggi e immancabile bandana sulla testa. Venditori ambulanti dappertutto, fast food affollatissimi, negozi di accessori moto, saloon stracolmi e una fiumana di gente che passeggia da un capo all’altro del corso sotto l’occhio discreto di una quantità irrisoria di poliziotti a braccia conserte. Atteggiamento, questo degli agenti, che sembrerà non veritiero in tutto questo marasma di moto e persone. Sembrerà incredibile, ma al raduno è molto raro che si verifichino episodi sconvenienti.
I “riders” hanno solo voglia di farsi ammirare per l’abbigliamento che hanno addosso, oppure per quello che “non hanno addosso” come la signorina che ho incrociato.
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Non c’è una sola moto Harley che sia uguale a un’altra perché anche qualche particolare insignificante la differenzia dalle altre. Le moto custom sono qualcosa di inverosimile con le loro forcelle anteriori chilometriche, la ruota posteriore da camion, i telai che sembrano essere stati scolpiti e adattati, serbatoi con artistiche verniciature psichedeliche e scintillanti cromature dappertutto. Tutto questo, su due cilindri con scatola cambio separata del mitico motore Harley-Davidson da 1,5 litri di centimetri cubici, minimo!
Mi soffermo sul marciapiede a guardare lo spettacolo dell’andirivieni di moto più o meno curiose, a due ruote, è ovvio, ma anche con tre ruote, magari due dietro e una davanti o il contrario; qualcuna porta al traino anche il carrello delle masserizie e qualcun’altra una carrozzina per la persona con handicap, che certamente è alla guida del triciclo Harley.
I saloon della strada sono pieni di gente intenta a bere fiumi di birra e altri alcolici mentre i negozi di accessori sono un formicaio. Nonostante la temperatura non caldissima, tutti o quasi tutti hanno abiti succinti, specialmente le donne a spasso can i loro boys ultraquarantenni.
Qualche coppia potrebbe anche andare a sposarsi legalmente - perché a Sturgis è ammesso anche questo - recandosi nell’Ufficio di Registro degli Atti matrimoniali dove il Funzionario, dietro compenso di 40 dollari, dichiara la coppia, ufficialmente e immediatamente, marito e moglie.
Mi soffermo davanti a una vetrina di un negozio che ha in esposizione una replica fedele della Harley-Davidson di Peter Fonda, il protagonista del film Easy Rider, icona del motociclismo americano e del viaggio avventuroso lungo la mitica Route 66.
Entro nel negozio con l’idea di comprare le magliette del raduno, ma la grafica non è molto interessante e costano molto di più rispetto a quelle che ho visto nello store della stazione di servizio che ho incontrato prima di arrivare in centro. Allora rimedio con il logo calamitato del Raduno, altre calamite che vanno a aggiungersi a quelle che ho già comprato cammin facendo e che riproducono i luoghi più interessanti che sto visitando nel mio viaggio. Per finire, compro qualcosa da regalare al ritorno, sperando che trovi spazio sulla moto e poi nei bagagli.

Me ne sto ancora ad osservare il “passeggio” ininterrotto delle moto e potrei mettere in risalto molto. Per brevità vale segnalare quanto segue: passano strombazzanti motociclette condotte allegramente e disinvoltamente da donne con scollature vertiginose.
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Transita “l’uomo tigre”, un motociclista che indossa una specie di vestito da carnevale di quell’animale.
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Passa la moto dove tutti gli spazi sono stati occupati da piccoli adesivi metallici; altre moto strane e divertenti con accessori a non finire, ma tutte rigorosamente Harley.
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Tranne una che ho scoperto parcheggiata più avanti: BMW R1200 GS, targata Alaska! Anch’essa fa il suo figurone a Sturgis dove si va per apparire, divertirsi …e spendere soldi!
E’ un vero peccato che non possa fermarmi qualche giorno in più perché il Motorally di Sturgis necessita ed è degno di essere “vissuto” nel miglior modo possibile. Mi piacerebbe andare a vedere i concerti serali che si svolgono al camping Buffalo Chip o al Full Throttle Saloon, solo per citare quelli che vanno per la maggiore, fra una folla sterminata di spettatori. Oppure partecipare a eventi giornalieri, la cui lista è praticamente infinita, che riguardano esibizioni, mostre di moto elaborate, musica, grigliate e molto altro ancora al Broken Spoke Saloon, all’Easyriders Saloon oppure nella stessa Main Street.
Ecco perché la manifestazione dura una settimana e, purtroppo, non posso spostarmi agevolmente fra tutte queste attrazioni. La motocicletta che ho noleggiato non posso lasciarla incustodita come semplice regola di buon senso. Il tempo disponibile non è dalla mia parte, condizionato com’è dalla tabella di marcia che non ho potuto rispettare. Tuttavia, il viaggio fin qui è stato esaltante: mi ha riservato sorprendenti paesaggi, luoghi e riserve indiane desiderati e alla fine “partecipare al Rally”, anche brevemente, è di fatto per me la cosa più importante!
Dopo questa emozionate “scorpacciata” di moto e motociclisti torno verso il campeggio, ma non potevo certo esimermi dal comprare le magliette dallo store della stazione di benzina Conoco.
Ne sono rimaste poche della mia taglia e ne acquisto tre. Una sicuramente la regalerò a qualcuno dei miei amici mentre le altre due le terrò per me. Le indosserò quando vorrò “apparire” andando in giro con la mia BMW, sperando che qualcuno faccia caso all’immagine stampata: Rushmore, aquila e bandiera americana e la scritta 73° Annual Black Hills Rally Sturgis.
Per completare i miei acquisti, compro anche un bellissimo cappellino con la visiera “fiammeggiante” e il logo del Rally.
Al camping giungo abbastanza stanco dopo essere andato in giro tutto il giorno a piedi. Sistemo il bagaglio nelle borse e mi preparo per ad andare al punto ristoro dell’accampamento.
Incamminandomi, conosco una coppia di motociclisti, marito e moglie, con i quali instauro una conversazione e insieme andiamo a cena. La birra mi viene offerta da costoro, mentre per nove dollari compro una pietanza che il mio compagno mi ha consigliato. In verità, quello che sto mangiando non ha un gusto particolare, ma riempie comunque la mia pancia vuota.
E’ una sorpresa piacevole constatare che anche nel nostro campeggio, non certo al livello degli altri che ho menzionato, c’è musica live. E’ offerta da una band il cui chitarrista principale ce la mette tutta per allietare quelli che son lì ad ascoltarlo e applaudirlo: per concludere la serata in tranquillità e allegria non c’è niente di meglio!
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Sono le nove di sera e forse farei bene ad andare a dormire perché domani sarà giorno di partenza. Ma prima di congedarmi dal Raduno mi attende la “old west town” di Deadwood.​

Good Night Sturgis!

continua…
 
24 - seguito Electra Glide in Blue to Sturgis

DEADWOOD - STURGIS – WALL - Back to Cleveland

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Nella notte, un sogno indecifrabile mi ha scombussolato a tal punto da farmi svegliare alle cinque. Pur frastornato, sono riuscito fortunatamente a riaddormentarmi.
Al risveglio trovo una bella giornata, il sole è caldo e approfitto subito fare i bagagli, riavvolgere il sacco a pelo, togliere la tenda e sistemare tutto a dovere sulla moto. Ho montato la camera car sul paraborse ma dubito che le riprese che effettuerà saranno buone perché da quella posizione il campo visivo non è dei migliori. Tuttavia è sempre meglio di niente.

