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My USA on the Road...and more.

23 - seguito USA Coast to Coast and Park to Park

5ª Tappa /2 - Road to CANYON de CHELLY

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Il Canyon de Chelly è un parco nazionale quasi nascosto e lontano dal turismo di massa che affolla quelli più noti come Bryce, Grand Canyon e Monument Valley, quest’ultimo lontano meno di due ore di macchina. A mio avviso, non è detto che il ruolo di secondo piano svolto dal parco che ho inteso visitare, assieme al territorio, sia uno svantaggio. Tutt’altro e quando preparai il viaggio i miei occhi spaziavano sulla carta geografica per individuare aree meno note ma non per questo meno interessanti che potevano stimolare la mia indole avventurosa e il desiderio di scoperta.
Parrebbe che il nome del canyon sia riferito a chi per primo l’abbia condotto alla ribalta, ma è interessante, invece, l’attinenza con la pronuncia in lingua navajo che vuol dire “Canyon di pietra” e che a partire da molti secoli fa sia stato abitato ininterrottamente.
La Riserva Navajo venne istituita nel 1868 all'interno del trattato stipulato fra iNavajo e il governo degli Stati Uniti dopo il fallito tentativo di confinamento degli indiani a Bosque Redondo e si trova a cavallo di ASrizon, Nuovo Messico e Utah.
All’interno della riserva vivano principalmente gli indiani delle tribù Hopi che dal punto di vista etnologico discendono dagli Anasazi. Infatti, sulla base di testimonianze archeologiche, molto prima dell’arrivo degli spagnoli nel 1598, alcune tribù di quell’antico popolo abbandonarono il loro territorio e scendono dal nord si mescolarono con gli indiani Hopi e Zuni.
Il fatto più sorprendente è l'architettura dei villaggi Hopi che rispecchiava quella dei pueblo dell'antica cultura degli Anasazi: le abitazioni erano principalmente di pietra, potevano raggiungere anche i cinque piani di altezza ed erano insediate in anfratti rocciosi, simili a grotte, sulle pareti dei canyon.
I iioro insediamenti furono descritti dal frate francescano italiano Marcos de Niza come grandi città colme d'oro e per questo motivo furono punto di passaggio della violenta spedizione di Francisco Vàasquez de Coronado nel 1540.

Tutte queste notizie scritte sul road book avevano su di me la forza di una calamita e ancor di più adesso rappresentano lo stimolo importante che mi spinge a esplorare e curiosare .
Purtroppo, sono obbligato a percorrere a ritroso il percorso fatto fini qui da Tuba City ma una volta giunto al Canyon sono certo che non rimarrò deluso.
Raggiunta e superata questa città sono nel bel mezzo del territorio della riserva navajo su un rettilineo che si perde nell’orizzonte attraversando una pianura cespugliosa e desertica dove non c’è nulla di nulla. Il territorio ugualmente mi affascina non fosse altro per il senso di libertà che sa infondere.

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Tutto questo per ben novanta chilometri fin quando vedo sulla mia destra, una parvenza di villaggio di poche case bassissime, distanti dalla strada, e per lo più isolate. Medesima situazione dopo dieci chilometri e altri ancora fino ad incontrare l’Hopi Cultural Center. Il luogo, abbastanza largo, è segnalato da un grande cippo di mattoni di arenaria rosata che invita a fermarsi perché sono disponibili un museo, un negozio di oggetti regalo, un ristorante e un albergo. L’edificio che dovrebbe contenere tutte queste cose è un caseggiato basso di color rosa cupo, mentre nel parcheggio sostano una decina di automobili.

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Più avanti, giungo a Second Mesa, un agglomerato di case sparse con molti furgoni parcheggiati uno accanto all’atro, ma senza alcuna presenza visiva di nativi Hopi.
Poi, ancora deserto di cespugli inariditi, niente alture, case sparse simili a lunghi container dove penso siano stati relegati gli indiani dei quali non ancora ho visto l’ombra. Transito da First Mesa, un villaggio che sembra abbandonato a se stesso.
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Ma non è detta l’ultima parola perché d’un tratto, sulla mia sinistra, intravedo un grande assembramento di persone, di automobili e pick up parcheggiati in uno sterrato.
Da quando son partito ho percorso circa 280 chilometri e allora val bene una sosta per vedere cosa succede laggiù.

continua...
 
