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My USA on the Road...and more.

seguito Arches N.P.

ARCHES SCENIC DRIVE

La strada panoramica sale dapprima su una sorta di belvedere che ha a sinistra alte pareti rocciose e a destra un punto di osservazione privilegiato dal quale si può ammirare la vallata con il Colorado e la cittadina di Moab. Attraverso curve e controcurve ad ampio raggio giungo al punto panoramico di Park Avenue dove inizia un bel sentiero di un chilometro e mezzo che in mezz’ora di cammino, attraversando imponenti rocce simili ai grattacieli di New York, giunge alla banchina di sosta denominata Courthouse Towers, più avanti sulla strada.

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L’escursione sarebbe davvero interessante se potessi lasciare la macchina in sosta al parcheggio dove inizia il percorso e tornare a riprenderla da Courthouse . Sono circa quattro chilometri fra andata e ritorno e un’ora e mezzo di tempo stimato. Vedrò al ritorno se potrò farla.
D’ora in avanti i punti panoramici si sprecano, le vedute sono fantastiche e dovrò fermarmi obbligatoriamente almeno qualche minuto per osservare e fotografare. Infatti, appena un centinaio di metri più oltre, mi fermo nella banchina di sosta dalla quale si possono vedere all’orizzonte i rilievi delle montagne La Sal che raggiungono altezze di quasi 3.500 metri e sono la seconda catena montuosa più alta dello Utah. Ancora un paio di minuti di viaggio e giungo al parcheggio Curthouse Taower dove un gigantesco monolite di arenaria color salmone, denominato Organo, troneggia proprio davanti ai miei occhi. Anche le torri affiancate Three Gossips, che hanno in punta dei grandi massi in equilibrio, non sono esenti dall’attenzione di tutti i visitatori presenti, me compreso.

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Lo scenario fantastico che ho ammirato lascia il posto a un paesaggio dall’aspetto sconcertante dominato da una grande stratificazione di basse rocce scure denominate Petrified Dunes.
Ma, una decina di minuti oltre, ecco la predominanza di Balanced Rock, una formazione rocciosa fragile e pittoresca che ha per guglia un grande masso a forma di uovo che sembra stia per venir giù a momenti.

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Proprio in questo punto c’è un incrocio. Con una deviazione di quattro chilometri su strada asfaltata mi darebbe la possibilità raggiungere un parcheggio ed camminare poi a piedi un sentiero denominato Windows che in un’ora circa, fra andata e ritorno, mi offrirebbe la veduta di North Sud Window Arch, South Window Arch, Turret Arch. e Double Arch.​
Tutto questo…in riserva.
Dopo due chilometri una veduta veloce da Panorama Point, un pianoro con vista a 360 gradi che spazia sul Parco.

Poco oltre, raggiungo il bivio per Delicate Arch, ma c’è un’amara sorpresa: un divieto d’accesso perché la pioggia di ieri ha allagato la strada che al momento non è percorribile. Un vero peccato e un vero disappunto a cui cercherò di porre rimedio domani mattina, speriamo.
Nei successivi dieci chilometri non effettuo altre soste perchè per buona parte il paesaggio è desertico mentre in prossimità di Devils Garden un grande banco di pinne di arenaria e massi appuntiti color salmone sulla mia destra contrastano vivacemente con l’esteso pianoro desertico alla mia sinistra.
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La Scenic Drive termina nell’aerea di parcheggio di Devils Garden. Il luogo è molto esteso e organizzato a dovere con servizi igienici, una fontana per rifornirsi di acqua, bacheche informative del tracciato e soprattutto consigli importanti per l’escursione: “Arches National Park può essere molto difficile in estate a causa del caldo secco che rende complicato controllare la disidratazione perché il sudore si asciuga quasi istantaneamente. Preparare e portare acqua abbondante, soprattutto se si prevede di completare l'intero percorso attraverso il Primitive Trail”.

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seguito Arches N.P.

DEVIL’S GARDEN HIKING

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Devils Garden è la seconda sezione del Parco più visitata, dopo Delicate Arch, e permette di intraprendere il trekking più lungo. Sono undici chilometri di percorrenza, fra andata e ritorno, con l’incontro ravvicinato di otto archi spettacolari: Tunnel Arch e Pine Tree Arch, Landscape Arch, Partition Arch, Navajo Arch, Double O Arch, Dark Angel e Private Arch. Quest’ultimo si trova sul percorso opzionale di ritorno denominato Primitive Trail.
Prima di parcheggiare sono andato a sincerarmi sulla disponibilità di posti al campeggio e il cartello “tutto esaurito” era già pronto per me all’ingresso: la mia guida non mente mai!
Sono già numerose le auto in sosta, tanto che a malapena riesco a trovare un posto abbastanza vicino al punto di partenza del sentiero. Il mio intento è quello di raggiungere Dark Angel, luogo dove termina il percorso principale e possibilmente far ritorno attraverso il Primitive Trail che si innesta nuovamente su quello iniziale nei pressi di Landscape Arch. Penso di impiegare come minimo tre ore e quindi faccio rifornimento d’acqua e porto con me soltanto l’attrezzatura fotografica.

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Mi avvio sul percorso, inizialmente pianeggiante e lastricato con pietrisco leggero, che passa in mezzo ad alte pareti verticali di arenaria. Osservo anche la presenza di una famiglia con bambini che torna al parcheggio, segno che l’escursione non dovrebbe essere particolarmente difficile.

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Dopo quella sorta di strettoia, il paesaggio si amplia considerevolmente e subito, perfettamente segnalato con una rustica tabella di legno, incontro il bivio, che porta, non molto lontano, a Tunnel Arch e Pine Tree Arch. Mi riservo di vederli al ritorno. Per adesso continuo sulla pista pavimentata fra bassi arbusti verdi, massi di arenaria e una veduta su una vallata quasi desertica.​

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Al secondo bivio del Primitive Trail il sentiero cede il passo ad una pista sabbiosa, delimitata poi da una staccionata, che passa davanti al primo arco spettacolare che desideravo osservare e ammirare: Landscape Arch.
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Le fotografie si sprecano perchè l'arco di pietra, oltre che bellissimo, è un vero prodigio della natura; si staglia contro un limpido cielo azzurro con la sua campata di 93 metri di lunghezza – quasi quanto un campo da calcio – che lo annoverano come l'arco naturale più lungo del mondo.
Anni fa sono cadute porzioni di rocce staccatesi dalla zona più sottile dell’arco dimostrando che l’erosione, il vento, il gelo e l’acqua continuano imperterrite a modellare l’arenaria di quest’opera geologica straordinaria. Per ragioni di sicurezza non è più possibile passare sotto l’arco per andare a vederne altri due, ma tanto basta per restare ugualmente stupiti e senza parole al cospetto di tanta eleganza architettonica della natura.
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seguito DEVIL’S GARDEN HIKING

Se fino a Landscape Arch il sentiero è stato fin troppo facile e pavimentato adesso diventa moderatamente difficile e più impegnativo perché si snoda lungo pinne di roccia con numerosi e brevi cambi di altezze. Dopo una decina di minuti di marcia in queste condizioni, si scende sulla pista di sabbia e una deviazione dal sentiero principale mi permette di accedere a Partition Arch e Navajo Arch.

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Partition Arch è bellissimo ed è molto particolare perchè si può guardare la valle sottostante attraverso questa grande una finestra rotonda che si è prodotta nella roccia

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La pista sabbiosa torna indietro per un pò e poi mi riporta ancora avanti facendomi passare sotto una parete di arenaria bucherellata dall’erosione da farla sembrare una sorta di “formaggio svizzero”, confezionato dalla pioggia, e termina a Navajo Arch.

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Qualcuno forse ha messo degli “ometti di pietra" (carirn) come segnale in una rientranza vicino all’arco: sembra l’ingresso di una caverna dentro cui non posso accedere né passare sotto la campata perché il piano è tutto allagato a causa della pioggia caduta ieri. Tuttavia, la sua posizione offre molta ombra rispetto a qualsiasi altro arco dell'escursione ed è il luogo ideale per riposare al riparo dal caldo sole del deserto.

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seguito DEVIL’S GARDEN HIKING /2

Da Navajo torno sulla pista principale che adesso diventa difficile da percorrere. Il piano di calpestio della roccia è levigato, scivoloso, infido, con tratti larghi poco più di due metri, abbastanza esposti per l’altezza, tanto che per avanzare non bisogna soffrire di vertigini.

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Tuttavia, vengono verso di me marito e moglie con in braccio un bambino di un anno che mi chiedono di fotografarli. Devo dire che sono abbastanza coraggiosi per camminare quassù in queste condizioni di pericolo.

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In ogni caso, il paesaggio è assolutamente appagante con vedute spettacolari nel fondo del dirupo dove riesco a individuare il Black Arch, così chiamato perché è sempre in ombra.