Sono pronto a partire con lo scopo di impiegare questa giornata per visitare al mattino Deadwood, dedicare il pomeriggio al raduno e lasciare poi definitivamente Sturgis per il viaggio di ritorno.
Abbandono quindi l’ottimo campeggio e mi reco al McDonald’s a far colazione.
Prima di riprendere a viaggiare, cerco qualcuno che mi possa fotografare davanti alla bacheca Welcome to Sturgis, quella posizionata nel grande piazzale del rinomato fast food.
Un motociclista al quale chiedo la cortesia si presta immediatamente ad assolvere il compito. Lo assolve talmente bene da meritarsi i miei meritati ringraziamenti. Infatti, guardando il risultato sul piccolo monitor della Pentax, sono sicuro che questa foto sarà l’emblema ufficiale della mia partecipazione al 73° Motorcycle Rally di Sturgis.
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Contento di aver escogitato questa bella iniziativa e soprattutto dell’eccellente risultato, all’incrocio della US-14, al solito trafficatissimo, mi accodo a molti motociclisti che si dirigono alla città del vecchio west, non molto lontana.
Il percorso è bellissimo, con curve e contro curve ampie che accrescono il piacere di guidare. All’inizio la strada fiancheggia il sinuoso torrente Bear Butte. Poi taglia diagonalmente una foresta di pini e abeti sfociando quindi in lunghi rettilinei fiancheggiati da prati estesi e si addentra infine fra le colline che circondano la piccola città di Deadwood.
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Il paese sorse nel 1876 quando si sparse la notizia che erano stati scoperti filoni auriferi proprio in questo territorio delle Black Hills, riserva e proprietà degli indiani Sioux Lakota in base a un trattato stipulato a Fort Laramie.
In un primo momento molti cercatori d’oro entrarono illegalmente in quella riserva indiana pur protetta dai patti. Presto ne accorsero altri in cerca di avventura e facili guadagni. Poi fu la volta di molti personaggi di dubbia reputazione, loschi e violenti. Tutto questo fece sì che Deadwood diventasse la base logistica di tutti i traffici illegali dandogli, infine, la prerogativa di un luogo senza regole e senza legge. Molti saloon sorti dal nulla erano frequentatissimi, al pari dei locali per il gioco d'azzardo e dei bordelli utili a spennare avidamente le risorse materiali dei minatori.
Di quei personaggi duri e spietati, sono note le gesta del leggendario“Wild Bill” Hickok per i suoi metodi energici e l’abilità di pistolero nell’intento di far prevalere il rispetto della legge. Aveva acquisito anche la fama di giocatore d’azzardo e mentre era intento a giocare a poker in un saloon, situato al numero 10 della via principale della città, fu assassinato da tale Jack McCalun per vendetta. Al momento della sua uccisione, Wild Bill aveva in mano una coppia di otto e una di assi e questa combinazione è nota come “la mano del morto”:
Non meno mitica era la sua compagna e nota avventuriera “Calamity Jane”, rinomata per la sua eccellente precisione di tiro, la preferenza per l'abbigliamento maschile e il comportamento scandaloso.
Entrambi sono sepolti uno accanto all’altra su una collina che domina il paese.
Ho deciso di visitare Deadwood per assaporare l’atmosfera old west che ancora vi si respira camminando sulla main street fra vecchi saloon e edifici originali di pietre e mattoni di quell’epoca non dimenticata, trasgressiva ma pur sempre emblematica e straordinaria.
Sono appena arrivato e già vedo che Deadwood brulica di motociclisti a spasso e di moto parcheggiate dappertutto.
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Per primo, soprattutto per andare a curiosare, cerco di individuare il percorso che porta sulla collina dove giacciono quei due personaggi famosi e rappresentativi della “corsa all’oro”.
Sul Monte Moriah trovo il Centro Visitatori e in una pineta un piccolo cimitero. Un viale conduce a un piccolo rialzo artificiale del terreno e affisse alla scalinata di pietra sono poste due grandi tabelle di materiale ferroso con queste iscrizioni: “James Butler Hickok alias “Wild Bill” nato nel 1837 e morto nel 1876 a Deadwood vittima dell’assassino Jack McCall”. Nell’altra incisione si legge: “Martha Jane Burke nata nel 1852 e morta nel 1903. Il suo ultimo desiderio fu “Seppellitemi accanto a Wild Bill”.
Al termine della piccola scalinata trovo un mausoleo protetto da una cancellata di ferro e al centro un cippo con il busto bronzeo di Wild Bill. La base del cippo mi sorprende non poco perché più di un ammiratore vi ha lasciato, a richiamarne simbolicamente l’attività del famoso pistolero, qualche carta da gioco, qualche dollaro e qualche mezzo sigaro. Accanto alla cancellata, in un rettangolo erboso, rispettando la sua ultima volontà, giace Calmity Jane.
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Con un po’ di compassione, come si conviene visitando questi luoghi mesti, scendo dalla collina per andare nel cuore della città. Quando vi giungo dove potrei parcheggiare se non ovviamente nella Main Street di Deadwood?
Detto fatto, trovo un posto abbastanza centrale, vicino a un quadrivio dove si affacciano hotel, saloon e altri edifici storici importanti e mentre mi accingo a passeggiare mi imbatto, casualmente ma felicemente, nella presenza del mio vicino di tenda: Antonio “il messicano”, a spasso con un amico.
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Lo saluto con cordialità e poi avanti con la visita della città.
Qui, al pari di Sturgis e di altre località turistiche delle Black Hills, impazzano in maniera considerevole motociclette per ogni gusto che transitano in un andirivieni ininterrotto ma tranquillo.
I palazzi di pochi piani con mattoni rossi sono tutti ancora lì a rappresentare il passato storico e come allora, sono adibiti a saloon, hotel, ristoranti e store che richiamano il vecchio west.
Il Franklin Hotel inaugurato nel 1903 è un vero gioiello proprio sul corso principale e non lontano c’è il Bullock, un hotel nel quale aleggia il mito di una presenza paranormale. Seth Bullock era un ex sceriffo del Montana arrivato a Deadwood due giorni prima della morte di Bill Hickok, accettò il lavoro come sceriffo nella città senza legge e acquistò l’hotel che porta ancora il suo nome.
Il luogo che desidero visitare con molta curiosità lo scorgo abbastanza vicino perché segnalato ad arte da una tabella di legno appesa a bandiera: Saloon n° 10.
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Ha una facciata di assi di legno brunito e un solo piano superiore. Entro nel saloon da una porta che è soltanto una vecchia ruota del carro dei pionieri. Il pavimento, come un tempo, è coperto di segatura e un grande bancone accoglie molti turisti intenti a bere birra o qualche bevanda alcolica.
Il soffitto è alquanto basso e la luce profusa da scarne lampade richiamano l’atmosfera che un tempo vi regnava con tavoli da gioco e roulette; non mancano le moderne macchinette “mangia soldi”.
Le pareti sono completamente ricoperte da cimeli storici, da fotografie d’epoca, mentre in una grande bacheca illuminata c’e la sedia di legno dove sedeva Wild Bill quando, giocando a poker fu assassinato.
Assolta questa curiosità, mi fermo in una piazzetta dove sono esposte in bella mostra numerose elaborazioni moto custom. Una di queste è verniciata con una bellissima tinta rosa accattivante che non la farebbe passare inosservata; ancor più se cavalcata dalla bella ragazza, in realtà presente, adeguatamente vestita con un coordinato in tono.
Appagato da Deadwood per la visita programmata, non certo esaustiva purtroppo, per me ne torno nella bolgia motoristica della Main Street di Sturgis.
E’ giunto anche per me il tempo di mettermi in mostra, se non altro, tirando fuori e distendendo la grande bandiera blu con il logo della Federazione Motociclistica Italiana.
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La dispiego e la espongo, coprendo la mia Electra Glide, nella speranza di attirare l’attenzione di qualcuno, magari italiano, e avviare una piacevole conversazione.
Attesa vana e illusoria perché ci vuole ben altro per far breccia nell’interesse della moltitudine di persone che mi passano accanto. Senza volgere nemmeno uno sguardo alla mia bandiera giunta da così lontano, tirano dritto per i loro affari.
Ho la netta impressione che siano molto più interessati alle donne in abito succinto che vagano sul marciapiede, alle moto agghindate con forcelle chilometriche, a un vecchietto con a bordo due cagnolini bianchi e alle ragazze in decoltè che guidano mostruose Harley.
Per giunta, transita un motociclista assolutamente singolare. E’ alla guida di una Harley elaborata e la sella posteriore è occupata da un passeggero che non ti aspetteresti mai di vedere: uno scheletro! Sono allibito!
Tutto a Sturgis può succedere e mentre sto per partire, abbandonando quello che per una settimana è il “regno” delle motociclette, mi imbatto in un altro evento straordinario e inaspettato: una processione!
Sì, esatto, proprio una processione religiosa come quella che è dato vedere dalle nostre parti. Ognuno dei partecipanti, scalzo e con incedere lento e cadenzato, porta addosso una Croce di legno, cercando forse di dimostrare o di persuadere quanti li osservano che non esistono solo le motociclette ma anche loro, con l’incrollabile narcisismo di dubbio valore religioso.

Sazio non di vivande ma di esaltanti emozioni, alle tre del pomeriggio lascio Sturgis con la certezza che la mia partecipazione al 73° Motorcycle Rally si è rivelata un vero e proprio successo, di cui orgogliosamente vado fiero, coronando un sogno ardentemente accarezzato da una vita.

Mi tocca ora percorrere a ritroso 130 chilometri verso est sull’autostrada 80/90 che si snoda nell’immensa e affascinante prateria del Sud Dakota.
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La mia meta è la cittadina di Wall e il suo Drug Store, mentre domani mi attende il territorio incontaminato delle Badlands.
Quando arrivo in paese, dopo due ore, cerco subito un albergo dove sistemarmi. Ce ne sono molti, ma il primo a cui chiedo alloggio pretende 126 dollari più tasse. Declino e mi sposto al vicino e assai carino Motel Welsh: tetto spiovente su basse pareti color verde, porte rosse e parcheggio della moto sull’uscio della stanza.
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Al contrario del motel precedente mi costa appena 62 dollari e non posso pretendere di più, considerando che vicinissimo c’è il Subway per far colazione e un distributore di benzina, direi “sotto casa”, per il rifornimento di domani mattina.
Wall è un piccolo paese, ma trovandosi in una posizione strategica per visitare le Badlands, ha molte strutture ricettive e attività collegate. Ma l’attrazione più gettonata e il famosissimo Drug Store, un grande magazzino aperto fin dal 1931 per la gioia e lo shopping turistico.
Dopo aver sistemato i bagagli in camera, cerco di andare a visitarlo per comprare qualcosa, ma quando lo raggiungo è già ora di chiusura e quindi, giocoforza, devo rimandare tutto a domani.
La stanchezza, a quest’ora, è sempre in agguato ed è giusto che io vada a godermi il meritato riposo.​

“Balla coi lupi” in the great Badlands open space … tomorrow!