Road to CANYON de CHELLY /2

Svolto in un piccolo varco pavimentato e poi mi addentro nello sterrato che mi fa accedere a una grandissima area dove è in corso una sorta di festa campagnola di nativi navajo.
Parcheggio la macchina vicino una recinzione di rete metallica che separa da un campo di base ball dove molti giocatori hopi si stanno cimentando in una partita. Resto un po’ a guardare ma poi sposto la macchina in un luogo più sicuro prima che qualche palla scagliata durante il gioco cada sul parabrezza causando danni.

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Oggi è sabato e penso che dopo una settimana lavorativa passata chissà dove le famiglie indiane cercano di trascorrere il weekend. nel migliore dei modi. Peraltro, noto che nella radura ci sono molte bancarelle con retrobotteghe dalle quali si leva il fumo di qualcosa che stanno cucinando.
Sono curioso e mi reco a indagare!

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Le donne sono indaffarate a cuocere frittelle che hanno già preparate con una massa di farina. Gli uomini anziani se ne stanno in disparte, seduti all’ombra di teloni efficacemente sistemati. Sfacciatamente, cerco di fare comunella chiedendo soprattutto se posso fotografarli. Dagli uomini, con un sorriso cortese, non mi viene accordato il permesso, al contrario di qualche signora massaia che è ben lieta di posare assieme a me.

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Mi sorprende simpaticamente la piccola figlia della signora che, non avendo altro con cui giocare, si diverte a stendere con il mattarello le rotonde frittelle, grandi come un piatto, che la mamma immerge poi in una grande padella di olio bollente per cucinarle.
La bambina Hopi mi ricorda moltissimo mia figlia, alla stessa età, accanto a mia moglie e impegnata nello stendere la pasta dei panzerotti.

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Non so di che natura sia quella specie di “olio per frittura” ma, dato che ho fame, chiedo se possono prepararmi due frittelle: le mangerò più tardi. Nel mio road book, infatti, è prevista una sosta a Keams Canyon, un paesello dotato di servizi e lontano solo due chilometri.
Dopo questo simpatico fuori programma festaiolo, in un batter d’occhio arrivo a destinazione. Keams Canyon mi sembra un posto accogliente, con un distributore di benzina, un autoservizio, un negozio di provviste alimentari e di artigianato navajo. Alle spalle, sembra gradevolmente protetto dalla presenza da modesti rilievi di roccia calcarea stratificata.
Dirimpetto, dall’altra parte della strada, c’è una bella area di sosta, anch’essa sterrata, con piccoli alberi che forniscono un’ombra essenziale e qualche fontanella, segno evidente di qualche falda acquifera nel sottosuolo.
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Entro nel negozio e compro qualche derrata, un piccolo cocomero e poi vado a sistemarmi nel boschetto per far colazione e per assaggiare soprattutto le famose frittelle navajo. Non male, devo dire, mentre il cocomero si rivela assolutamente squisito.
Un pò di relax è necessario prima di riprendere a viaggiare per altri cento chilometri, tanto dista ancora la mia meta odierna.
Dopo l’intervallo, torna in primo piano la steppa desertica di questo grande territorio navajo dove vivono confinati circa seimila Hopi. A parte sporadiche abitazioni che sembrano grandi scatole di cartone con qualche improbabile finestra e occasionali pali dell’elettricità, non vi è nulla di nulla almeno fino quando, dopo molti chilometri mi sembra di aver raggiunto la …modernità.
Infatti, c’è una grande insegna McDonald’s e un cartellone stradale che mi avverte che sono in procinto di attraversare un incrocio molto critico.
Detto fatto, mi si para davanti un grandissimo rondò con molti insediamenti e un distributore di benzina. Le indicazioni prima della rotatoria segnano Ganado a sud-est, Dilkon a sud e Chinle a nord sulla 191. La mia direzione che ho già controllato sul road book è quella verso nord che mi permette di raggiungere, dopo 50 chilometri, Chinle un paese di circa 4.500 abitanti, essenzialmente nativi, avamposto del Canyon de Chelly.
La statale 191 passa attraverso una steppa priva di vegetazione, sempre piatta, sempre dritta, con qualche vettura che transita in direzione contraria alla mia. Nessun punto di riferimento a meno di un orizzonte lontanissimo, fino a quando, quasi fosse un miraggio, compaiono grandi cartelloni pubblicitari. Uno di questi invita a soggiornare nel Cottonwood Camping, il solo disponibile a Chinle.
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La periferia è un susseguirsi di grandi e bassi capannoni a destra e a sinistra e finalmente, dopo più di duecentocinquanta chilometri incontro …il primo semaforo!
Più che un piccolo paese mi sembra una zona industriale estesissima, arida, con parvenze di case disseminate in un piatto e desolante territorio.