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seguito DEVIL’S GARDEN HIKING /3

Adesso il Giardino del Diavolo comincia a far valere il suo nome a causa del caldo, per le rocce spaccate da una forza incredibile, per miriadi di pinne color salmone che fuoriescono dalla sabbia in un ambiente che è tribolato dalle avversità atmosferiche che si abbattono costantemente su di esso.

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C’è da fare anche qualche piccola arrampicata su lastre di arenaria e rocce dove sono stati scavati dei miseri appigli per poter avanzare ma, infine, dopo aver percorso tre chilometri dal parcheggio, raggiungo Double O Arch.
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Sono due archi bellissimi che si tengono quasi per mano come padre e figlio: il “padre” - si fa per dire – è il secondo più grande arco dopo Landscape e l’arcata superiore si estende su 71 metri, mentre l’arco inferiore più piccolo si estende per 21 metri.

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Passo oltre proprio sotto quest’ultimo per cercare di ottenere una migliore prospettiva fotografica dei due archi e in più posso guardare un bellissimo paesaggio dell’altopiano con l'orizzonte che crea uno sfondo perfetto.

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C’è parecchia gente e molti ragazzi, per divertimento e schiamazzando, si cimentano sotto l’arco in arrampicate raccapriccianti. Il rischio di scivolare e cadere giù nella sabbia pur morbida, potrebbe smorzare solo parzialmente gli effetti del pericoloso capitombolo.

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Il tracciato escursionistico termina sotto l’ultimo pezzo forte: Darck Angel. Però è necessario proseguire ancora per un chilometro e mezzo, fra andata e ritorno, per vederlo da vicino, ma non ritengo necessario arrivare fin là sotto perché anche dalla posizione in cui mi trovo posso avere un’idea di quello che troverò.
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In realtà, Darck Angel non è un arco, bensì, un gigantesco pilastro di arenaria di 45 metri di altezza che sbuca dal terreno collinare e si staglia contro il cielo azzurro tanto da sembrare una sentinella posta a protezione di tutti degli archi e delle pinne di arenaria del Parco.

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seguito DEVIL’S GARDEN HIKING /4

Nel posto in cui mi trovo c’è un paletto segnaletico di legno con piccole tabelle che segnalano due possibilità. La prima, è quella di tornare indietro al parcheggio tramite il sentiero principale, quello che ho percorso per arrivare qui. La seconda opzione è quella di tornare al parcheggio tramite il Primitive Loop che si ricongiunge a quello principale vicino a Landscape Arch.
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Poco più a destra, proprio dove inizia il Primitive Loop Trail c’è un ulteriore cartello con l’avvertenza che questa escursione è “difficile”!.

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Sono un poco titubante sul da farsi ma penso che, tutto sommato, il percorso non sarà poi tanto più difficoltoso rispetto a quello che ho seguito fino ad ora e in più mi offrirà l’opportunità di vedere anche Private Arch.
(A posteriori, gravissimo errore e sottovalutazione del rischio!)

Sulle prime, tutto sembra filare liscio, ma poi incominciano i tratti in cui bisogna fare veramente attenzione all’esposizione, alla roccia assai levigata e scivolosa e i tratti nei quali bisogna mettere quasi un piede davanti all’altro per poter proseguire.

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Inoltre, c’è la non remota probabilità di perdersi, evento molto pericoloso perché nessuno o quasi ….verrà a salvarti. Infatti, bisogna prestare molta attenzione a seguire gli “ometti”, le piccole pilette di pietre poste una sull’atra, alte non più di qualche ventina di centimetri che segnano la direzione del percorso.
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In sostanza, mi accingo a scendere in una sorta di canyon percorrendo il dorso di grandi lastre di arenaria, saliscendi fra massi di roccia addossati uno all’altro, radici contorte e affioranti dal terreno e qualche pozza d’acqua da guadare.

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seguito DEVIL’S GARDEN HIKING /5

Sul fondo di questo sconquasso di pinne e rocce di arenaria ci sono per fortuna abbastanza piante e bassi alberi dove prendere fiato all’ombra, mentre sull’estesa parete verticale di questo canyon è possibile vedere in alto un vero e proprio buco solitario nella roccia. Inoltre, per quanto spettacolari siano gli archi, direi che i grappoli di alte e strette pinne che osservo lontane provocano quasi un uguale stupore.
Proseguendo in questa clamorosa avventura, arrivo in un punto dove per scendere giù da una roccia liscia, dove le mie scarpe non hanno alcuna presa, bisogna scivolarvi sopra e dall’alto di almeno tre metri. Non esiste altra possibilità e altri escursionisti hanno la mia medesima difficoltà. Aiutandosi l’un l’altro, dopo vari tentativi, riesco a passare dall’altra parte e camminare almeno sul tratto sabbioso.
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Dopo una ventina di minuti raggiungo finalmente Private Arch, devo dire bellissimo, in posizione abbastanza riservata e intima, come evoca e suggerisce il suo nome. E’ mezzogiorno e i raggi perpendicolari del sole determinano alla base dell’arco un’ombra perfetta della quale approfitta una famiglia con due ragazzi intenta a far colazione.

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A questo punto però ho la netta impressione che il caldo abbia già iniziato a causare su di me i suoi effetti deleteri e, non avendo più acqua ne alimenti disponibili, mi sa che la situazione nella quale mi trovo si è fatta piuttosto delicata e pericolosa. Per dirla tutta, gli effetti nocivi della disidratazione sono dietro l’angolo!
Per poter terminare questo percorso “ad ostacoli” mi ci vorranno almeno due ore e non so se più avanti troverò intoppi ancor più difficili da superare.
Pertanto, valuto che tornare indietro sia la soluzione migliore perché già conosco il percorso. Quando però arrivo a quel grande masso di arenaria dal quale mi bastava scivolare giù per poter continuare, la situazione ora è capovolta, complicata e ancor più difficile perché bisogna tentare di arrampicarsi. Parecchi tentativi faticosi non sortiscono alcun risultato positivo tanto che cerco di trovare una soluzione aggirando l’ostacolo: niente da fare! Non posso andare avanti ne tornare indietro ma per fortuna c’è un aiuto inatteso per salire. Lancio lo zainetto dall’altra parte, preso al volo da un signore al quale avevo fatto cenno, qualcun altro mi solleva a forza mettendo le sue mani sotto le mie scarpe, mentre un altro sulla roccia mi porge il braccio per tirarmi su.
Questa tecnica è adoperata anche da qualcun altro che si trova nella medesima difficoltà ma, per quando mi riguarda, pur essendo riuscito nell’impresa, la prova ha determinato un affaticamento notevole e con questo caldo ho la netta sensazione di essere anche disidratato.
Devo cercare di percorrere tutto il sentiero a ritroso - più di quattro chilometri - nel più breve tempo possibile, sapendo già che la mia ancora di salvezza è la fontanella che si trova nel parcheggio.
Più cammino e più sento che qualcosa non va per il verso giusto. Solo velocizzando il passo, pur sprecando preziose energie, dopo circa due ore, stanco e quasi del tutto disidratato a causa del sole cocente, raggiungo la mia meta e, letteralmente, mi butto con la testa sotto la “mitica fontana del parcheggio”. Bevo a piccoli sorsi molta acqua rimettendomi un po’ in sesto ma sono stanchissimo e non ho neanche qualcosa da mettere sotto i denti.
Scampato il pericolo, non ho più la mente lucida e le condizioni fisiche adatte per badare ad altro e quindi mi tocca tornare in fretta a Moab per trovare almeno qualcosa da mangiare…al Subway.
All’interno del locale mi rinfresco e mi faccio preparare un super panino imbottito di carne e verdura che poi divoro voracemente lenendo la fame, mentre il bicchierone di coca cola fa la sua parte dissetandomi egregiamente.
Anche le batterie della videocamera Sony hanno bisogno di energia…elettrica e quindi approfitto di una presa di servizio vicino al mio tavolo, e attendo che si ricarichi.

Non avendo altro da fare, prendo nota sul mio diario di tutto quello che ho visto nell’escursione al Parco, rifletto su quello che mi è capitato e di essermi salvato per il rotto della cuffia. Le avvertenze sistemate nei parchi non sono mai messe a caso e devono essere rispettate. Mi è capitato al Grand Canyon di non scendere giù al fiume Colorado perché non mi sentivo in forma, attenendomi ai consigli delle bacheche informative. La stessa cosa non è stata messa in atto ad Arches per un errore di valutazione che poteva costare anche molto caro.

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Seguito DEVIL’S GARDEN HIKING /6

Ogni tanto una lezione serve e adesso, dopo aver “caricato” il corpo e anche le batterie della cinepresa, mi basta andare dieci minuti fuori da Moab per avere una piacevole distrazione lungo l’argine del tranquillo fiume Colorado.