continua…
 
25 - seguito Electra Glide in Blue to Sturgis

Get Back - 1ª Tappa - WALL - BADLANDS - PLANKINTON - 350 km

Stanotte è piovuto, una peculiarità meteorologica consueta da queste parti. Fortunatamente, almeno durante la mia permanenza a Sturgis questo evento non si è mai verificato e sono fiducioso che non ostacoli il mio viaggio di ritorno.
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Finalmente, ho scoperto che sul mio telefonino, comprato a Joliet in sostituzione di quello volato via a inizio viaggio, posso comporre il codice segreto della scheda Telecom, evitando di cercare un telefono pubblico. Approfitto subito di questa novità inattesa per parlare con la mia famiglia all’ora di pranzo. La comunicazione funziona benissimo tanto che non mi sembra affatto di trovarmi in un luogo tanto lontano da casa.
Nel frattempo, le incerte condizioni del tempo, notate al mio risveglio, stanno evolvendo in modo positivo e quindi prima di lasciare il motel faccio una puntata al Drug Store per “vedere” e fare qualche acquisto, sapendo già che è l'unico richiamo degno di nota nella cittadina di Wall.
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Molte motociclette sono parcheggiate davanti all’emporio, grande abbastanza da contenere anche una Cappella cattolica.Nel Drug Store la presenza di negozi è molteplice. In particolare ne vedo uno con una collezione sconfinata di stivali da cowboy e su molti scaffali ci sono libri dedicati alla storia degli indiani e degli antichi pionieri.
Nella caffetteria dello store si può anche gustare il famoso "free coffee", pubblicizzato con grandi cartelloni in parecchi punti dell’autostrada I-90, e dopo averlo sorseggiato direi che non è male, in rapporto agli standard americani.
In un negozio di gioielleria compro un regalo per mia moglie e per mia figlia e cerco anche di sbrigarmi perché il tempo corre velocemente: sono già le dieci del mattino.
Wall è la “porta nord” del Parco Nazionale delle Badlands; attrae moltissimi visitatori provenienti da ogni dove. In uno straordinario territorio, incontaminato e protetto, di oltre 240.000 ettari, la natura, nel corso di milioni di anni, ha creato depositi geologici di fossili fra i più ricchi al mondo.
Ben 35 milioni di anni fa, queste zone erano una distesa di acqua salata che si trasformò poi in una palude deve si depositarono i resti di molti mammiferi preistorici. Con il passare del tempo tutto il territorio si inaridì e il lavoro dell’acqua, del vento, la pioggia e l’erosione hanno creato profondi canyon, pinnacoli cesellati di roccia e sedimenti che lo caratterizzano rendendolo unico.
I primi abitanti furono gli indiani Lakota Sioux che definirono queste zone “Mako Sica” (“terre cattive”), ma, a dispetto di questa locuzione, le Badlands sono bellissime
E’ un paesaggio di calanchi straordinario e stupendo nelle praterie del Sud Dakota, popolate soprattutto da bisonti liberi, cervi, furetti, “cani delle praterie” e….serpenti.
Quando preparai il viaggio, scaricai da internet una mappa delle Badlands e, pianificando il mio itinerario turistico, avevo “messo in cantiere” di farvi un’escursione, tanto erano invitanti la bellezza e la strada panoramica che le attraversava. Peraltro, numerosissime erano le aree di sosta e i punti panoramici dai quali osservare il paesaggio incontaminato e, tempo permettendo, vedere fossili di sicuro interesse paleontologico.
Pertanto, è giunto il momento di partire alla scoperta delle straordinarie Badlands.
Da Wall una strada rettilinea nella prateria mi conduce dopo 12 km al casello del Parco dove una bella ranger mi fa pagare 10 dollari per l’ingresso. Quando le dico che sono italiano, mi consegna, oltre a una mappa dettagliatissima, un foglio con tutte le informazioni nella nostra lingua.
Il gesto di riguardo non mi giunge inaspettato, perché gli americani, amando moltissimo i parchi nazionali e il loro godimento “al meglio”, mettono in campo tutta la loro esperienza e la poderosa macchina organizzativa di cui dispongono.
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Salutata cordialmente la simpatica ranger e attraversato il casello, percorro in linea retta un solo chilometro, poi piego a sinistra e qui comincia quello che definirei lo “stop & go” lungo i 50 ulteriori chilometri di questa entusiasmante strada panoramica, assolutamente da non perdere.
Infatti, il primo stop è in una grande banchina panoramica denominata Pinnacles Overlook. Qui, il paesaggio dei calanchi bianchi nel territorio frastagliato e arido è fantastico e si perde nel lontano orizzonte. Nell’aspra landa solo bassi ginepri forniscono un importante rifugio per la popolazione degli uccelli del parco. Per apprezzare meglio tutto quello che è possibile vedere, dal parcheggio, una scala di legno conduce fino a un piccolo promontorio allestito con punti di osservazione e binocoli.
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L’itinerario stradale, ripartendo, si insinua subito nel territorio con l’alternarsi di saliscendi, di curve e contro curve piacevolissime e a questo punto è molto importante procedere adagio per apprezzare nel migliore dei modi ciò che di volta in volta lo scenario variegato mi offre.
Neanche un chilometro e bisogna effettuare un’altra sosta in una banchina a sinistra: punto panoramico Ancient Hunters, il paesaggio è medesimo, ma questa volta la vista è verso est.
Ancora quattro chilometri e il colore bianco della distesa di calanchi cede il passo al colore giallo del punto panoramico Yellow Mounds, piccole montagnole o cumuli dove prevale il cromatismo giallo/arancione con molte sfumature da far invidia a una tavolozza.
Non c’è neanche il tempo di respirare, rimettendomi in sella, perché mi devo fermare al Conata Basin Overlook, splendido punto panoramico con una distesa di prateria a sinistra; a destra, un altro colpo d’occhio magnifico, dall’alto, sulla vallata di calanchi frastagliati.
Ormai non posso più tenere il conto delle piazzole di sosta panoramiche dove mi fermo e riparto viaggiando su questi rettilinei ed ora è la volta di Panorama Point Overlook. Dalla grande area di sosta si gode l’immenso spettacolo che lo scorrere di millenni ha disegnato: un paesaggio unico e meraviglioso di colline erose e, in lontananza, la terra piatta di una prateria senza confini.
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So che all’alba, oppure al tramonto, il paesaggio dovrebbe assumere colori spettacolari, ma con la luce di mezzogiorno devo accontentarmi di quello che vedo…e non è poco!
Più avanti, insinuandosi ancora fra i calanchi la strada attraversa e supera Big Foot Pass, scende dalla collina in un fantasmagorico paesaggio lunare e raggiunge l’area di sosta White River Vally: spettacolo assicurato!
Continuando, si para davanti una sorta di piccola catena montuosa forse difficile da superare, tanto che sembra essere stata messa lì dalla natura, di proposito, come difesa. Invece, la strada la aggira facilmente e mi ritrovo nel Norbeck Pass.
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Con grazia, le curve e contro curve attraversano il piccolo valico e mi fanno quasi sfiorare le multicolori buttes, formazioni coniche e appuntite originatesi da un’erosione millenaria. Infine le te rocce frastagliate di calanchi culminano in un luogo bellissimo: Fossil Exhibit Trail.
Quest’area di sosta attrezzata è vasta e, sia a destra che a sinistra e basta scendere pochi gradini di una scala di legno per passeggiare, in uno scenario fantastico e lunare, tra bianche e strane formazioni rocciose tra le quali sono incastonati, protetti sotto vetro, magnifici fossili di animali preistorici che milioni di anni fa popolavano questo territorio.
La strada panoramica si insinua ancora, curva dopo curva, fra calanchi splendidi e prateria fino a Saddle Pass: piccola area parcheggio alberata dove una passerella di legno conduce all’inizio dei sentieri per fare trekking, escursionismo rigorosamente a piedi.
Scendo dalla moto, attraverso la passerella e quasi subito trovo un cartello di pericolo con il simbolo del serpente: gli escursionisti sono avvertiti di fare attenzione a incontri…indesiderati.
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Con le dovute precauzioni (scarpe alte e bastone) inoltrami nei calanchi mi divertirebbe non poco e mi farebbe entrare realmente in sintonia con questo paesaggio geologicamente eroso dal tempo, aspro ma, allo stesso tempo, silenzioso e affascinante.
Tuttavia, la preoccupazione di dover lasciare la moto incustodita per molto tempo – non che possa accadere qualcosa, ma è meglio dubitare – mi fanno rinunciare a malincuore a quella esplorazione.
Perciò, riparto raggiungendo dopo appena tre chilometri il Cedar Pass Lodge, l’albergo del Parco, un caratteristico edificio tutto di legno che, oltre al pernottamento, offre ristorazione e un negozio di articoli di regalo.
Nella stessa zona, poco avanti, c’è il Visitor Center e, al suo interno, una grande sala espositiva dove coloro che giungono dall’entrata nord/est del Parco delle Badlands possono farsi un’idea approfondita di quello che visiteranno. Non mi fermo perché ho intenzione di proseguire sulla strada che ora si inerpica a serpentina sul valico Cedar Pass. La sosta, qui, è ovviamente d’obbligo e il panorama visto dall’alto sull’immensa prateria è ancora una volta assolutamente entusiasmante e sorprendente.
Non c’è un attimo di tregua perché continuo a viaggiare in un susseguirsi ininterrotto di guglie e calanchi bianchi, frastagliati e bellissimi in un paesaggio incantevole fino a raggiungere un’altra area di sosta, grande e lunghissima, con veduta splendida che incoraggia, come se ce ne fosse bisogno, quanti desiderano praticare il sentiero denominato Door Trail oppure il Window Trail.
Purtroppo, me ne dispiace, il tempo scorre veloce…e non posso essere fra quei fortunati!
Ultima sosta, a guisa di un “arrivederci”, la faccio al Big Badlands Overlook, il primo meraviglioso impatto scenico per quanti transitano da casello dell’entrata nord/est che si trova nelle vicinanze. Oltrepasso il casello con una sensazione mista fra contentezza per quello che ho visto e rammarico per le escursioni che non ho potuto praticare.
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Alle Badlands bisogna dedicare un’intera giornata, tramonto compreso, per via dei colori che esaltano notevolmente il paesaggio, e, purtroppo, non le misere ore che mi sono servite per percorrere tutta la strada panoramica. Tuttavia percorrere il Parco in moto su una strada con piacevolissime curve è stata una esperienza gratificante. Aancor più affascinante è stata la natura aspra e selvaggia del territorio che mi si parava davanti, rendendo ancora una volta effettiva la percezione di libertà già sperimentata nelle praterie del Sud Dakota.
Tutto quanto ho vissuto, almeno fin’ora, vale veramente il viaggio!
Mi dirigo verso l’autostrada, ma dopo una decina di chilometri mi fermo presso un piccolo store che ha per insegna un grande pupazzo che simboleggia il “cane della prateria”. Sul terreno circostante ci sono molte buche di questi piccoli e simpatici roditori che ogni tanto escono per farsi notare, ma subito rientrano nelle loro tane, scavate a scopo difensivo.
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Entro nel negozietto tanto per dare un’occhiata e, fra molti oggetti in vendita, noto qualcosa che mi piace particolarmente: un cappello da cowboy. Lo cercavo da tempo e lo compro immediatamente per 17 dollari.

La Interstate 90 è vicina, ma prendo una complanare, meno trafficata e tranquilla, che passa per il paese di Kadoca, mentre dall’altra parte, sull’autostrada, sfrecciano camioncini con scritte pubblicitarie sportive, roulotte di appoggio, camper mastodontici e motociclisti: tornano da Sturgis perché il raduno si sta concludendo e forse hanno molta strada da fare come me.
Il mio tentativo è quello di arrivare a Sioux City che, dal punto in cui mi trovo, dista più di 500 chilometri e non meno di sei ore di guida; senza contare le soste per riposare un poco. Ma è già abbastanza tardi e dubito che riuscirò a soddisfare quell’intento.
La 90 prosegue piatta e rettilinea nella prateria sconfinata e solo qualche piccolo agglomerato di case contraddistingue la presenza di attività umana legata per lo più all’agricoltura.
L’unica città rilevante dell’infinito circondario è Chamberlain, sul fiume Missouri, che raggiungo dopo 250 km.
Proprio di fronte a questa cittadina, in una grande area vicino al fiume, mi fermo ad Al’s Oasis, un supermercato con saloon e ristorante, la cui facciata e struttura rimandano all’età pionieristica, compreso l’orologio d’epoca sopra l’insegna che segna le 5 e 45 pomeridiane.
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Per curiosità entro nel saloon e mi soffermo ad osservare molte foto d’epoca appese alle pareti: si evince inequivocabilmente che una volta questa stazione di posta era veramente un’oasi nel bel mezzo di un territorio sconfinato e inabitato.
Faccio un po’ di spesa al supermercato e poi riparto scavalcando il fiume Missouri su un bel ponte di ferro. Più avanti, in un’area residenziale di Chamberlain, nei pressi di bellissime casette con eccellenti giardini, sosto qualche tempo per far colazione.

Riparto nella prateria mentre si fa sempre più tardi. Non vedo paesi dove potermi fermare e considero la necessità impellente di pernottare nel primo motel che incontrerò perché incombe il buio della sera. Oltretutto il cielo nuvoloso non promette niente di buono tanto da dover mettere in conto la probabilità, quasi certa, che possa piovere. Finalmente, dopo circa 70 km e più di un’ora di viaggio, trovo un cartello autostradale che indica un’uscita per far benzina e dormire in un paese anonimo della prateria del Dakota: Plankinton.
E’ l’ancora di salvezza che fa al mio caso. Perciò, impegno immediatamente lo svincolo e subito prima del paese trovo l’area di servizio carburante Sinclair e lo Smart Chiose Inn. Sembra un capannone con tetto spiovente, ma tanto basta per decidere, inderogabilmente, di fermarmi per passarvi la notte, qualunque sia la somma che mi chiederanno!
Parcheggio la mia Harley e al banco della ricezione trovo un simpatico signore sulla sessantina che mi assegna una camera per 53 dollari, prezzo decente. Mentre mi registra giunge un prete cattolico - non ricordo il nome - con il quale instauro una piccola conversazione dicendogli di avere uno zio prete. Resta meravigliato e mi chiede quale sia la mia confessione religiosa. Quella cattolica, ovviamente, e gli mostro anche la calamita della Madonna di Pompei che metto sulla moto e che mi porto sempre appresso per protezione. Dopo esserci scambiati cordialmente i salutati, ci avviamo verso le nostre camere.
Chissà perché la camera che mi è stata assegnata è quella riservata ai portatori di handicap, il cui cartellino è affisso alla porta di ingresso.
Ho lasciato gran parte del bagaglio sulla moto, tirando fuori solo il necessario per passare la notte, confidando nelle assicurazioni del proprietario sulla tranquillità del luogo (quasi che ce ne fosse bisogno in questo posto sperduto).
Una buona doccia calda mi rilassa, stempera la stanchezza accumulata durante l’escursione fantastica alle Badlands e il successivo viaggio fin qui, mentre il lettone è lì che pazientemente attende il mio riposo.​

Badlands…my sweet Badlands!
p.s. Le mie foto non rendono appieno lo spettacolo del Parco e me ne scuso.

continua...
 