continua...
 
Una curiosità: come fai a ricordare tutti questi dettagli? Hai segnato tutto scrupolosamente a fine giornata, o hai altri metodi segreti? 🤣
 
Vera95 una domanda simile me la sono sempre aspettata e grazie per avermela sottoposta.
Non c'è alcun segreto ma io sono molto meticoloso Alcuni dettagli sono parte della preparazione, altri sono stati riportati nel mio diario personale, ma le fotogradfie sono la mia memoria e ancor più quello che impresso nei miei occhi come una pellicola pronta a essere dipanata. Guardando le foto mi ricordo esattamente il luogo, il momento, quello che è successo e quello che ho pensato e scritto sul diario.
Ciao.
 
24 - seguito USA Coast to Coast and Park to Park

5ª Tappa /3 - CANYON de CHELLY

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Attraversato l’abitato di Chinle, cerco di raggiungere velocemente il Visitor Center del Canyon de Chelly, un edificio edificato come le antiche abitazioni navajo: basso, squadrato e di color arenaria scura, ma ciò che attira maggiormente la mia attenzione è un hogan, un manufatto con tronchi di legno e adoperato principalmente come abitazione. Mi sembra opportuno andare a dare uno sguardo veloce e sbirciando dall’unico ingresso sembra che l’inquilino si sia assentato momentaneamente: c’è un letto basso con coperte colorate, un gattino accovacciato, una carriola con badile, un angolo cucina con diverse suppellettili, una stufa al centro con tubo che funge da camino e che fuoriesce da un’apertura alla sommità.

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Nel Visitor Center i richiami alla cultura navajo sono evidenti. Mi reco dal ranger di servizio al quale chiedo se sono disponibili le mappe della zona; sono presto esaudito e anche invogliato a guardare un breve filmato introduttivo sulla visita che così recita: “Welcome to the Canyon de Chelly National Monument, un luogo ricco di vita, storia e storie”. Le persone hanno vissuto in questi canyon per quasi 5.000 anni, più di quanto chiunque abbia vissuto ininterrottamente in qualsiasi punto dell'Altopiano del Colorado. Nel luogo chiamato Tsegi, case e immagini ci raccontano le loro storie. Oggi, le famiglie Navajo costruiscono le loro case, allevano bestiame e coltivano le terre nei canyon. Un posto come nessun altro dove il parco e la Nazione Navajo lavorano insieme per gestire le risorse del territorio. Goditi la visita, l’ingresso non è a pagamento ma l’accesso è limitato perché nel canyon vivono famiglie navajo. Ci sono 3 punti panoramici nel Nord Rim e altri 7 nel Sud Rim. White House trail è l’unico in cui è consentito l’accesso e fra andata e ritorno è lungo 2,5 miglia e ci vogliono 2 ore per completarlo. Fai attenzione ai tuoi limiti, riposa durante il percorso e parta con te acqua potabile. Compagnie private offrono tour guidati con un permesso preventivo e una guida Navajo. Prima di lasciare il Centro prendi una mappa, guarda il video e compra qualche souvenir.
Grazie per il supporto e torna a trovarci”.