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Di ritorno, a qualche chilometro dal ponte sul fiume, trovo posto in un motel abbordabile in periferia di Moab, più comodo quando dovrò abbandonarla.
Poi me ne vado downtown concludendo questa giornata, ricca di soddisfazioni e di pericoli sottovalutati, cenando al Subway e a passeggio in città, accorgendomi della presenza di qualche italiano. Molti sostano nei bar e ristoranti all’aperto di Moab mentre l’aria condizionata vien fuori a dismisura producendo refrigerio su clienti e passanti, visto che il caldo imperversa anche all’imbrunire.
Devo dire però che ciò mi manca veramente…è la frutta!
Entro in un supermercato e adocchiate grandi e grasse ciliegie ciliegie ne copro almeno un chilo. Poi, comodamente seduto nel giardino del Centro Visitatori ne mangio così tante che per digerire la scorpacciata ho dovuto attendere parecchio tempo prima di prender sonno nel motel.

A domani.

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Che bello vedere gli scorci di Arches che non ho potuto ammirare personalmente!
Posso solo immaginare l'effetto della disidratazione: noi ci eravamo allontanati dalla macchina per non più di 20 minuti e già si faceva sentire... bisogna stare attenti!
Infine, un ricordo legato alla frutta: anch'io a Moab ne avevo sentito la necessità! Sarà l'effetto del clima arido? Io però mi ero procurata mirtilli e lamponi...
Che ricordi riaffiorano!😍
 
Certo hai corso un bel rischio e se non avessi trovato chi ti desse un aiuto saresti stato sicuramente nei guai. Quelli sono luoghi che se non sei più che preparato ed attrezzato rischi davvero la vita.
 
Giada50 hai perfettamente ragione, ma più che impreparazione la chiamerei "grave disattenzione".
Sulla pista c'erano parecchie persone e anche famiglie con ragazzi. La cosa che più mi preoccupava era il fatto di aver terminato la scorta d'acqua. Tuttavia, sarebbe stato più semplice andare avanti e non tornare indietro, come ho scoperto in seguito. Mi è servito di lezione e vedrai che più avanti ne terrò conto.
 
Seguito Arches N.P.

DELICATE ARCH

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Messo da parte il pericoloso epilogo di ieri a Devis Garden, la giornata odierna sarà piuttosto impegnativa prerchè prima di tutto andrò a sincerarmi sulla possibilità di andare a vedere l’emblema di Arches N.P e il simbolo dello stato dello Utah: Delicate Arch.
Ieri la strada per accedere al parcheggio dove inizia il trekking per l’arco era allagata e spero tanto che oggi quel tragitto sia percorribile.
Al parco si viene soprattutto per vedere il meraviglioso Delicate Arch. Si potrebbe ritenere che il “nome” gli sia stato attribuito a causa della instabilità o friabilità della roccia, denotando l’impressione che sia pronto per precipitare. Ma non è così perché nel 1934 una spedizione scientifica lo descrisse come "l'arco più delicatamente cesellato dell'intera area del Parco".

Nella seconda parte della giornata, andrò alla scoperta minima – molto minima - di Canyonlands, un parco nazionale grande quanto Arches, Zion Park e Bryce Canyon messi insieme. Al termine di questa escursione partirò alla volta di Salt Lake City e strada facendo pernotterò in un motel già pianificato nel mio road book.

Il tempo è abbastanza bello, ideale per le escursioni e per le fotografie, e la temperatura al momento è apprezzabile, anche se sono certo che più tardi farà caldo. Dopo una colazione abbondante, parto senza indugio dal motel vicino al Colorado e in dieci minuti raggiungo il casello del parco. Al ranger che controlla la mia tessera Beautiful America, chiedo se la strada per Delicate Arch è percorribile e mi conforta moltissimo la sua riposta positiva.
Percorro velocemente i diciotto chilometri entusiasmanti della sinuosa Arches Scenic Drive, ricca di “piacevoli distrazioni rocciose”, fino alla deviazione per la Dlicate Arch road.
Ancora due chilometri su questa strada e mi ritrovo nel parcheggio, a quest’ora quasi completo, dal quale parte l’escursione per raggiungere il famoso arco di pietra, già in vista di obbiettivo fotografico da un bel punto panoramico predisposto con le consuete tavole interpretative.

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L’escursione è classificata “moderatamente difficile” e quindi niente a che vedere con quella di ieri.
La distanza totale, fra andata e ritorno è di otto chilometri e per completare l’escursione senza fretta e per trascorrere del tempo sotto l’arco mi occorreranno più di due ore.
Il cielo è parzialmente nuvoloso e non fa eccessivamente caldo. Tuttavia, nonostante l’ascesa di soli due chilometri, questa volta porto dietro abbastanza acqua, qualche stuzzichino, l’attrezzatura fotografica, il bastone da trekking e il cappello a larghe tese.

Inizio una salita di circa un chilometro sul terreno roccioso costituito da lastre di "slickrock" (rocce levigate) assieme a una moltitudine di persone: adulti, ragazzi, bambini, qualche mamma con marsupio e bebè al seguito sembrano far parte di una sorta di processione rituale per raggiungere un luogo “sacro”.

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In verità, il primo tratto del percorso è largo, ben definito e non c’è pericolo di perdersi perchè la direzione più opportuna è segnalata dai noti cairns, le pilette di pietre facilmente riconoscibili e poste come segnale per chi avanza.
Dopo appena un centinaio di metri dalla partenza, raggiungo il punto più elevato della distesa di rocce levigate senza spreco eccessivo di energie e sono confortato da una bella vista sui monti La Sal, innevati anche in questa stagione.
Salgo ancora verso sinistra mentre il sentiero, che per fortuna è largo più di tre metri, si fa strada aggirando per circa duecento metri la sporgenza di una parete rocciosa che ha un’esposizione da vertigini su uno strapiombo.

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Solo quando termina questo tratto curvilineo, finalmente eccolo lì, in tutta la sua grandezza, il meraviglioso Delicate Arch.
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Fin’ora celato, sembra quasi emergere improvvisamente dal suo anfiteatro naturale e non so trattenere l’entusiasmo avvicinandomi al suo cospetto, giungendo sotto questo poderoso arco di arenaria alto 18 metri e largo 10.
Delicate Arch dal tenue colore rosso salmone è bellissimo e dal modo con cui è adagiato solitario su un ampio anfiteatro che degrada in un canyon non mi è difficile capire perché sia così famoso, così fotografato e così ambito dai viaggiatori di tutto il mondo.
Inoltre, il fatto che sia rimasto nascosto alla vista per tutto il trekking e fino all'ultimo metro, non ha fatto altro che accentuare la sua bellezza scenografica subito dopo aver superato la svolta di quel passaggio pericoloso e quasi segreto.​

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Centinaia di persone, sole o accompagnate da bambini e ragazzi, sostano in tutta la zona seduti sulle rocce, mangiando qualcosa o pronti a fotografare da qualsiasi angolazione possibile l’arco più famoso dello Utah e forse del mondo intero. Non mi sottraggo neanche io a questo rito ma tutte le immagini non gli renderanno mai la meritata spettacolarità.
Tuttavia, con la complicità di una ragazza mi faccio riprendere davanti all’arco, sotto l’arco, di lato all’arco, più lontano, più vicino cercando sempre di ottenere la migliore immagine possibile della meta di una escursione assolutamente irrinunciabile e appagante.

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Francamente mi resta difficile abbandonare questo posto, dopo essermi trattenuto abbastanza per godere lo spettacolare Delicate Arch, mentre intere famiglie cominciano ad affollare il “campo” con la prevedibile impossibilità di ottenere fotografie prive di presenza umana.​

continua...
 
Seguito escursione DELICATE ARCH

La discesa da Delicate Arch è abbastanza agevole e veloce ma, poco prima di giungere al parcheggio, seguo una un piccolo sentiero che si separa da quello principale, proprio dove è stata messa l’indicazione Petroglypfhs segnalata da una tavola di legno.

Il breve tratto mi fa giungere davanti a una piccola montagnola di massi e su uno di questi, abbastanza levigato e piuttosto scuro, posso vedere i segni tangibili della presenza di antichi popoli che hanno abitato questo territorio da millenni. Si tratta di bellissimi pittogrammi, tipici dell'arte rupestre degli indiani Ute, che rappresentano, in forma stilizzata, uomini a cavallo circondati da pecore bighorn e altri animali simili a cani.

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Il consueto pannello informativo, posto proprio di fronte, afferma che la presenza di uomini a cavallo è la prova che gli indiani americani incisero queste figure dopo l'introduzione dei cavalli nel Nord America a metà del 1600. Inoltre, è evidenziato che questa arte rupestre ha una connotazione importante per molti nativi americani di questa regione perché è opera dei loro antenati. Si avverte, infine, di non toccare le incisioni perchè la pelle untuosa delle dita accelera il deterioramento di queste risorse culturali fragili e insostituibili.

Lì nei pressi un altro cartello indica la direzione per Wolfe Ranch.