26 - seguito Electra Glide in Blue to Sturgis

Get Back - 2ª Tappa - PLANKINTON - BROOKLYN - 718 km

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Le previsioni di ieri pomeriggio, riguardo la probabilità di pioggia, si sono avverate stanotte e stamani il cielo è grigio e nuvoloso.
Fuori, molte pozze d’acqua sulla terra battuta mi fanno supporre che le precipitazioni siano state abbondanti. La motocicletta è tutta bagnata, al contrario di quanto è riposto nel baule posteriore e nelle borse laterali, segno che sono a tenuta stagna.

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Devo attendere che la strada si asciughi e nel frattempo vado a far colazione nel negozietto della stazione di servizio. Quando però torno vedo che il proprietario del motel, con squisita gentilezza, ha preparato per tutti gli ospiti una colazione abbondante con biscotti, caffè e te. Approfitto ben volentieri, sapendo che questa tappa di trasferimento sarà molto lunga.
Joliet è lontanissima e quindi la mia meta odierna sarà la piccola città di Grinnell che nella mia guida ho come punto di riferimento a circa 680 km. Spero di raggiungerla prima di sera.
Con questo intendimento parto senza indugio sulla Interstate 90, supero il raccordo di Sioux Falls e prendo verso sud la Interstate 29. Percorro 200 km e presso Beresford, faccio una sosta allo stesso distributore di carburante incontrato nell’andata. Annesso all’area di servizio c’è un capannone con l’insegna Western Store e vado a dare un’occhiata. Non si direbbe, dall’esterno, ma dentro è pieno di mercanzia per cowboy: selle, abbigliamento di camicie a quadri, cinture di pelle, blu jeans e un’infinità di stivali e cappelli a larghe tese. Compro solo un cappellino a visiera, con l’emblema del Sud Dakota, per il mio amico “red cat”.
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Riparto ben presto, supero Sioux City ed entro nello Stato dello Iowa. Qualche chilometro più avanti avvisto una “Rest Area”, un’area di sosta con servizi e connessione wi.fi. Approfitto subito perché più di 100/150 chilometri di percorso senza fermarmi sono impossibili da percorrere e non so come facciano gli altri motociclisti. Forse è una questione di abitudine.
Mi sorprende molto e positivamente questo luogo perché più che un’area di sosta sembra un parco ben tenuto e curato: prato verde, aiuole fiorite, alberi che forniscono ombra e gazebo con panchine da sfruttare per eventuali picnic.
Inoltre ci sono anche tabelle informative sulla storia dello Stato e sul passaggio da queste parti della spedizione esplorativa di Lewis e Clark, risalente all’inizio del 1800.

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A rendere ancor più accogliente il viaggiatore c’è il Welcome Center dello Iowa e le panchine poste subito prima dell’ingresso simulano, per forma e dimensione, le canoe degli indiani Sioux.


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Nel Centro Visitatori si percepisce di trovarsi in un posto dove regnano l’ordine e la pulizia assoluta: la prova più tangibile è quella dei servizi igienici, perfettamente limpidi. Nell’Ufficio Turistico prendo qualche depliant e una cartina dello Iowa, poi mi siedo su una “canoa” a riflettere e a paragonare l’accoglienza – si fa per dire - delle nostre aree di servizio con questa dello Iowa e sul fatto che l’autostrada …non ha alcun pedaggio!

Sono circa le tre di pomeriggio quando riparto viaggiando nel territorio ora ondulato della campagna verdeggiante e bellissima dello Iowa.
Dopo cento chilometri lascio l’autostrada 29, che continua verso sud, e prendo il raccordo con la 80 per viaggiare decisamente verso est in direzione di Des Moines e Iowa City.
Si stenterebbe a credere, ma l’autostrada 80 è un perfetto rettilineo di oltre 160 chilometri, senza paesi o piccole città degne di rilievo. La mia Harley va che è un piacere a velocità di crociera, sorpassata inevitabilmente a velocità superiore da camion enormi, mega camper, motorhome grandi come autobus e motociclette in gruppo o isolate. Tutti tornano da Sturgis e forse molti hanno anticipano il ritorno a casa prima di domani, domenica, giorno in cui il raduno chiuderà i battenti.
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Dopo aver superato Des Moines, devo percorrere non meno di 100 chilometri prima di arrivare a Grinnell e, complice anche il fuso orario al contrario, ho perduto un’ora di orologio: sono già le sei del pomeriggio.
Comunque devo andare avanti e quando vedo il cartello autostradale che indica l’uscita di di quel paese mi sento sollevato, perché sono abbastanza stanco dopo aver percorso in moto, fin ora, più di 650 chilometri. Devo cercare un albergo nella zona, ma al primo che incontro mi chiedono molto e per giunta è esaurito. Stessa storia anche ad un hotel li vicino ma almeno, per spendere meno, mi dicono di provare ad un motel che si trova più avanti: uscita autostradale 201.
E’ quasi sera, sono stanchissimo e anche pochi chilometri in moto, ora, mi sembrano gravosi. Così, venti chilometri oltre Grinnell, tento di trovare pernottamento alla prima uscita utile.
Il paese, Malcom, è molto piccolo: una sola misera pompa di benzina e un bar annesso nel quale cerco di chiedere informazioni mentre bevo una birra per stemperare l’affaticamento della guida.
Mentre mangio un panino e un po’ di frutta, penso che forse converrebbe metter tenda qui in qualche posto. Però, un treno che transita sulla vicina ferrovia, emettendo un sibilo talmente forte e minaccioso da svegliare tutto il circondario nel raggio di qualche miglio, mi fa desistere e riparto.

E’ già buio, guido pianissimo e l’uscita 201 sembra un miraggio. Con la stanchezza che mi ritrovo addosso è impossibile proseguire oltre e così tento alla prossima uscita: Brooklyn.
No, non è uno dei cinque distretti di New York, ma solo un paesello, poco più grande delle quattro case di quello precedente, ma sembra più carino, con negozi, esercizi commerciali e un Community Center con molte bandiere e fra queste anche quella italiana. Purtroppo, non vedo alcun albergo o motel. E’ molto tardi, tutto è chiuso e in giro non c’è anima viva a cui chiedere informazioni.

Dopo aver viaggiato per più di 700 chilometri non posso proseguire oltre, nel buio della notte, e anche questa volta devo necessariamente metter tenda…sotto le stelle.​

The Stars of… Brroklyn!

continua…
 
27 - seguito Electra Glide in Blue to Sturgis

Get Back - 3ª Tappa - BROOKLYN – CLEVELAND - 1.000 km

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Devo necessariamente cercare di sbrigarmi e per questo, sistemato alla men peggio il bagaglio, parto all’alba senza nemmeno aver fatto colazione.
Percorro appena dieci chilometri e avvisto l’altissimo pilone dell’area carburanti Pilot, lo stesso dove mi fermai nel viaggio di andata. E’ il posto con motel che mi avevano consigliato a Grinnell ed è un vero peccato il fatto che ieri sera non abbia potuto fare questo breve tratto di strada per sistemarmi molto meglio di stanotte.
Comunque, approfitto senza indugio per darmi una ripulita, per far colazione, sistemare per bene i bagagli, far benzina e ripartire.
La distanza da percorrere è rilevante e poiché domani dovrò consegnare la mia Harley prima di mezzogiorno, spero di raggiungere Cleveland stasera per sistemarmi in albergo e terminare il noleggio con comodo. Pertanto, mi metto in sella di buon animo per proseguire senza indugio, mettendo in conto solo brevi soste che riterrò opportune.
L’autostrada continua in rettilineo nella bellissima campagna dello Iowa e dopo 60 chilometri non posso fare a meno di fermarmi in un’area di sosta attrezzata che, come tutte le altre disponibili lungo la I-80, è una sorta di giardino con piccolo parco erboso e alberato. Sulla facciata dell’edificio centrale si può leggere Iowa, a lettere cubitali in corsivo, quasi fossero state scritte con penna e inchiostro. Proprio lì sotto, davanti all’ingresso, c’è un grandissimo pennino, con la punta conficcata nel pavimento, che reca sul dorso la dicitura “Iowa, the beautiful land” …ed è la pura verità!

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Supero senza difficoltà Iowa City e approfitto senz’altro di un’altra area relax posta a circa 60 chilometri da quella città. E’ quasi superfluo osservare che anche questa è splendida con fiori, prati, alberi dalla chioma foltissima mentre le piazzole coperte, per far colazione, si sprecano.
Altri cento chilometri e raggiungo il Mississipi, il confine fra gli stati dello Iowa e dell’Illinois, ed è fuor di dubbio che debba fare una pausa viaggio più lunga del solito. Dove? Naturalmente a Rapids City, che tanto mi era piaciuta all’andata, dove posso godermi un relax tranquillo.

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Al momento, ho viaggiato per soli 200 chilometri e me ne mancano altrettanti per arrivare a Joliet e dove potrei anche fermarmi per pernottare. E’ una decisione che forse prederò strada facendo. Intanto, subito dopo Rapids City, salgo sulla collina dov’è situato il Welcome Center dell’Illinois dal quale si ha una veduta panoramica bellissima sulla Great River Road, del Mississippi.

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Grandi pannelli illustrano la conquista del territorio che sto attraversando e le battaglie dei coloni per impossessarsene, principalmente francesi, contro gli indiani Illinois che finirono per essere definitivamente sconfitti.
Continuo a viaggiare verso est in una regione sempre piatta, ma con molta più vegetazione, pascoli e zone agricole e dopo altri duecento chilometri mi fermo a un’area di sosta che è tutta un programma: Three Rivers.
Tutta la zona dell’area di sosta è ricoperta da una fitta foresta di alberi ed in mezzo scorre il fiume Illinois. Più che un’area di servizio è un parco, esteso quanto un piccolo paese, attrezzato con Wi.Fi, internet, distributori di bevande e vivande, accessi per disabili, servizi e gli immancabili pergolati di legno dove far colazione. Più che altrove, bellissima, e volendo potrei anche sistemare la tenda e trascorrervi la notte.
Mentre sono fermo, due motociclisti sono intenti a guardare la mia moto e soprattutto la targa per scoprire la provenienza. Già si capisce che vengono da Sturgis e parlando dico loro che anch’io ci sono stato, che sono italiano e che ho noleggiato la moto a Cleveland dove sto tornando. Mi fanno i complimenti e ricambio scattando insieme a loro qualche fotografia che mi rammenterà questo piacevole incontro.