Poiché il campeggio è molto vicino, vado a vedere se posso sistemarmi per la notte. Il camping non è proprio economico, anche se il posto è bello, alberato e non affollato ma, per il programma che ho in mente, non mi va di perdere tempo prezioso per sistemare la tenda e svolgere altre attività connesse.
Decido quindi che più tardi andrò a pernottare all’Holiday Inn – ci sono passato davanti prima di raggiungere il Visitor Center – perché è più comodo e mi offrirà soprattutto l’opportunità di soggiornare e riposare confortevolmente.

Il Canyon de Chelly con le sue pareti verticali alte 300 metri è stato scavato nell’arenaria dai fiumi Tsaile Creek e Whiskey Creek, è lungo circa 45 chilometri e i numerosi luoghi da visitare sono interessanti e importanti sia dal punto di vista storico sia paesaggistico.
Il canyon ha una configurazione a èpsilon con tre bracci ed è talmente esteso da permettere a intere famiglie di viverci occupandosi di agricoltura, allevamento e anche di turismo con le guide che conoscono ogni anfratto del luogo.
Pianificando il viaggio, mi resi conto che questo Parco meritava molto ma, studiando, mi accorsi che erano necessari minimo tre giorni di permanenza che nel programma non potevo disporre. La seconda questione riguarda le escursioni che potevano essere praticate con un tour guidato con un navajo, a somiglianza di quanto accaduto a Antelope. La terza questione aveva attinenza con la mia attrezzatura fotografica perché, per questioni di ingombro e di peso, non potevo portarmi dietro una reflex digitale con un bel “cannone” da 200 o 300 mm. Questa volta sarebbe stato fondamentale per poter catturare immagini dai balconi panoramici del nord rim e del sud rim.
Tuttavia, adesso mi basta essere qui, ciò che più conta e questa volta White House trail non mi sfuggirà.
Per non alterare il programma di domani devo sbrigarmi e attenermi a quanto pianificato nel mio road book:
- andare a visitare subito Massacre Cave nel braccio nord, denominato Canyon del Muerto;
- al ritorno spingermi fino a Spider Rock nel braccio sud.
Partendo dal Centro Visitatori dovrò effettuare due viaggi di andata e ritorno ciascuno con una percorrenza totale di ben 90 chilometri. Penso però che ne valga assolutamente la pena!

Mi avvio senz’altro sulla Nord Rim Drive, la strada dalla quale si accede agli “overlook” e dopo 24 chilometri raggiungo il parcheggio del primo sito da visitare. Non c’è nessuno e mi sorprende non poco un cartello che invita i turisti a tener ben chiusa l’automobile e a non lasciare incustoditi oggetti di valore: la prima cosa che penso è che…tutto il mondo è paese!
Chiudo la macchina non lasciando alcunché in vista e percorrendo un camminamento di cemento antiscivolo, sapientemente predisposta sulla pietra arenaria, scendo e raggiungo a il balcone panoramico di Massacre Cave.
Le notizie del road book riportano che il canyon era occupato stabilmente dai Navajo che oltre a coltivare e allevare bestiame lo utilizzarono anche come base per le loro razzie ai danni di altri villaggi e dei coloni spagnoli stanziati nella valle del Rio Grande nel Nuovo Messico settentrionale. Nel 1805 durante una spedizione punitiva effettua dagli spagnoli vennero uccisi molte donne, bambini e anziani che si erano ritirati in un rifugio fortificato situato nel Canyon del Muerto, che da allora è noto come Massacre Cave.​