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Trovo un’umile capanna edificata con tronchi di legno appartenuta a John Wesley Wolfe, un veterano della Guerra Civile, che all’età di settant’anni si era stabilito in questo posto assieme a suo figlio. Sbirciando dalla porta di ingresso posso guardare la dimensione dell’unico locale: una ventina di metri quadri di un’abitazione assai spartana. Una sorta di scantinato e il recinto per il bestiame segnano questo ranch primitivo gestito nei primi anni del 1900 – e per più di 20 anni - dalla famiglia Wolfe in questo luogo desolato.​

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Ripercorrendo la Arches Scenic Drive verso l’uscita del parco è un imperativo scattare le ultime foto a quelle che più indietro ho menzionato come piacevoli distrazioni rocciose, nonché alla fotogenica Balanced Rock che è ancora lì al suo posto e che vi rimarrà per chissà quant’altro tempo ancora, stupendo tutti per il suo equilibrismo.

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Tuttavia, il tempo passa in fretta ed è arrivato il momento di andare a scoprire il dirimpettaio di Arches: l’estesissimo Canyolands National Park, talmente grande da essere, tuttota, non del tutto esplorato.
Mi accontenterò di vedere solo una sezione, ovvero Island in the Sky, e per raggiungere il suo Visitor Center dovrò percorrere almeno settanta chilometri, solo andata.

continua...
 

30 - seguito USA Coast to Coast and Park to Park


CANYONLANDS

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Canyonlands è il più grande parco nazionale dello Utah: un’immensa distesa rocciosa scolpita nel corso di milioni di anni dagli agenti atmosferici e segnata da due grandi gole dove scorrono il Green River e il Colorado. L’estesissima piattaforma rocciosa del parco è divisa in tre zone, ognuna delle quali ha un proprio ingresso e una propria denominazione in funzione del paesaggio che presentano ai visitatori: Island in the Sky (isola sotto il cielo), The Needles (gli aghi) e The Maze (il labirinto).
Il mio interesse maggiore è volto a visitare Island in the Sky perchè è la zona di Canyonlands più vicina a Moab, più facile da visitare, con diversi punti panoramici e molte possibilità di escursioni. Nel mio road book ho programmato di fare tappa inizialmente al Centro Visitatori per procurarmi la mappa dell’area. Poi desidero andare a vedere, in particolare, Mesa Arch; di seguito, i punti panoramici di Grand View Point, Gran River e Upheaval Done Point mentre sulla via di ritorno mi fermerò a Dead Horse Point.
Sono anche intenzionato ad effettuare due escursioni, se ci sarà tempo, per vedere Aztec Butte e False Kiva, itinerario quest’ultimo moderatamente difficile, ma in compenso molto interessante, che mi riservo di praticare quando arriverò al punto dove inizia il sentiero.

Dopo aver abbandonato il meraviglioso Arches Park e la sua bellissima icona Delicate Arch, a circa venti chilometri da Moab una deviazione sulla US-191 mi fa passare a sinistra sulla statale UT-313; in un primo momento è abbastanza monotona ma in seguito la strada si inoltra fra pareti di basse mesa abbastanza caratteristiche.

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Terminata questa sezione, il percorso si dispiega in una piana indefinita che ha come punto di riferimento solo il Centro Visitatori. Poi la scenic road continua fino all’orizzonte con la mia percezione, strana ma assolutamente reale, che la terra tocchi il cielo posto a protezione. Questa sterminata distesa pianeggiante è il plateau di Canyonlands, il cuore dell’altopiano del Colorado.
Al primo punto di osservazione panoramico, Shafer Canyon Overlook, posso toccare con mano ciò che le forze della natura hanno provocato nel corso di milioni di anni su questa distesa pianeggiante. Sembra che qualcosa abbia letteralmente spaccato la terra provocando abissi, canyon e mesa a dismisura in cui si inoltra e si contorce con tornanti una strada off road che scende sul fondo da questo punto di partenza.

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La strada panoramica continua sul territorio pianeggiante, dimentica di ciò che è accaduto ai suoi fianchi, mentre la mia prossima sosta è vicina: Overlook Mesa Arch.
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Dal parcheggio, una facile e breve camminata di un chilometro e mezzo, mi offre l’opportunità di osservare Mesa Arch, un bellissimo arco situato proprio sopra uno strapiombo e molto scenografico se visto al tramonto oppure all’alba. Lo spettacolo guardando giù oppure in lontananza attraverso l’arco è assicurato e regala la sensazione di scrutare attraverso il foro di una
ipotetica serratura un paesaggio affascinante che si distende a dismisura verso l’infinito.

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Quando dopo dieci chilometri oltre Mesa Arch, su una biforcazione a sinistra, raggiungo il punto di osservazione dove termina la strada panoramica, la grandiosità del paesaggio di Island in the Sky raggiunge il massimo della sua connotazione espressiva: Grand View Point.
Seguo un sentiero di un chilometro e mezzo che si snoda lungo il bordo della mesa fino al punto panoramico Gran View. Poi, davanti ai miei occhi si dispiega un paesaggio grandioso, sconfinato e unico, scolpito da acqua e gravità, i principali architetti di questa terra, che hanno ritagliato strati uniformi di roccia sedentaria in centinaia di canyon, mesa, butte, archi e guglie.
Il panorama ha qualcosa di inimmaginabile, illimitato, bellissimo e di una portata tale che, a mio parere, relega il Grand Canyon Colorado in un ruolo secondario.

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Di fatto, Island in the Sky è un grande mesa che funziona come una torre di osservazione su Canyonlands. Si estende sulle profondità solcate dai fiumi Green e Colorado, canyon dopo canyon, verso un orizzonte visivo di ben 150 chilometri in qualsiasi direzione, segnato quest’ultimo dalle cime delle montagne che chiudono la pianura del paesaggio.
Nei pressi del bordo della mesa sul quale mi trovo c’è il White Rim, un banco di arenaria posto a una profondità di 350 metri. Ancora al di sotto di questo, molto più giù, ci sono i fiumi ombreggiati dagli alti strapiombi dei canyon, al di là dei quali si estendono le mesa di Maze e Needles. A parte gli indiani nativi, poche altre persone hanno avuto l’audacia di accedere a quest’angolo austero dell’Utah tanto che, in gran parte, Canyonlands resta tuttora inesplorato.

Ma le aspettative incredibili di questo territorio non sono ancora terminate perchè, tornando indietro dopo questa superba veduta, sono diretto, alla parte opposta, a Upheaval Dome, il più strano sito geologico di Island in the Sky.
Come intermezzo, la strada panoramica passa vicino ad Aztec Butte, località programmata, ben segnalata e con parcheggio dedicato. Sul posto, immancabile tabellone informativo con le indicazioni del percorso e le precauzioni da prendere per salire su un paio di colline di arenaria.

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Gli Anasazi che vivevano in questa zona salivano sull'altopiano solo per raccogliere il cibo, immagazzinandolo in siti protetti difficilmente accessibili. Alcune delle loro strutture possono essere viste in questa escursione salendo sulla collinetta al culmine della quale dovrei avere anche una vista eccezionale del canyon circostante.
Il sentiero è lungo solo tre chilometri, fra andata e ritorno, e abbandonata l’auto mi avvio su una pista di sabbia compatta, ben segnalata e facile da seguire, in un tipico habitat desertico di erbe, cactus e arbusti. Quando però giungo alla base della collinetta e incomincio a salire mi accorgo che l’escursione si rivela, ingannevolmente, difficile. Per un pò insisto nel proseguire cercando di superare alcune pendenze e rocce levigate, ma poi incomincio ad avvertire anche l’influsso negativo del caldo e per giunta non ho portato neanche una bottiglietta d’acqua.
Memore di quanto accaduto ieri al Primitive Trail di Arches, non mi sembra il caso di rischiare, tanto più che, tornando al parcheggio, non troverò certo una fontanella pronta a dissetarmi. Pertanto, mi riposo per un pò di tempo sotto un albero, la cui ombra mitiga la calura desertica, e poi, certamente scontento ma sano, torno al parcheggio per riprendere la macchina e continuare sulla strada panoramica.
Dopo cinque chilometri arrivo nel punto dove dovrebbe iniziare il percorso a False Kiva che ho in programma. Tratto da Wikipedia, il termine kiva deriva dalla lingua hopi e designa uno o più ambienti utilizzati dai Pueblo per le loro funzioni religiose o per assemblee. Questi locali sono tipicamente a pianta circolare, sotterranei o semi-sotterranei e vi si accede con una apertura sul tetto e scale a pioli.
Stranamente non c’è una banchina di sosta, non vedo alcun cartello segnaletico ma solo tronchi di arbusti al di là dei quali noto una parvenza di tracciato escursionistico. Nel mio road book ho il dettaglio dell’escursione per raggiungere quel sito archeologico interessante, reso anche noto da una famosa fotografia di Wally Pacholka con due vedute mozzafiato: la Via Lattea in tutta la sua bellezza e il canyon di Candlestick Tower in lontananza.
Fra andata e ritorno, dovrei percorrere non meno di sei chilometri e occorrono almeno tre ore di tempo. Sul road book ho registrato che il tragitto è di media difficoltà ma verso la fine la possibilità di procedere non sarà agevole. Forse troverò delle pilette di pietra come segnale per il sentiero da seguire ma devo dire francamente che da solo non me la sento ancora una volta di rischiare.
A scanso di cattive sorprese, decido di rinunciare.
Lo so è frustrante; a volte non si può fare o vedere tutto ma se fossimo in due… sarebbe tutt’altra storia.