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Riparto e raggiungo finalmente Joliet che ora mi sembra l’avamposto di un territorio grandemente urbanizzato.


Sono circa le cinque del pomeriggio, sono in sella da circa nove ore e mi si fa strada nella mente l’intenzione di fermarmi per la notte e ripartire domani mattina presto.
Ho timore, però, che forse domani le condizioni del tempo non saranno buone e per giunta devo anche tener conto della differenza di fuso orario che mi farà perdere un’altra ora. Se pioverà sarò costretto a fermarmi chissà dove e la ripartenza sarà certamente un’incognita da non sottovalutare per consegnare la moto in tempo utile.
Per questo supero Joliet senza fermarmi e tiro dritto seguendo l’autostrada 80 che, poco dopo, si addentra nell’estesissima area metropolitana a sud di Chicago. Per giunta, essendo domenica, l’area è trafficatissima e piena di svincoli che si incrociano per prendere tutte le direzioni possibili, compresa quella verso est dove mi sto dirigendo. Comunque non mi è difficile andare avanti, piano, perché basta seguire l’indicazione “80 Est” e il gioco……sembrerebbe semplice!
Purtroppo, non scorgo per tempo l’indicazione dello svincolo e quando giungo nei pressi del punto in cui uscire, due camion che mi seguono con veloce impazienza non mi permettono di rallentare e pensare sul da farsi. Oltretutto, non c’è una corsia di emergenza o banchina che tenga dove fermarmi, ho paura di essere tamponato e uno spartitraffico di cemento completa tutta la mia difficoltà di capire se ho preso o meno la giusta direzione.
Il risultato è che per sicurezza continuo dritto, sapendo già di aver commesso un errore, e mi tocca fare cinque chilometri per l’inversione di marcia e altri cinque per tornare nello stesso punto di partenza, in un traffico infernale.
Questa volta sono molto più attento, ma ugualmente la direzione da prendere è aleatoria perché il cartellone dice solo “Autostrada a pagamento”.
In ogni caso impegno l’uscita, passo sotto un altro cartellone che non ho fatto in tempo a decifrare, parcheggio e chiedo informazioni a un automobilista che passa. La sua risposta non risolve il mio interrogativo e così mi reco a piedi fin sotto il cartellone che ho appena superato e leggo “80 Est”, a destra: questa è la notizia giusta e la direzione sicura da impegnare!
Cleveland, tuttavia, è ancora lontana: 480 chilometri!

Continuo a viaggiare con la motocicletta senza neanche rendermi conto di quello che sto facendo e intanto incombe il tardo pomeriggio e soprattutto la sera. Sull’autostrada a pagamento, attraverso tutto d’un fiato lo Stato dell’Indiana ed entro finalmente in quello dello Ohio.
Ora c’è solo l’asfalto e i camion indiavolati che hanno preso l’autostrada per una pista automobilistica. Mi sorpassano a destra e a sinistra come se nulla fosse e siccome vado piano mi becco anche qualche strombazzata. Insomma, per farla breve, sento veramente l’angoscia della paura e, per dirla tutta, di temere di farmela addosso.
Rimedio qualche altra sosta “obbligatoria” e penso seriamente di fermarmi, frenando l’incoscienza che mi sprona però ad andare ancora avanti.
La strada è ancora lunga, ma sono convinto che a qualsiasi ora dovessi giungere al mio albergo di Cleveland potrò veramente dire di aver portato una nave in porto, con la certezza di riposare finalmente tranquillo e sereno.
Sono molto stanco e impaurito per il fatto di viaggiare in “notturna” in queste condizioni di traffico caotico. Fortunatamente non ho sintomi di sonnolenza ed è un vantaggio insperato.
La velocità della mia moto è sempre più lenta; proseguo nella notte quasi a tentoni a meno di 40 miglia orarie mentre tutti gli altri viaggiano ben al di sopra del limite di 70.
Facendomi forza e coraggio, continuo ad avanzare e a superare indenne, fra le 10 e le 11 di sera, alcuni svincoli critici e poi finalmente mi ritrovo all’uscita per prendere la 480 Est dell’hinterland di Cleveland. E’ tempo di procedere ancora più piano per evitare di perdere l’uscita successiva, la numero 9, quella che mi potrà far raggiungere il mio albergo.
Impiego più di mezz’ora per fare appena dieci chilometri, ma finalmente il tabellone autostradale con l’indicazione “Exit 9 - Airport Brookpark Rd” è di fronte a me ed è la salvezza per la conclusione di questa tappa impossibile.
Appena cinque chilometri, dieci minuti e poi, spossato, arrivo finalmente alla mia agognata meta:
Americas Inn Cleveland!
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Sono le 12 e 30 di notte e ho percorso 620 miglia, ovvero, 1.000 chilometri… da stamattina all’alba!

Oh my bed…my dear bed!

continua…
 
28 - seguito Electra Glide in Blue to Sturgis

Get Back - CLEVELAND

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Mi sento sollevato per essere arrivato a Cleveland stanotte, anche se “la trasferta” fin qui, dal lontanissimo Stato dello Iowa, mi è costata una faticaccia quasi insopportabile.
Ieri mi sono fatto prendere dall’incoscienza, ma ho confidato nelle mie forze e nella certezza che la mia Electra Glide in Blue non mi avrebbe tradito. Peraltro, affacciandomi dal balcone della mia stanza vedo che il cielo è molto nuvoloso e c’è la concreta eventualità che piova. Ieri, fortunatamente, l’ho scampata proprio bella, ma ora sono tranquillo, felice e con la sola incombenza di restituire la motocicletta.
La concessionaria Harley-Davidson non è molto lontana; con calma la raggiungo in moto e la simpatica Stephanie mi accoglie con un simpatico sorriso, quasi sorpresa di rivedermi.

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Mi comunica, anzitutto, che dopo la mia partenza, aveva spedito la cartolina del Rock & Roll of Fame a Duncan di Los Angeles e questi le rispose che era molto felice di averla ricevuta e mi porgeva i suoi saluti.
Stephanie, prima che partissi per il viaggio, mi aveva raccomandato di restituire la moto con il pieno di benzina e pulita. Le dico che ho fatto sì il pieno, ma non ho potuto far lavare la motocicletta perché ero giunto solo stanotte in albergo, dopo aver percorso più di seicento miglia.
Mi sembra meravigliata nell’apprendere che in un solo giorno ho percorso così tanti chilometri si complimenta con me e quando le propongo di controllare la moto, la guarda solo superficialmente, disinteressandosi della pulizia del mezzo che, in ogni caso, dopo 6.000 chilometri, non ha molte tracce di sporco.
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Per qualche momento resto quasi commosso ed emozionato nel guardare l’Electra Glide in Blue che mi ha fedelmente tenuto compagnia nella bellissima avventura di un viaggio fantasticato al 73° Motorcycle Rally di Sturgis, senza darmi alcuna noia.
Sinceramente, le darei un attestato di benemerenza.
Tuttavia, c’è anche malinconia nel mio animo, la medesima che si prova nel salutare un amico che non si rivedrà più. Lascio la mia Electra Glide nel parcheggio, mestamente ferma, in attesa che in futuro si faccia cavalcare da qualcuno che le rinnovi i miei stessi sentimenti di gratitudine.

Mi rammarico di non aver portato un regalino a Stephanie e lei, salutandomi cordialmente, mi dice che le farebbe piacere rivedermi, se in futuro tornerò da queste parti. Le prometto che rammenterò questo invito e quando arriverò a casa spedirò anche a lei una bella una cartolina.
Un dipendente della concessionaria, cortesemente, mi riaccompagna all’albergo e così ho tutto il pomeriggio libero per andare “down town Cleveland” e alla stazione dei bus Greyhound per fare il biglietto per la corsa di domani verso Toronto.
All’Americas Inn mi riposo un po’, mi do una sistemata e poi scendo per prendere il bus della linea 54. Non attendo molto, ma una volta giunto alla stazione metro di Brookpark mi accorgo che ho solo tagli grandi di dollari e non il pezzo da cinque per la macchinetta che emette il day pass. Una persona che attende il treno, accortesi della mia difficoltà, mi cambia il biglietto da 20 dollari e così posso prendere la metro in arrivo, assieme alla ragazza di colore che ha risolto il mio problema. La ragazza inizia a colloquiare con me scrivendo domande sul cellulare che ha un applicativo di traduzione. In sostanza, chiede come mai mi trovo a Cleveland ed io le rispondo in inglese che ho noleggiato una moto e sono andato a Sturgis. Mi chiede se ho bisogno di informazioni, mi avverte anche di stare attento e, in caso di bisogno, di rivolgermi alla Polizia perché a Cleveland la gente è “crudele”, parola testuale che leggo sul cellulare.
Giunti a Tower City Center mi saluta chiedendomi infine se mi occorre altro. Le dico che già conosco il centro città e che la ringrazio per la sua cortesia.
Il cielo è molto nuvoloso, ma fuori Tower City molta gente di colore si assiepa nei pressi dell’ingresso principale del terminal, mentre stazionano, inevitabilmente e pronti all’azione, poliziotti in auto e anche a cavallo.
In particolare, attirano la mia attenzione due giovanissime ragazze hippy, sedute allegramente per terra. E’ alquanto strano e divertente notare che una si trastulla gioiosamente con un topolino che forse si porta appresso come mascotte.
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D’un tratto, senza minimamente scomporsi dalla sella, uno dei tre poliziotti a cavallo ingiunge loro di avvicinarsi. Le ragazze obbediscono immediatamente e credo di intuire la loro conversazione: “Da dove venite, che cosa ci fate qui, che cosa avete negli zaini, siete pregate di allontanarvi da questo posto”.

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Sono circa le tre di pomeriggio e conviene andare a mangiare qualcosa al Subway lì vicino un buon footlong con carne, insalata, pomodori, olive nere e…coca cola a volontà.
Terminato il pranzo – si fa per dire – e mi reco in Public Square dove presto più attenzione, rispetto a qualche settimana fa, alla statua ad altezza d’uomo del Generale Moses Cleaveland, fondatore della città nel 1796, alla Tower che svetta altissima contro il cielo e ai grattacieli che quasi le fanno compagnia.
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Poi, con una passeggiata di circa venti minuti, raggiungo il terminal della Greyhound e compro per 52 dollari un biglietto per la corsa notturna di domani alle 22 e 15 per Toronto.