Tuttavia,solo due chilometri mi separano dal parcheggio dove termina la strada panoramica e allora “andiamo a vedere questo famoso Upheaval Dome.
Nella zona di sosta ci sono panche e tavoli disponibili sotto tettoie di legno, ottime come riparo del caldo sole e all’occorrenza per far colazione. La consueta bacheca informativa, completa e dettagliata, indica che ci troviamo a Upheaval Dome.

vlcsnap-1100026.webpSeguo un percorso assai facile, una semplice passeggiata di tre chilometri, fra andata a ritorno adatta a tutti, bambini compresi, grazie a scalini intagliati nella roccia che agevolano molto le brevi salite. Al termine di questo tracciato trovo un altro cartello che emblematicamente recita “Mistery” e disegni esplicativi sull’ipotesi più accreditata di come si sia formata questa stranezza terrestre. Salgo allora su una roccia levigata che è il punto di osservazione migliore per poter vedere una voragine impressionante prodotta da una immane potenza geologica, oppure provocata dalla caduta di un meteorite.

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Il “buco” Upheaval Dome ha una profondità di oltre mezzo chilometro e un’ampiezza, da parte a parte, di oltre due. Nessuno è stato in grado di affermare con esattezza come si sia determinato questo sconvolgente abisso. Tuttavia, qualunque sia l’origine di Upheaval Dome, la forma attuale è quella di un cratere spettacolare, ripido e irregolare eroso dalle possenti forze della natura.

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Lasciando “il cratere”, un’ultima dimostrazione spettacolare e grandiosa di Island in the Sky mi attende a Green River Overlook e non ho più parole!

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Con questa ultima dimostrazione inattesa della forza geologica degli elementi e del tempo, Island in the Sky mi ha veramente conquistato.

Quasi controvoglia torno sui miei passi verso la statale UT-191 con l’intento, prima di proseguire alla volta di Salt Lake City, di andare a vedere Dead Horse Point. Giunto al casello la ranger mi chiede dieci dollari per entrare nel sito. L’Annual Pass qui non vale e allora decido che “il gioco non vale la candela”, visto che devo solo fare qualche foto.
Dopotutto, il paesaggio che poi ammiro dalla mia macchina è sanz'altro spettacolare.

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Sono già quasi le quattro di pomeriggio. Per arrivare a Salt Lake dovrei viaggiare per più di 300 chilometri e mi ci vorranno almeno cinque ore, senza mettere in conto qualche sosta. Per inciso, in Italia basterebbero solo un paio d’ore, ma non negli Stati Uniti perchè la regola del limite di velocità è rispettata da tutti, pena multe salatissime e ritiro della patente.
Per adesso parto e strada facendo farò il punto della situazione.

continua...
 
31 - seguito USA Coast to Coast and Park to Park

8ª Tappa – CANYONLANDS – Green Rever - 100 km

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Abbandono “la terra degli archi di pietra” e il “selvaggio” Canyonlands mentre la scorpacciata di ciliegie di ieri sera innesca ancora i suoi effetti indesiderati provocando l’abituale disagio.

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Peraltro, la statale 191 non allevia la mia condizione fisica perché, infinitamente dritta, piatta e priva di attrattive, attraversa solitaria un paesaggio sconfinato.

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Un misero diversivo lo trovo solo al raccordo con l’autostrada Interstate 70 perchè, lì vicino e del tutto solitario, c’è il piccolo distributore di carburante “Papa Joe’s stop & go”.

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Nella rivendita di cui dispone mi disseto con una bibita fresca assolutamente necessaria con il caldo che imperversa nel pomeriggio inoltrato.
Dopo questa pausa di ricreazione salgo su raccordo e, viaggiando ora verso ovest, le grandi corsie autostradali amplificano ancor più il desolato e grigio deserto sul quale, di tanto in tanto, si levano modeste formazioni di calanchi.

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Ad un certo punto la stanchezza prende il sopravvento e per sopperire anche alla monotonia paesaggistica il road book è l’arma migliore da sfoderare. Mi consiglia di uscire dall’autostrada per fermarmi al paese di Green River, ai margini dell’omonimo fiume. Metto in atto l’espediente e, avvicinandomi alle prime case, basse e anonime, avverto che l’urbanizzazione è inflazionata da moltissimi motel e alberghi, adatti a qualsiasi tasca. Veramente non so quale sia la ragione di tanta dovizia che continua anche dopo aver superato il ponte sul fiume Green River. In più, si intensificano anche le stazioni di servizio carburante, tavole calde, capannoni, officine di riparazione veicoli e un andirivieni di truck esagerati che transitano nel centro cittadino.

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Sono quasi le otto di sera e quindi, non potendo continuare, ritengo che la soluzione migliore sia quella di fare tappa a Green Rever e passarvi la notte. Oltretutto, ho individuato il Budget Inn Motel che si presta benissimo a soddisfare il mio proposito.

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Il motel è una costrizione bassa e squadrata, colorata di bianco e verde, dotata di una ventina di camere affiancate a livello stradale, dispone di connessione wi.fi e il gestore mi chiede cinquanta dollari per il pernottamento, colazione inclusa. Accetto subito, considerando il prezzo modico, e mi sistemo in una camera abbastanza confortevole con il solito lettone americano, un televisore e servizi essenziali: quanto basta per farmi riposare e dormire tranquillo.
Non metto più piede fuori dal motel perchè, con il confort dell’aria condizionata che ho messo al minimo, nella stanza si sta benissimo ed è la condizione ideale per permettermi di recuperare tutte le forze perdute.

continua...
 
32 - seguito USA Coast to Coast and Park to Park

9ª Tappa – GREEN RIVER – SALT LAKE CITY – MONTPELIER - 550 km
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Dormivo profondamente quando alle quattro di mattina giunge, del tutto inattesa, la telefonata di una mia amica di famiglia, che desidera sapere come me la passo. Mi fa parlare anche con “zio prete” che mi incoraggia a continuare la mia grande avventura. Li ringrazio entrambi per la gentilezza ma, all’amica le dico scherzosamente di tener conto dei fusi orari la prossima volta che vorranno telefonarmi perchè mi hanno svegliato di soprassalto.

Alle otto di mattina sono già in piedi e pronto per partire ma prima faccio colazione con caffè e ottimi biscotti che il gestore del motel ha preparato per tutti gli ospiti, solo un paio oltre me. Conversando, gli chiedo come mai a Green River ci sono moltissime strutture alberghiere, fast food e stazioni di servizio.
Il gestore del motel mi spiega che il paese, benché territorialmente esteso, conta appena novecento abitanti. L’attività economica è articolata principalmente sulla presenza di coloro che, transitando sull’Interstate 70, utilizzano questo paese come luogo di sosta quasi obbligata poiché, in direzione ovest e per i successivi 172 chilometri, non ci sono servizi fino a Salina.

Mi restano solo 270 chilometri per arrivare a Salt Lake e altri 450 per Jackson. Quindi, tenuto conto che a metà strada del percorso dovrò necessariamente fare tappa da qualche parte, quando giungerà il momento valuterò il da farsi… ascoltando i consigli del mio fidato “compagno di carta”.
Appena fuori da Green River, dopo aver fatto benzina, svolto decisamente verso nord e la 191 corre in pieno deserto, pallido e incolore, inesorabilmente dritta verso un punto al centro di un orizzonte lontanissimo.

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Soltanto dopo cento chilometri passo dal primo piccolo paese – Wellington – e il paesaggio comincia a cambiare perchè compaiono sempre più aree verdi, qualche rivolo di torrente che proviene da monti in lontananza, propaggini delle Montagne Rocciose. Aumentano anche gli agglomerati urbani e, fra questi, la cittadina di Price dove trovo il primo cartellone autostradale con l’indicazione Salt Lake e una circonvallazione che mi evita di entrare in città. Subito dopo, la strada UT-191 si insinua fra le gole di colline pietrose e frastagliate, assecondata nelle sue curve dai binari di una ferrovia e da un torrente che l’affiancano più in là sulla destra.
Attraverso il Price Canyon Park e poi la statale, diventata ora US-6, percorre diritta un lungo e ampio pianoro fra basse colline, ma ho la sensazione di salire di quota.
Una linea ferroviaria affianca al di là di qualche metro la carreggiata di sinistra ed ho la piacevole sorpresa di veder transitare una grande locomotiva gialla della Union Pacific che trascina dietro di se un lunghissimo treno merci con il quale, per divertimento, ingaggio una sorta di gara di velocità.​

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Sulla ferrovia della vecchia Denver e Rio Grande Western Railroad, transitano essenzialmente treni merci, come all’epoca dei coloni mormoni. Tuttavia, questa stessa rete ferroviaria è utilizzata anche dalla California Zephir, una linea di trasporto viaggiatori dell’Amtrak, molto reclamizzata, che collega Chicago a San Francisco attraverso Denver e Salt Lake City.
Salendo lentamente di quota il paesaggio incomincia a cambiare spaziando su alte colline punteggiate da verdi conifere, fino a un passo di montagna con una piccola stazione di rifornimento carburanti. La località è identificata da grossi tronchi disposti a simboleggiare un ingresso e l’architrave è un grande ovale rosso nel quale compare un’iscrizione bianca: Soldier Summit.
Pur trovandomi a 2.300 metri di quota…fuori dall’auto fa comunque caldo!
Il paesaggio è cambiato decisamente, il deserto è lontano e si intensificano aree verdi, mentre l’autostrada si insinua con ampie curve fra colline interamente coperte di vegetazione. Il paesaggio assume tratti ancor più gradevoli quando la statale transita vicino all’estesa località di Spanish Fork, annunciata dalle innumerevoli attività commerciali ai lati del’autostrada US-6 che sto percorrendo.
Proprio in questo territorio, la US-6 termina quando incrocia la Interstae 15 che proviene da Los Angeles. Un grande tabellone verde mi indica di prendere a destra per continuare verso Salt Lake e purtroppo….adesso comincia il bello!

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Da Green River fino a questo punto ho percorso più di 200 chilometri ma ora devo mettere in conto l’attraversamento di quasi tutto l’hinterland dell’estesa e grande città di Salt Lake, tenendo bene gli occhi aperti. Mentre prima viaggiavo quasi solitario, adesso sulla I-15 sono immerso in un traffico automobilistico decisamente smisurato. Mi rendo conto che l’autostrada transita proprio nel bel mezzo della città e gli svincoli si sprecano, al pari delle zone e dei quartieri del suo circondario che hanno, per me, solo una vaga denominazione e un numero a quattro cifre.
Salt Lake City, la città fondata dai coloni mormoni e sede della loro Chiesa di appartenenza, da sempre è crocevia importantissimo per tutte le interconnessioni autostradali tanto che proprio nel bel mezzo della sua urbanizzazione la Interstate che sto percorrendo verso nord, interseca la Interstate 80 che collega New York con San Francisco.
La Veteran Memorial Highway, nome della I-15 in questo territorio, è un’autostrada rettilinea di sei corsie per senso di marcia, più altre due per svincoli e immissioni. E’ abbastanza stressante per me che non sono certo abituato a viaggiare in questi enormi spazi e in queste condizioni di traffico pazzesco.
Meno male che il mio navigatore provvede egregiamente a farmi evitare errori, altrimenti…si metterebbe male!
Le immissioni dalla mia destra sono molteplici e non ho alcun diritto di precedenza perchè sulle autostrade americane mi sembra di capire che questa regola non vale. Sono quasi spinto in avanti da tutte le automobili che mi seguono, al pari di lupi che inseguono la preda. Per di più, faccio molta fatica a tenere una delle corsie centrali perchè devo dare uno sguardo ai numerosi tabelloni e ascoltare la voce del navigatore che fortunatamente mi aiuta moltissimo in questo caos automobilistico.
Comunque sia, viaggiare su una delle sei corsie non è certamente uno scherzo fino a quando, improvvisamente, la voce femminile del telefono mi avverte di mantenere la corsia di destra e mi preannuncia l’uscita 298 per prendere l’autostrada I-215. Sono un pò insicuro ma devo necessariamente assecondare il perentorio invito del navigatore.
Ho quasi la certezza di aggirare Salt Lake in senso antiorario e dopo 20 chilometri “the voice” mi avverte di impegnare l’uscita numero 2 che immette sulla I-80, direzione Est.
Solo dopo esser entrato in questa nuova autostrada mi rendo perfettamente conto di aver lasciato alle spalle la città e l’incubo del suo traffico infernale poiché le sole due corsie si fanno strada serpeggiando dolcemente fra alte colline verdi prospicienti, rendendo la guida molto rilassante.
Da Spanish Fork, ultimo posto tranquillo conosciuto prima di aggirare Salt Lake, ho pescoso in più di due ore almeno 100 km. Però Jackson, meta in programma, è ancora lontana: 400 chilometri e non meno di sei ore, soste escluse. Quindi, come si dice dalle nostre parti …”dove riusciremo ad arrivare, pianteremo la bandierina”!​
Faccio una breve pausa vicino a una riserva d’acqua – Coalville – più per sgranchirmi le gambe che peraltro e poi continuo per circa 60 chilometri sulla I-80, che ha preso una piega decisa verso nord, raggiungendo la linea di confine dello stato dello Utah.
Entro nel Wyoming e dopo solo una decina di chilometri d’autostrada vedo l’incoraggiante cartello marrone per le informazioni turistiche con l’indicazione Teton - Yellowstone.

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L’uscita immette sulla statale 89 e il primo paese che incontro è Evanston che si rivela molto carino con belle casette che hanno sul davanti il classico praticello verde ben rasato. Un orologio sulla torre di quello che sembra il municipio, segna le ore 18 e 30.
Solo una ventina di chilometri sulla statale WY-89 verso nord e mi ritrovo daccapo nello Utah con il suo territorio arido, pianeggiante e sterminato.
Ma non è stata detta l’ultima parola!
Il navigatore e un cartello stradale mi avvertono che al prossimo bivio devo prendere a sinistra la UT-30 per Jackson. Eseguo, trovando dopo poco più di venti minuti la gradita sorpresa del grandissimo Lago Bear.
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Una bellissima e grande area di sosta, alberata, con un bel prato verde e un gazebo che si prestano benissimo per una sosta doverosa e qualche bella fotografia paesaggistica. Più avanti, passo nella graziosissima cittadina di Garden City affacciata con le sue casette sulle sponde del lago. Innumerevoli sono le possibilità di svago e di vita all’aria aperta, con molti campeggi e motel, possibilità di fare sport acquatici e una grande darsena con imbarcazioni leggere ancorate ai pontili. E’ come stare al mare tanto che vedo anche qualche persona che fa il bagno.
Altre villette e piccoli centri agricoli si susseguono senza soluzione di continuità tanto che, per percorrere tutto il lungolago ci son voluti più di 30 chilometri sulla UT-30. Inoltre, proprio nel mezzo, il Bear Lake è attraversato dalla linea immaginaria del confine dell’Utah e quindi, senza quasi che me ne fossi accorto….sono entrato nello stato dell’Idaho.
Più continuo a viaggiare sul lungo lago e più si infittiscono residence in parchi alberati e graziose casette sparse in zone agricole. Una di queste ultime attira moltissimo la mia attenzione tanto che non posso fare a meno di fermarmi per fotografarla.

IMGP2706.webpE’ una villa bellissima quasi isolata nel prato rasato dov’è perfettamente inserita; ha un bel tetto grigio spiovente con altri due più piccoli su ambo i lati e tre finestre per la mansarda; al piano terra ci sono otto finestre e un piccolo portone di ingresso con quattro piccoli gradini di accesso; tutte le pareti al di sotto del tetto, comprese finestre e portone sono bianche. Ai lati della villetta ci sono due grandi abeti che la valorizzano in modo strepitoso e, per finire, su un lungo pennone al centro del prato sventola una grande bandiera a stelle e strisce.
Una casa assolutamente deliziosa e fantastica!

Proseguendo poco oltre, attraverso un piccolo e grazioso paese: Paris.

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Ho l’impressione che sia l’unica e vera “Parigi” negli Stati Uniti (non quella di Las Vegas), testimonianza della colonizzazione francese oltre atlantico che aveva conquistato un vasto territorio chiamandolo Louisiana. All'epoca in cui era assoggettata alla Francia ricopriva un'area estesa dalla foce del Mississippi fino al Québec. Nel 1807, però, quando Napoleone Bonaparte, assillato dalla necessità di reperire fondi per finanziare le guerre in Europa, mise in vendita le terre della Louisiana, il Presidente Jefferson colse subito l’opportunità e per soli 15 milioni di dollari acquistò tanto terreno da vedere raddoppiata in un sol colpo l’estensione degli Stati Uniti.

Dopo aver attraversato “Parigi” trovo più avanti un’altra città di reminiscenza francese: Montpelier, annunciata da una grande “M” su una collina che la domina.

vlcsnap-1400004.webpL’accesso alla città è ben curato, alberato e con le consuete case basse con piccolo prato prospiciente l’abitazione. All’incrocio con il corso principale, che è soltanto la prosecuzione della statale 89 a quattro corsie, trovo l’indicazione per Jackson, lontana più di 180 chilometri.
Sono già passate le sette di sera.