Non posso dedicare altro tempo alla visita della città, memore del fatto che l’ultima corsa del bus della linea 54, dalla stazione metro di Brookpark verso l’albergo, parte alle ore 18.00. Quindi mi devo muovere in anticipo per non perderla, pena due chilometri a piedi sotto una temperatura pomeridiana che è diventata piuttosto calda e umida.
Quando salgo in camera, il disordine è imbarazzante e regna sovrano. Ci sono indumenti, attrezzature fotografiche, guide turistiche, carte stradali a volontà, tenda, sacco a pelo, scarpe, regali e moltissima altra roba sparpagliata dappertutto: sul letto, sullo scrittoio, sulla poltrona, nel bagno, sul comodino e anche sul pavimento di moquette.
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Come potrò impacchettare tutto a dovere per la partenza di domani?
Con la santa pazienza mi metto all’opera e purtroppo, fra tanto disordine, non riesco a capire che fine abbia fatto il libro di Augias che il mio amico “gatto rosso” mi aveva prestato, per leggerlo durante i noiosi trasferimenti in aereo.
Se non fosse per il fatto che il libro ha la dedica dell’autore, glielo comprerei a casa senza perder tempo, ma ora la complicazione insorta mi infastidisce oltremodo. L’irritazione si fa palpabile, avendo ben chiaro che a quella firma di Augias il mio amico attribuisce una particolare importanza.
Metto in ordine con meticolosità e, grazie a questa operazione accurata, riesco infine a scovare il libro sul fondo di uno zainetto nero, sotto tutte le guide e carte stradali che avevo messo da parte. Sono davvero rincuorato per aver superato una situazione antipatica.
Non senza sudore, ci sono volute più di due ore per preparare i bagagli, ma alla fine tutto è sistemato a dovere nello zaino grande, nel trolley e nello zainetto.
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Durante queste impegnative operazioni di stivaggio, ho rinvenuto casualmente l’accendino elettrico della motocicletta che nel viaggio avevo riposto al sicuro per evitare che andasse perso. Quando stamani ho salutato Stephanie, qualcosa mi diceva che l’avrei rivista a breve e l’accendino …è uno strumento che “calza a pennello”.

Adesso che guardo l’orologio vedo che è già passata mezzanotte mentre scrivo sul diario ed è già arrivato il giorno in cui, controvoglia, dovrò lasciare la bella città di Cleveland.​

Last night…sorry Cleveland!

continua...
 
29 - seguito Electra Glide in Blue to Sturgis

Get Back to Toronto


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Il mio viaggio e il mio sogno appagato stanno inesorabilmente volgendo al termine.

Fuori il cielo è molto nuvoloso e spira un vento freddo da nord, tanto da consigliarmi di adoperare il giubbino che avevo utilizzato per viaggiare in moto. Appena pronto, lascio l’albergo e fino alle dieci di stasera ho molto tempo disponibile prima della partenza per Toronto.
Anzitutto, cerco di andare a restituire l’accendino elettrico che equipaggiava la mia Harley, ma quando prendo la metro e scendo a West Park con tutti i fardelli al seguito mi accorgo quanto sia veramente laborioso trascinarli per soli cento metri, quanto dista la concessionaria dalla stazione della metro. L’involucro che contiene tenda, picchetti, sacco a pelo, attrezzatura e tutto il cartaceo rastrellato durante il viaggio è voluminoso e ora, rispetto all’arrivo, ha un peso ancor più rilevante.
Una volta raggiunta con fatica il noleggio, Stephanie, a ragione dell’invito che mi aveva fatto ieri, resta nuovamente e imprevedibilmente sorpresa nel rivedermi così presto.
Poi, con un viso gioioso e interlocutorio mi chiede:
Hi Mr John, how are you, all right?”
Sì certo che sto bene, le rispondo, ma le dico anche che tornando all’albergo ero convinto che ci saremmo rivisti abbastanza presto e questo mio presentimento è stato confermato dal rinvenimento dell’accendino di bordo della Electra Glide, sommerso nell’equipaggiamento che stavo sistemando.
Restituendole l’oggetto, resta compiaciuta per tanta correttezza e poi, visto che non le avevo portato un regalino da Sturgis, ho pensato bene di offrirle un laccetto di sicurezza della FMI, con striscia tricolore, da indossare all’occorrenza. Stephanie apprezza il “pensierino” con semplicità sincera.
La informo che il mio bus per Toronto partirà molto tardi stasera e che cercherò di ingannare tutto il tempo andandomene in città. Pertanto, le chiedo gentilmente di potermi favorire trattenendo in deposito tutto il mio bagaglio che tornerò a riprendere in seguito. Acconsente senza alcuna esitazione, con la sola raccomandazione di tornare prima delle sei di oggi pomeriggio, orario di chiusura della concessionaria.
Liberatomi, almeno provvisoriamente dei pesanti e ingombranti fagotti, trattengo solo il piccolo zaino del Cammino con documenti e valori. Con il comodo day pass, riprendo la metro e mi avvio in città per attendere al primo dovere: la missione di sostentamento a base di footlong e coca cola al Subway … ovviamente!

Non mi allontano troppo dalla centralissima piazza di Tower City e in un prato di Public Square, gremita di gente che è in pausa pranzo, trovo una band che sta eseguendo brani di musica rock, per il diletto di quanti sono lì ad ascoltare la loro esibizione che subito fa presa su di me.
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Poi mi sposto alle loro spalle dove scorgo un furgone e molto fumo che si leva da un barbecue e suppongo che ci sia roba in cottura Infatti, c’è un venditore ambulante di hot dog e molti sono in fila per mangiare qualcosa di caldo in questa giornata grigia e fredda.
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Proprio dall’altra parte della strada, incastonata fra due grattacieli, la mia attenzione vira su una chiesa con una guglia molto alta e appuntita. Incuriosito penso che sia opportuno andare a farle visita.
Leggendo una insegna dei luoghi storici dell’Ohio, disposta al lato dell’ingresso del tempio, apprendo di trovarmi davanti al più vecchio e importante manufatto storico di Cleveland e forse anche dell’intero Ohio: Old Stone Church.
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Infatti, nel grande riquadro informativo, c’è scritto: “La costruzione della chiesa ebbe inizio nel 1820 per merito di ministri del culto della Società Missionaria del Connecticut. Nota come “la chiesa di pietra” fu ufficialmente consacrata come Chiesa Presbiteriana di Cleveland e riedificata nel 1855. Costruita con materiale di pietra serena si eleva in Public Square come il più vecchio edificio della città. Danneggiata dagli incendi del 1857 e 1884 fu ricostruita rispettando l’architettura originaria. Sul piccolo sagrato c’è un’anziana signora, seduta dietro un tavolino, che attende i potenziali visitatori. Deduco, dal suo atteggiamento, quando sto per entrare, che è lieta di farmi da guida e mi introduce all’interno. Mentre inizio a filmare, le chiedo di continuare a parlare nella sua lingua in merito a quanto mi sta mostrando e spiegando così, quando giungerò a casa, mia moglie, che conosce l’inglese, farà da traduttrice.
Comunque, capisco grosso modo dalle sue parole che la Old Stone Church è stata sempre un punto di riferimento fin da quando Cleveland era solo un villaggio di poche centinaia di persone. Man mano che la città si è sviluppata in dimensioni e importanza, è diventata un simbolo di guida spirituale e di coinvolgimento sociale della comunità nel cuore stesso della città. Era nota come "La Chiesa di pietra.", ma col passare del tempo, quando la pietra si oscurò, fu contrassegnata come “La Vecchia Chiesa di Pietra”. La ricostruzione del 1884, dopo gli incendi, ha dato vita, nello stesso sito della struttura originaria, alla Chiesa come oggi la si vede.
La signora è orgogliosa di mostrarmi gli interni con pannelli di mogano scuro, le graziose sculture, l’impressionante soffitto con volta a botte a capriate di lignee e un’ampia balconata di legno massello sottostante. Le vetrate sono bellissime e un’altra peculiarità notevole della chiesa è l'organo a canne ad azione meccanica del 1976, che ha sostituto quello del 1925, mentre la prima cassa armonica descritta nei documenti ecclesiastici fu installata intorno al 1856.
Ogni domenica mattina si svolge servizio di culto e la presenza della Old Stone Church sulla piazza pubblica rende la chiesa un punto focale per gli eventi di rilevanza civile e religiosa. Perfino i giocatori della squadra locale di football americano vi si recano a pregare prima degli incontri.
Saluto la mia cortese e anziana accompagnatrice turistica che mi ha illustrato a dovere tutte le caratteristiche della chiesa e mi reco a piedi, per svago, al Museo del Rock, principalmente per comprare qualche altro piccolo oggetto di regalo: due poster, qualche portachiavi e calamite da frigo.
Di ritorno, percorro qualche isolato con una bella sorpresa in un piccolo parco
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Ttrovandomi vicino a una fermata di mezzi pubblici, dopo poca attesa, salgo a bordo dell’elegante e simpatico bus verde scuro della linea “Smile & Ride Free”, gratuito, che mi conduce proprio a Tower City Center.
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Sono le tre di pomeriggio e devo rammentarmi di tornare per tempo da Stephanie, ma c’è ancora tempo per curiosare fra i negozi all’interno del terminal. Uno di questi è Sweet Factory che farebbe la gioia dei bambini, forse anche dei grandi, per l’infinità di caramelle e lecca lecca multicolori che ha in vendita.
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Da ultimo e allegramente, mi permetto una fotografia con una ragazza del personale di sicurezza che acconsente senza indugio a posare in atteggiamento scherzoso ma fiero.
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Con molto anticipo parto per Westpark, giusto per non perdere l’appuntamento alla concessionaria. Poiché lì vicino c’è un McDonald’s, appena arrivo, riempio un po’ la pancia, mentre più tardi, ben prima delle sei, riprendo i bagagli dalla concessionaria e Stephanie …mi rivede per la terza volta!
In procinto di accomiatarmi, questa gentilissima “amica”, mi lascia a bocca aperta perché si mette a disposizione per accompagnarmi alla stazione dei bus della Greyhound.
Sulle prime, cerco di sottrarmi cortesemente a tanta grazia, perché mi basta prendere la metro nella vicinissima stazione. Stephanie però insiste ed io non posso fare a meno di accettare questo gesto simpatico che, per di più, mi evita l’ennesima sfacchinata del trasporto dei miei pesanti colli.
Tempo cinque minuti, e la mia amica, dopo aver sistemato le sue cose, mi accompagna in centro con la sua automobile e in meno di altri venti minuti sono alla Greyhound.
Saluto Stephanie, ringraziandola per tutta l’assistenza che mi ha fornito per la Electra Glide, per tutta la sua gentilissima disponibilità e per questo gesto inaspettato, amabile e da me molto apprezzato. Poi, com’è d’obbligo fra amici, ci abbracciamo calorosamente, non senza un moto di commozione da parte mia.
Stephanie attende pazientemente che entri nel terminal con tutti i miei bagagli e quando le rivolgo un ultimo sguardo di adorabile commiato, mi da l’arrivederci con un dolce sorriso, agitando la mano.
Chissà se la rivedrò ancora!