A sinistra di un esteso spiazzo dove sono fermo c'è un Subway e a destra un grande parco verde dove stazionano molte macchine con roulotte al seguito. Certo non posso continuare e quindi devo approfittare di questa situazione favorevole che mi permette di cenare, caricare la mia videocamera, fare il punto della situazione e pernottare.
Inoltre, sul cruscotto della macchina si è accesa un’inquietante spia rossa che rimane fissa. Devo cercare di capire a che cosa faccia riferimento e purtroppo non ho il manuale delle istruzioni.
Mi reco al Subway, che so di certo avrà una connessione wi.fi., e dopo aver cenato con il solito footlong, scarico il manuale da internet e apprendo che l’icona rossa è quella che “dice” di cambiare l’olio del motore. Per il momento penso di poter continuare a viaggiare ma, al più presto, dovrò cercare di risolvere questo problema presso un’officina Ford autorizzata.​

A domani…perchè l’avventura continua!
 
33 - seguito USA Coast to Coast and Park to Park

10ª Tappa - MONTPELIER – JACKSON – GRAND TETON N.P. - 200 km

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Lungo il confine fra Wyoming e Idaho sono diretto a Jackson, porta del Grand Teton National Park e domani visiterò lo straordinario Yellowston Park.

Purtroppo mi sono accorto che sul cellulare non ho più le mappe stradali perché forse a casa abbiamo commesso qualche errore nel caricamento dei files. D’ora in poi dovrò fare affidamento soltanto sul road book e sulle cartine cartacee.
Mi infastidisce molto questa difficoltà e tuttavia, lasciata Montpelier, viaggio sulla stessa strada che mi ha condotto in città e che ora, nella direzione opposta, taglia una fertile vallata che ha sulla mia destra una catena di rilievi montuosi. Però, proprio guardando sfilare questi monti, ho la netta impressione che mi stia muovendo in una direzione errata.

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In assenza del navigatore, il senso dell’orientamento e la carta stradale sono ora i mezzi indispensabili, come si faceva una volta.
I rilievi sono quelli che avrei dovuto superare per entrare nel Wyoming e quindi ho la necessità di fermarmi per fare il punto della situazione. Nella grande area di servizio Ranch Hard Trail Stop posso consultare le carte e chiedere informazioni se necessarie.
Il road book menziona che giunto a Montpelier dovevo seguire le indicazioni per Pocatello/Jackson, posizionate in un incrocio che aveva come punto di riferimento proprio il motel Super 8. Ieri sera non ho prestato attenzione all’incrocio e ora devo tornare indietro solo per una decina di chilometri e prendere la direzione giusta sulla statale 89 verso Jackson.

Le pianure desertiche sono ormai un retaggio del passato e questa strada che ora attraversa la Bridget Forestsfoggia un paesaggio di tutto rispetto con verdi colline, fattorie e allevamenti di mucche.​

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Ad appena una trentina di chilometri da Montpelier, percorrendo questa bellissima statale, entro nel nuovo Stato. E’ segnalato da un grande tabellone di legno con l’immagine di un cowboy che doma un cavallo selvaggio nello scenario de Grand Teton: Welcome to WYOMING – Forever West.

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E’ decisamente bello questo primo approccio al nuovo territorio dove la natura, piuttosto che l’uomo, è l’elemento che la contraddistingue maggiormente anche perché, pur essendo molto esteso il nuovo stato è poco popolato.
Foreste, praterie, montagne sono l’habitat preferito della flora e della fauna e il territorio selvaggio calza alla perfezione per coloro che amano il wild west incontaminato. Il vanto maggiore è senza dubbio Yellowstone, l’attrazione più famosa verso la quale sono diretto, ma anche il Grand Teton Park, il suo avamposto di tutto rispetto.
Come volevasi dimostrare, ora i panorami si allargano, le colline diventano affollate di abeti e poi, dopo una ventina di chilometri ancora, un grande slargo stradale sulla destra mi avverte che sono giunto a Salt River Pass. Forse è un passo montano come tanti altri ma, a ben vedere, non è così.

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Alcuni tabelloni di legno attirano particolarmente la mia attenzione e per sincerarmi faccio bene a fermarmi per una sosta gradevole.
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Mi avvicino per guardare e scopro dall’iscrizione su un cippo di pietra che questo passo è un luogo di portata storica eccezionale: Lander Cut-Off of The Oregon Trail.
Il passo, a ragione dell’impegno profuso nel superarlo, è dedicato a tutti i pionieri che passarono quassù per vincere e colonizzare il West. Più in là su una tabella di legno è rappresentata una mappa che offre una panoramica di “The Upper Valley” e “The Lower Valley” che insieme definiscono la “Star Valley”. Una linea rossa tratteggiata, invece, indica il percorso intrapreso dai pionieri che hanno viaggiato sul “The Lander Cut-Off”, nonché l’altitudine del passo sul livello del mare: 2250 metri.
Il tabellone informa il viaggiatore sulla storia di questa via utilizzata dai coloni diretti in Oregon e California.
Leggo e riporto per gli appassionati di storia pioneristica: “Nel 1858 questo antico sentiero, che è stato utilizzato da indiani, esploratori e uomini di montagna come scorciatoia per la regione del fiume Snake, è stato sviluppato da Frederick Lander, ingegnere del Dipartimento degli Interni, in un percorso alternativo sull'Oregon Trail. Il Lander Cut-Off inizia 9 miglia a sud-est a Burnt Ranch (a monte di questo punto), attraversa il fiume Sweetwater 6 miglia a nord-ovest, e continua lungo Lander Creek per 13 miglia al Continental Divide a Little Sandy Creek, le sorgenti dell’'Oceano Pacifico, da lì viaggia verso ovest attraverso la Green River Valley, Wyoming Range e Salt River Range prima di entrare nell'odierno Idaho. Il Cut-off si ricongiunge all'originale Oregon Trail vicino a Fort Hall.
Questa strada per le carovane era preferita dai pionieri per molte ragioni. Con questa scorciatoia si risparmiavano fino a 7 giorni di viaggio rispetto al vecchio percorso attraverso Fort Bridger, evitavano i costosi traghetti attraverso il Green River a sud, e scavalcato il deserto di 50 miglia senz'acqua del Sublette Cut-Off. La sua sezione senz'acqua più lunga era di solo 10 miglia e aveva accesso ad abbondante erba e legna da ardere. Il Lander Cut-Off è stato utilizzato da circa 13.000 emigranti il suo primo anno, con 9.000 di loro che hanno firmato una dichiarazione di sostegno per questa via verso Fort Hall. Mentre l'uso diminuiva dopo il completamento della ferrovia trans-continentale nel 1896, il sentiero era ancora utilizzato dagli emigranti nel 20° secolo e ha svolto un ruolo nell'insediamento dell'Alta valle del Green River.”


Quando riparto e arrivo nella Star Valley il paesaggio è bellissimo e si susseguono molti ranch, piccoli e grandi, caratterizzati soprattutto da accessi bellissimi come quello fatto di tronchi di legno e un architrave su cui compaiono scritte, corna di alci o rapaci.

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La valle è piuttosto fertile e irrorata da molti torrenti che come ai tempi della colonizzazione rendono molto accettabili gli stanziamenti per l’agricoltura e il pascolo di animali.

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Più continuo a viaggiare nella valle e più questa si allarga verso l’orizzonte e non mancano vecchie casette di coloni, disabitate ma segnalate come luoghi storici, che resistono nel tempo.
Il più classico esempio è la Baker Cabin, perfettamente segnalata e con una tabella informativa che recita: “La più antica casa sopravvissuta a Star Valley è questa abitazione a due stanze costruita nel 1889 da Anna Eliza Baker e sua figlia di 12 anni May. I tronchi sono tagliati a mano su quattro lati e incastrati agli angoli. Fu la prima casa in questa zona ad avere un tetto in scandole e pavimenti di legno. La famiglia Baker: Alonzo, Anna Eliza e i loro 12 figli furono i primi residenti permanenti sul lato est del Salt River nella bassa valle.

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AFTON e JAKSON HOLE

Riprendo a viaggiare lentamente, a differenza del tempo che scorre veloce, facendo sosta in più occasioni proprio per fotografare e assumere informazioni storiche sulla strada pionieristica che sto percorrendo, la qual cosa mi ripaga molto in termini di apprendimento. A destarmi però da questa specie lezione scolastica ci pensa, ad un certo punto, un cartello stradale con l’indicazione che Jackson è lontana 130 chilometri, Yellowstone 215 e il prossimo paese, Afton, 11 chilometri.
L’ingresso a questa cittadina è spettacolare perchè qui tutto parla di abitazioni dei coloni, di cervi, alci e orsi. Infatti, proprio in centro, per dare un benvenuto ai viaggiatori, ai due lati della strada alti pali di legno reggono un grande architrave di tronco d’albero al di sopra del quale ci sono due cervi che si affrontano in lotta: è la porta di Afton.

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In questo paese tutto è decorato con decine di corna d’alce, suppongo finti, e abbondano abitazioni, saloon, bar e ristoranti edificati con tavole di legno. Le panchine di legno, sistemate a dovere e accattivanti, sono sorrette da orsacchiotti neri del medesimo materiale.
La benzina costa qui solo 2,80 dollari il gallone (circa 4 litri): una goduria per noi italiani!

Continuo viaggiare nella Star Valley per altri cinquanta chilometri, non privi di insediamenti e fattorie, fino a quando la statale sembra che termini la sua corsa perchè cerca di incunearsi fra alcuni declivi montani che paiono sbarrarle il procedere. Sono ad Alpine e la WY-89 attraversa lo Snake River che con le sue acque alimenta una grande riserva e irrora con mille rivoli tutta la valle che ho percorso.
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Non mi ricordo quando sono transitato sotto un semaforo ma quello che incontro è sicuramente importante visto che si trova a un bivio decisivo: a destra per lo stato dell’Idaho, a sinistra Jackson, 60 chilometri oltre. Sono sessanta chilometri di boschi bellissimi dove gli unici insediamenti sono i camping e l’attività preminente è quella di fare rafting nello Snake River che scorre a fianco della statale, almeno fino a quando un bivio mi indirizza decisamente verso la mia meta.

Qualche decina di chilometri e mi ritrovo a Jackson Hole una cittadina molto grande che letteralmente pullula di turisti come da tempo non ne vedevo. Sono proprio in centro città e vedo che tutti si muovono allegramente fra saloon e ristoranti. Data l’ora, sono alquanto gremiti e, a parte il vitto, offrono ottimo refrigerio al caldo che imperversa.
Parcheggio la macchina, mi godo il viavai nel centro cittadino e, quasi involontariamente, sono attratto dai caratteristici varchi di accesso messi nei quattro angoli di un giardino comunale. Gli ingressi hanno la forma ad arco e sono costituiti da centinaia di corna d’alce, molto appariscenti ma finti fortunatamente; danno un’idea della quantità esuberante di quegli animali selvaggi che prosperavano nel vecchio west, oltre a quelli che attualmente popolano il territorio circostante.

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Un’altra attrazione caratteristica è una vecchia diligenza rossa, parcheggiata lì nei pressi, con una coppia di cowboy, seduti a cassetta, pronti a trasportare per le strade di Jackson quanti desiderano muoversi per diletto come al tempo dei pionieri. Tutto fa spettacolo e non poteva certo mancare uno sceriffo a cavallo, armato di pistole che è preso di mira – è proprio il caso di evidenziarlo - dalle macchine fotografiche dei turisti.

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L’attrazione principale, per quanto mi riguarda e di cui ho notizia sul road book è il Million Dollar Bar, un saloon proprio nel cuore di Jackson, di fronte al giardino, con una grande insegna, al neon e a colori, con la rappresentazione di un cowboy che sta domando un cavallo. Vi stazionano davanti molte motociclette Harley-Davidson, mentre i gruppi di motociclisti parlottano davanti all’ingresso. Sicuramente sono di passaggio. Infatti, Jackson, si trova sulla direttrice per Sturgis e sono certo che quella è la loro meta perchè il Motorcycle Rally inizia dopodomani.

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Entro nel bar che, a dire il vero, non è certo uno di quelli ordinari, perchè offre un’atmosfera da vero selvaggio west con un bancone lunghissimo davanti al quale sono intenti a bere molti motociclisti e turisti seduti su vere selle da cavallo. L’arredamento è sicuramente d’epoca con pareti rigorosamente di legno, al pari di pavimento e soffitto, e lampadari che si accedevano con petrolio. Inoltre, c’è una collezione di cimeli storici, una vera sedia da barbiere dell’epoca pionieristica e quattro biliardi a centro del salone. Molte locandine sono affisse per annunciare una serie di spettacoli che si svolgeranno nel saloon, con particolare riferimento ad artisti e band che si cimenteranno nell’esecuzione di musica folk e country/western.

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Esco dal bar e mi reco all’Ufficio Turistico per prendere qualche mappa e ho la sorpresa di un’operatrice gentilissima che parla anche italiano e che mi fornisce tutte le formazioni indispensabili per godere appieno il Grand Teton Park. Mi consegna anche un distintivo che celebra la ricorrenza del 50° Anniversario della Wilderness Act, una legge che ha lo scopo di proteggere la natura selvaggia che viene così definita: “Una natura selvaggia, in contrasto con quelle aree in cui l'uomo e le sue opere dominano il paesaggio, è riconosciuta come un'area in cui la terra e la sua comunità di vita non sono dominate dall'uomo, dove l'uomo stesso è un visitatore che non rimane.”
E’ un perfetto esempio, al pari di molti altri, sul modo con il quale gli americani intendono preservare e gestire al meglio tutto l’enorme potenziale di vita all’aria aperta, dei parchi e della natura selvaggia di cui dispongono.

Mi è venuta fame e così vado alla ricerca di un luogo dove mangiare qualcosa. Trovo un ristorante appartato dalla zona centrale e mi faccio preparare un hamburger con contorno. Quello che mi portano è talmente condito di maionese gialla, per me insopportabile, che riesco a mandarlo giù solo grazie all’abbondante Pepsi Cola.

Vado a riposarmi con il Presidente Lincoln!

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GRAND TETON N.P.

Sistemato il sostentamento con una tranquilla pausa pranzo, lascio Jackson e dopo appena sei chilometri, dopo una curva, si dispiega lo spettacolo grandioso e bellissimo del Grand Teton. Poi una banchina panoramica con una grande insegna di legno è il luogo ideale per ammirare il paesaggio di tutta la catena montuosa del parco e distinguere le vette più alte, ancora ammantate di neve, che la signora dell’Ufficio Turistico mi aveva evidenziato sulla mappa. Da destra a sinistra: Mount Owen – 3940 metri, Grand Teton – 4197, Middle Teton - 3902 e South Teton - 3814.

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Per altri tredici chilometri la strada prosegue rettilinea tenendo sempre sulla mia sinistra il Grand Teton fino a quando un cartello mi indica il Visitor Center e mi fa proseguire proprio verso il Parco e verso la piramide montuosa del rilievo più alto. Dopo aver superato ancora una volta lo Snake River che scende tranquillo e il casello di ingresso dei rangers, seguo la Teton Road dirigendomi a Jenny Lake, un specchio d’acqua molto bello e non molto grande, situato proprio al di sotto della catena montuosa, dove avrò la possibilità di effettuare un giro antiorario di una della sue sponde.
La Jenny Lake Road, una stretta strada panoramica a senso unico, transita tra grandi pinete e bellissime foreste di abeti, offrendo l’occasione di innumerevoli sentieri per fare trekking all’aria aperta. Per di più, il Jenny Lake Overlook è un luogo superlativo dal quale poter ammirare il lago e il Grand Teton che si specchia meravigliosamente sulle sue acque tranquille. Come se non bastasse, dal parcheggio si snoda un sentiero molto breve, opportunamente allestito dal Servizio del Parco, che scende fin quasi sulla riva. Non mi faccio pregare per effettuarlo e, una volta giù, approfittando della presenza di altri escursionisti chiedo a qualche americano… “a picture, pleace?”

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Il risultato fotografico che mi affretto a guardare sul display della macchinetta è magnifico, se non fosse per il cielo che ha iniziato ad annuvolarsi troppo. Infatti, passa poco tempo dalla mia ripartenza e scoppia un gran temporale, un evento normale quando ci si ritrova in questo territorio e in questo periodo dell’anno.

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Dopo aver percorso solo poca strada, mi fermo a Colter Bay Village situato su Jackson Lake, un grande bacino lacustre esteso almeno trenta chilometri. Il complesso turistico è di tutto rispetto e le sue infrastrutture sono quanto di meglio ci si possa attendere per “gite” in barca o canoa sulle placide acque del lago, oppure per fare innumerevoli passeggiate o escursioni nei sentieri nei boschi confinanti.
Sui pontili della Colter Bay Marina scopro che il luogo è davvero bellissimo: guarda la catena montuosa del Grand Teton e quindi il paesaggio a cui è dato assistere è davvero entusiasmante.
La scenografia è impreziosita dal crepuscolo e dagli ultimi raggi del sole, ormai tramontato, che si affrettano a colorare di rosa le poche nuvole di un cielo ancora chiaro dietro gli alti picchi dei monti del Grand Teton, racchiusi nell’imperturbabile silenzio della notte che avanza.

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I pontili della Marina sono affollati di imbarcazioni e sembra di stare veramente in una baia, protetta da una lingua di terra dove sono ancorate altre barche sotto un bosco di abeti che delimita perfettamente, con effetto scenico, questo posto incantevole.
Il contesto idilliaco devo dire che capita a proposito e allora è d’obbligo cenare e pernottare in questa località perché domani mattina dovrò partire presto per raggiungere il mitico Yellowstone National Park.

Tomorrow…Yellowstone!
 
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