Sono appena le sette di sera e mi tocca attendere fino alle 22 e 15 per salire sul bus che mi condurrà a Toronto. Mi siedo nella grande sala d’attesa e osservo il via vai delle persone che nel frattempo arrivano a Cleveland o partono per varie destinazioni.
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Osservo nel frattempo una famiglia di mormoni: quattro uomini, quattro donne e due bambini. Due degli uomini sono giovanotti e hanno una barba che sembra quasi finta, mentre uno dei più anziani non smette mai di ridere mostrando il buco fra i denti perché gli manca un incisivo.

Il tempo non passa mai quando si tratta di aspettare; scrivere sul diario o fare quattro passi sono le uniche attività che posso mettere in atto durante questa estenuante attesa.
Finalmente arriva l’ora di imbarco e, “alla voce”, una signora di servizio avverte che è in partenza il bus per Buffalo e Toronto: tutti in fila per passare dall’uscita numero 6. In questo momento mi infastidisce non poco il comportamento alquanto irriguardoso di uno dei mormoni, “l’uomo che ride”, perché non fa altro che sghignazzare alle spalle di un nanetto, poco più alto delle sue due valigie, alle quali si è appoggiato con le piccole braccia per comodità.
Sul bus mi accomodo in uno dei posti sul retro e alla prima sosta in un’area di servizio attrezzata scendo per prendere un po’ d’aria, ma fuori c’è un forte vento freddo che viene da nord e che mi intirizzisce. Verso l’una giungiamo a Buffalo; poi al posto di frontiera USA/Canada e questa volta non ci sono formalità burocratiche, tranne il ritiro della “carta verde”-

Cleveland, regno della musica rock, con i suoi grattacieli, la sua eleganza, i suoi trasporti pubblici efficienti e la grande emarginazione dei suoi negri, è ormai lontana.

Sull’autobus, finalmente, prendo sonno nella notte che mi sta traghettando a Toronto.​

Good by America!

continua…
 
30 - seguito Electra Glide in Blue to Sturgis

Last day in Toronto

Qualche oretta di sonno, si fa per dire, e il bus arriva con un anticipo di un’ora al terminal di Toronto. Sono appena le 5 e 30 del mattino. Si prospetta un’attesa molto lunga prima che possa far colazione perché è tutto chiuso e poi dovrò spostarmi con tutti i bagagli verso l’albergo.
Mi accomodo nella sala d’attesa, stanco e assonnato, ma il bar non apre e chissà quando lo farà.
Intanto si è fatto giorno e con la santa pazienza cerco di trascinare i bagagli dirigendomi a piedi verso il Neill Wicik, con una sosta ogni dieci metri per via del sacco con la tenda che pesa sempre di più. Ci metto più di tre quarti d’ora prima di arrivare alla meta e al banco della ricezione chiedo se è disponibile entro breve una stanza. E’ un vero sollievo quando mi dicono che posso già andare in camera e allora ne prendo immediatamente possesso e senza ulteriori tentennamenti mi butto letteralmente sul letto senza neanche svestirmi.​
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Cerco di prender sonno ma i raggi del sole che filtrano abbondantemente dalla finestra me lo impediscono Allora, è meglio che mi alzi per andare a far colazione giù nella sala refettorio e poi gironzolare un po’ in città per stemperare in qualche modo la stanchezza accumulata stanotte.
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a colazione è ottima e abbondante, per ora, ma tocca attendere tutta la giornata di oggi e quella di domani per spostarmi in aeroporto. Per precauzione, avevo programmato di lasciare un certo margine di sicurezza, fra l’arrivo e la partenza da Toronto, in modo da non aver problemi per il volo di ritorno.
Sono le nove di mattina ma nella centralissima Yonge Street, il rumore e la polvere si levano da un cantiere, in piena attività, perché stanno edificando un nuovo grattacielo. Di contro, c’è un suonatore di chitarra e armonica a bocca nell’angolo della strada che allieta i passanti con la sua musica; di tanto in tanto alcuni si fermano ad ascoltarlo, donandogli poi qualche dollaro.
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Pranzo al DUB, un grande supermercato internazionale non molto lontano dall’albergo: insalata greca, contorno di olive nere e un po’ di frutta. Lì vicino c’è la stazione metro College, utile per andare domani all’aeroporto, e anche un Subway dove potrò comprare qualcosa da mangiare prima di partire.
Il pomeriggio è banale nel contesto di una giornata che non passa mai, con la sola consolazione di un’ultima veduta panoramica di Toronto quando salgo sul terrazzo del 22° piano del Neill Wicik.​
Complice una bellissima luna, il cielo si va popolando di stelle nel crepuscolo dei bagliori del sole appena tramontato dietro i grattacieli che man mano si accendono di mille bianche scintille.
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Toronto “by night”… unforgettable!


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Get Back my Home

Giorno di partenza per l’Italia, oggi.
Il bagaglio è tutto preparato e dopo un’ottima colazione lascio l’albergo abbastanza presto. Per non stancarmi troppo, trascinando soprattutto il sacco con la tenda, prendo un taxi e mi faccio accompagnare alla stazione metro di College, pur trovandosi a non più di tre isolati.
Poca l’attesa al capolinea di Kipling e poi la navetta corre velocissima raggiungendo in meno di un quarto d’ora Pearson International Airport.
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Nella sua estesa area semicircolare, i banchi di accettazione di Air Transat, fra tutti gli altri, occupano in lunghezza uno spazio considerevole, ma sono desolatamente vuoti perché è appena mezzogiorno. Non potrebbe essere diversamente perché l’affluenza dei viaggiatori si verificherà nel pomeriggio e verso sera, almeno per quanto mi riguarda, perché il volo per Roma è previsto alle 21 e 10.
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Mi tocca attendere moltissimo e in quest’area non c’è molta possibilità di svago; in compenso la tranquillità, la pulizia degli ambienti e l’assoluta mancanza di trambusto, confusione e vociare a toni elevati regnano sovrani; qualche discreta presenza di polizia e addetti alla sicurezza, ma nulla più.
E’ giorno festivo in Italia per via del “ferragosto” e, nel corso di una conversazione telefonica, mia moglie mi ha fatto sapere che a casa il tempo non è bello. Suppongo comunque che faccia caldo mentre qui a Toronto è una giornata con cielo poco nuvoloso e una temperatura abbastanza fresca che non supera i 20 gradi.
Inganno il tempo andandomi a sedere dietro una grande vetrata al di là della quale si vede gran parte della pista, il via vai di aerei in arrivo e in partenza e il parcheggio che presto sarà occupato anche dall’aereo dell’Air Transat che mi riporterà a casa.

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Per una sorta di curiosità, a scanso di equivoci, mi reco a pesare il bagaglio: ebbene, il sacco pesa 17 chili e il trolley 14, ben al di sopra dei 10 chili ammessi per l’imbarco in cabina.
Per non incorrere in contestazioni molto prevedibili, a causa della restrizione del peso dei bagagli in cabina, cerco di risistemare il contenuto del trolley, passando alla ben meglio il di più nel sacco, il cui margine di peso ammesso in stiva è di 22 chili. Poi, riporto il trolley alla pesa che ora segna 11 chili. Purtroppo non posso ulteriormente diminuire questa cifra e spero che basti per farlo passare in cabina!
Manca ancora un’ora per il controllo passeggeri ma, per evitare la confusione che inevitabilmente si verificherà, mi muovo per tempo e mi reco al check-in: il bagaglio transita con sollievo senza impedimenti.
Ai varchi di sicurezza, in un percorso da labirinto, una fila interminabile di persone si muove lentamente e occasionalmente qualcuno viene fermato per controllo. Non so perché, ma anche a me capita di essere individuato da un’addetta alla sicurezza. Armata con una specie di “bacchetta magica” me la passa sulla punta delle dita per individuare qualcosa.
Tutto bene ma alla mia domanda interlocutoria mi risponde: “chemical”. Suppongo che il controllo sia un modo per verificare eventuali tracce di stupefacenti…proprio a me?
Il percorso per arrivare alle porte di imbarco è lunghissimo, tanto che sono predisposti numerosi tapis roulant per agevolare i passeggeri, ma almeno non ho pesi da trasportare.
Intanto sono le sette di sera e al Gate C31 non ci sono molte persone in attesa di partire con il volo per Roma ma, nelle due ore di spasmodica attesa che inganno guardando dalle grandi vetrate le piste e in lontananza i grattacieli di Toronto, la sala si va riempiendo sempre di più.
Alle otto chiamano finalmente l’imbarco e, nonostante sia qui da moltissimo tempo, c’è ancora da aspettare perché bisogna rispettare la procedura di sistemazione per numero di fila: attendere perché sono nella 19.
Al check-in imbarco Air Transat, il posto che la signorina mi aveva assegnato è quanto di meglio potessi pretendere: 19 K, fila a destra, lato finestrino, un poco più avanti dell’enorme motore e vista panoramica senza ostacoli. Vicino a me si siede una giovane coppia di canadesi, che vengono in Italia per visitare Roma, e con loro, più tardi, cercherò di avviare un’allegra conversazione.

Siamo in perfetto orario per la partenza e mentre l’aereo rulla sulla pista e poi velocemente si alza in volo, il luccichio della grande metropoli di Toronto con i suoi grattacieli e il pinnacolo luminoso della Canadian Tower scompaiono man mano sotto di noi che voliamo verso l’Italia, a Roma.​
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By By Canada!

continua…



















continua…
 
31 - seguito Electra Glide in Blue to Sturgis

Italy and my Home…at last!

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In Italia è albeggia ma qui in aereo il personale di bordo annuncia che fra non molto sarà servita la cena e si compiacciono anche per il fatto che offriranno anche un bicchiere di vino.
Tanto per gradire, si comincia con un po’ di juse, che è solo una bevanda dissetante all’arancia, e poi si passa al vassoio della cena: pasta, scotta e quasi senza sale, un miscuglio di sottaceti che non ho capito cos’è e li evito, e un bicchierino di vino, così come avevano promesso. Più tardi, però, la fila ai servizi igienici è in costante aumento e in quel “buco” preferirei non ficcarmi mai.
Il volo, intanto, procede tranquillo, ma è molto difficile per me cercare di dormire in queste poltrone strette. Nonostante lo schienale si possa un po’ modificare, non consentono comunque di stendere le gambe e come conseguenza fa capolino qualche crampo nei polpacci.
Si continua a volare nel buio più totale fuori dall’oblò, mentre il monitor segna la rotta mostrando di aver lasciato Halifax e di volare in pieno Atlantico. Forse ho dormito un poco e al risveglio - in Italia sono le dieci del mattino - ci servono la colazione: ciambella, yogurt, solito juse e caffè lungo americano.
Voliamo ora sulla Francia e ben presto, guardando dal finestrino, si scorgono le Alpi, mentre il monitor di servizio segna 12.500 metri di quota, velocità 900 km ora, - 53° temperatura esterna, ora di arrivo prevista 11 e 20.
E’ bellissimo guardare giù da questa altezza, sospesi nell’aria e nonostante la traccia monitor sembri lentissima, mancano solo 45 minuti all’arrivo del volo a Roma. Il golfo di Genova è sotto di noi, anche lo splendido mare blu e le navi che con la loro scia bianca sembrano puntini dispersi nell’immensità.
Man mano scorrono La Spezia, le Cinque Terre, il Golfo di Livorno, l’Elba, il litorale laziale. Poi, ci annunciano che manca pochissimo a Roma Fiumicino.
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L’atterraggio è dolce come il ritorno a casa ma, non appena metto piede a terra, mi rendo subito conto che non è stato tanto travagliato l’avventuroso viaggio verso Sturgis e ritorno, quanto l’arrivo all’aeroporto di Fiumicino: sono arrivato in Italia … si vede e si sente!
Infatti, a differenza di Toronto, c’è una ressa incredibile al controllo passaporti in una confusione dove nessuno sa cosa fare e dove andare. Tempi di attesa inverosimili e stressante condizione fisica, la mia, dovuta alla stanchezza delle interminabili nove ore di volo e alla veglia notturna.
Ed è solo l’inizio perché, dopo il controllo del passaporto, sono catapultato nella bolgia infernale di tutti i viaggiatori in attesa di riprendere i bagagli dal nastro trasportatore. Paziente attesa – molta - poi quando finalmente vedo il mio sacco bianco lo “arraffo” fra le molte mani che si allungano insaziabili per accaparrare il proprio. Cerco di reperire un carrello che fortunatamente riesco a sottrarre a qualcun altro: sembra una scena fantozziana!

Nel terminal affollatissimo, perché è il giorno successivo a quello di ferragosto, i viaggiatori si spostano freneticamente fra i banchi di accettazione delle compagnie aeree sotto l’occhio distratto di poliziotti, carabinieri, finanzieri, addetti alla sicurezza e personale di servizio dell’aerostazione.
In questo trambusto cerco un botteghino dove comprare un biglietto per il bus che cura i collegamenti con la stazione Termini. Poi, sul piazzale della zona di partenza dei mezzi pubblici una folla tumultuosa e irrequieta attende l’arrivo dell’autobus che, ovviamente, si presenta con notevole ritardo sull’orario previsto, a causa del traffico caotico della circonvallazione di Roma.
La ressa per sistemare le valigie nelle bagagliere e quella per salire a bordo dell’autobus si fa ancora più disordinata e arrembante con spintoni, schiamazzi e assalto ai posti più ambiti, tanto che mi sembra di assistere, ancora una volta, a una di quelle scene esilaranti dei film del mitico Fantozzi.
Bene o male l’autobus parte, fa molto caldo, comincio a sudare come non mi era mai capitato nel corso del mio viaggio negli states e dopo mezz’ora di questa sauna arriviamo in porto. Il bus si ferma e il conducente attende nervosamente suonando ripetutamente il clacson. Non c’è da meravigliarsi quando vedo dal finestrino che il posto di stazionamento degli autobus è sfacciatamente occupato da due macchine i cui proprietari sono assolutamente disinteressati dell’intralcio. Finalmente il conducente spegne il motore, dopo aver preso possesso del parcheggio. Inizia “l’assalto alla diligenza” per il ritiro dei bagagli e fortunosamente, fra le mani avide alla ricerca della propria valigia, rintraccio i miei due pesanti colli.
Trascinarli dall’altra parte della stazione dov’è la biglietteria è un calvario e quando vi giungo trafelato e sudato, un altro poderoso ostacolo mi si para davanti.

Una folla di persone si accalca per acquistare un biglietto per le destinazioni più disparate ma quello che più mi preoccupa è dover prendere un biglietto….per acquistare il biglietto allo sportello!
E’ inaudito e dubito fortemente che potrò salire sul treno delle 14 e 50. Mi sottopongo mal volentieri a questa specie di “forca caudina” e per giunta non c’è nessuna possibilità di attendere seduto, tanto meno fare due passi perché devo tenere sotto controllo il bagaglio per l’assidua presenza di personaggi sospetti che si aggirano indisturbati nel salone della stazione.
Potrei utilizzare la macchinetta che emette i biglietti, ma non voglio correre il rischio, come un’altra volta mi è capitato, di introdurre un biglietto da 50 euro e ottenere in cambio… nulla!
Non mi fido, perché probabilmente oltre il danno c’è anche la beffa!

Irrimediabilmente il tempo passa e supera anche il limite delle 14 e 30, il minimo indispensabile per acquistare il biglietto, correre al binario – si fa per dire con il preso appresso - e salire sul treno: il mio numero di prenotazione è 775 e siamo ancora molto lontani affinché lo veda apparire sulla tabella luminosa.
Fortunatamente c’è un altro treno che parte alle 16 e 08 e, anche se fortemente contrariato da queste difficoltà, penso che forse ce la farò a tornare a casa entro stasera.
Quando arriva il mio turno mi precipito allo sportello e all’impiegato delle ferrovie faccio presente, ironicamente, che c’è voluto meno tempo per arrivare in aereo dal Canada di quanto ne sia occorso per comprare un misero biglietto del treno. Nemmeno una parola di conforto o di scuse!

Trascino i bagagli al binario e salgo sul treno pochi minuti prima che parta. Unica soddisfazione è quella di constatare che il mio scompartimento è quasi vuoto, se si eccettua la presenza di quattro o cinque albanesi.
Certo è una magra consolazione essere fuggito dalla “pazza folla” della stazione perché ora c’è da mettere in conto un ulteriore pesante viaggio di sei ore. Penso proprio che arriverò a casa non prima delle undici di stasera e quindi avverto telefonicamente mio figlio che arriverò, salvo ritardo del treno, alle 22.
Nel vagone l’aria condizionata non è proprio efficiente, sono tutto sudato per il caldo afoso e per aver trasportato, trascinandolo letteralmente, il sacco tenda. Tolgo di dosso il giubbino, che non aveva trovato posto nei bagagli, e la camicia tutta inzuppata e li metto ad asciugare sui posti liberi. Poi, quando più tardi passa il controllore, gli faccio presente che mi dispiace aver sparso il mio abbagliamento sui sedili. Lui mi punzona il biglietto e, senza dar peso alcuno al mio gesto, mi dice che fino a quando ci sono posti liberi va bene anche così.
Le ore di viaggio sono interminabili, anche senza l’ausilio di qualche cosa da mangiare. Poi finalmente giunge la sera, mentre è sempre più vicina la mia meta quando scorrono le ultime stazioni prima dell’arrivo.
Sono finalmente…quasi a casa!

Il treno entra lentamente nella stazione a conclusione di questa tormentata e stressante giornata che non auguro a nessuno e che mette fine al mio viaggio americano che, al contrario, è stato molto entusiasmante sotto tutti i punti di vista.
Quando però scarico i bagagli e scendo sul piazzale, mi rendo conto che le tribolazioni non sono ancora terminate: sulla piattaforma… non c’è nessuno ad attendermi!
Penso che mio figlio mi raggiungerà fra poco e attendo pazientemente: nessuno si fa vivo.
Ancora una volta, pazientemente, scendo nel corridoio dell’interrato e lo risalgo uscendo sulla piazza della stazione centrale. Guardo in giro e vedo Francesco intento a chiudere l’automobile.

Mi ha visto anche lui, mi sorride, ci abbracciamo e mi chiede che fine avessi fatto: “A me?”

Mi dice che il treno sarebbe dovuto arrivare sul binario 1, ma essendo lui giunto in anticipo era andato a far due passi fuori stazione. Nel frattempo, si era perso l’annuncio del cambio di binario… dal numero 1 al numero 3.
In macchina, dunque, e velocemente a casa.

Welcome back happily at home
e dopo gli abbracci calorosi e affettuosi con la mia famiglia, davanti a un bel piatto di pasta al forno, subito a raccontare la chimera appagata.​

Bis  FOTO UFFICIALE STURGIS 2013.webp.


Dedicato a tutti quelli che amano sognare e viaggiare.

Tutto quanto avevo sognato si è tradotto in realtà nella piccola cittadina americana di Sturgis, al suo annuale raduno motociclistico, nello spettacolo affascinante delle pianure del South Dakota.
Sturgis e il Motorcycle Rally sono quanto di meglio un motociclista possa concedersi e attendersi, partecipandovi. E’ quello che ho fatto, viaggiando in moto verso quella meta, con il necessario spirito di avventura, cavalcando una mitica moto Harley-Davidson Electra Glide di colore Blu per 3.085 miglia, attraverso Ohio, Indiana, Illinois, Iowa e South Dakota.
Sturgis e il suo Raduno certamente, ma non meno importante ed entusiasmante l’opportunità di viaggiare attraverso territori sconfinati e incantevoli; di rivivere riecheggiamenti infantili delle lotte degli indiani e delle carovane dei pionieri dirette a ovest in cerca di fortuna; di visitare Parchi bellissimi; di toccare quasi con mano mandrie di bisonti al pascolo; di assaporare il richiamo delle old town, sorte durante la corsa all’oro, con sceriffi e pistoleri che si davano battaglia.
Appagato negli occhi e nell’animo, devo dare atto a chi e a che cosa hanno fatto sì che questa avventura si dimostrasse degna di essere vissuta, assolutamente magnifica e forse irripetibile.

Soprattutto, devo esprimere gratitudine verso la mia famiglia, senza la quale nulla sarebbe stato possibile, che mi ha sopportato, poi appoggiato e graziosamente mi ha concesso il permesso di realizzare quel sogno.
Infine, devo ringraziare la mia moto e il 73° Motorcycle Rally di Sturgis, dove c’ero anch’io, forse “unico italiano” tra il mezzo milione di bikers presenti, perché per me - motociclista - parteciparvi è stata una di quelle cose che nella vita bisogna fare almeno una volta!
ELECTRA GLIDE IN BLUE STURGIS.webp

…una splendida avventura!



p.s.- Dalsnibba, Giada50, Capricorno, Al&Rita, Vera59, Miryam, Roberta80, Bigi67, che ringrazio di cuore per avermi gratificato con i vostri “like” leggendo il mio viaggio, a voi chiedo e a tutti gli altri cortesi crocieristi chiedo il permesso di continuare a scrivere ancora sulle mie scorribande in terra americana. Grazie.


 
Grazie a te jonnyv! bellissimo diario.
Continua certamente con i tuoi racconti e foto in terra americana e anche in giro per il mondo!
Noi saremo qui pronti a seguirti!
 
Bentornato e grazie di avermi portato con te in questo interessante ed avventuroso viaggio. Credo sia stata davvero una esperienza indimenticabile. È stato un piacere seguirti e spero di leggerti ancora.
 
Grazie mille per questa piacevolissima esperienza e complimenti per la scorrevolezza del tuo racconto.
Mi auguro di poter seguire presto una tua nuova avventura.
Alberto
 
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