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Dalla balconata, lo spettacolo del canyon è assolutamente straordinario ed entusiasmante: pareti di roccia arenaria di un bellissimo color rosa, dall’alto di duecento metri, scendono verticalmente in basso dove sono presenti abitazioni, coltivazioni e frutteti irrigati da un torrente che scorre sinuosamente al centro del canyon.
La luce radente del sole pomeridiano fa sì che le ombre che si formano sulla roccia accentuino ancor più il colore rossastro dell’arenaria che infonde un senso di quiete e un silenzio inaspettati che accarezzano il mio animo di spettatore.
Mi sposto nell’altro sito panoramico denominato Mummy Cave, a ragione di due mummie scoperte da una spedizione archeologica nel lontano 1882.
La storia e la cultura di questi popoli nativi sembra che ci parlino ancora da un lontano passato difficile da dimenticare e che ci rammenta con quanta fierezza si opponevano alle difficoltà che imperversavano su questa gente operosa e desiderosa solo di stare in pace.
Questo primo esempio o dimostrazione storica e paesaggistica si è rivelato assolutamente affascinante, qualcosa che non ti aspetti e al riparo di flussi turistici che invadono altri luoghi meno interessanti.
Tempo fa, guardando in tv il film Contact con Jodie Foster, la protagonista Ellie guardava emblematicamente, in una delle ultime scene, l’universo straordinario che si definiva dai bordi del canyon: è il medesimo che adesso osservo realmente e la solitudine che mi circonda riempie il mio animo di una gioia palpabile.

Siccome “l’appetito vien mangiando”, cerco di spostarmi velocemente nel Sud Rim alla scoperta di un’icona scenografica e incredibile del Canyon De Chelly: Spider Rock.
Percorrendo a ritroso i 24 chilometri, a causa della scarsità di tempo disponibile, mi fermo velocemente ad altri due punti panoramici:
- Antelope House, rovine di un Pueblo Anasazi che fu occupato tra l'850 e il 1270 d.C. Non riesco a credere che la parete di roccia possa celare e proteggere le rovine di un di un villaggio navajo con oltre ottanta camere e tre kiva che servivano per funzioni religiose o assemblee;
- l’altra veduta straordinaria è Navajo Fortess, quasi un'isola di roccia difensiva di arenaria rossa posta al centro del canyon e utilizzata dai Navajo come estremo rifugio durante gli attacchi ostili.

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Passando vicino al Centro Visitatori e impegnando la strada dell’altro ramo del canyon, ne percorro altri 24 sulla Sud Rim Drive prima di raggiungere il parcheggio della mia destinazione. Poi, una passerella in leggera discesa, protetta da una ringhiera di ferro che si snoda fra rocce e arbusti arborei, mi fa giungere in breve tempo nel miglior punto panoramico dal quale ammirare Spider Rock.

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E’ una bellissima meraviglia della natura questa doppia torre di arenaria alta 240 metri, simile a un obelisco, formatasi geologicamente 230 milioni di anni fa, che con dignità e fierezza si erge solitaria nella congiunzione fra il Canyon de Chelly, propriamente detto e il Monument Canyon, il terzo braccio di questo parco nazionale.
Mi siedo tranquillo su massi levigati e bassi quasi fossero delle panche messe di proposito per meglio osservare muri stratificati, multicolori e altissimi che nel canyon, al pari di damigelle, fanno a gara per enfatizzare e contendersi l’onore di attorniare Spider Rock.
I racconti mitologici narrano che molto tempo fa la tribù dei Navajo la chiamarono “la roccia del ragno” a ragione di una leggenda riguardante la “donna ragno”. Possedeva enormi poteri nel campo della creazione ed era una delle divinità più onorate e importanti del pantheon navajo. Scelse la sommità di Spider Rock come propria dimora e fu lei ad insegnare alle donne l'uso del telaio con cui fabbricare i tradizionali tappeti e coperte di lana di pecora.
Ancora oggi un genitore o un nonno nostalgico avvertono i bambini che se non fanno i bravi “donna ragno” scenderà la scala di tela del ragno da Spider Rock, li porterà lassù e li divorerà.
Meditando ancora, si fa strada ancora un frammento di pellicola cinematografica legato a un vecchio film western, “L’oro di MacKenna”, interpretato da Gregori Peck, Omar Sharif. Nelle scene finali l’ombra prodotta da una sorta di obelisco di pietra indicava il punto esatto del canyon dove si trovava il giacimento di una grande vena aurifera: quell’obelisco era proprio Spider Rock.

E’ già abbastanza tardi, ma colmo di entusiasmo e appagato ancora una volta dallo spettacolo superlativo di questo canyon, torno nuovamente al punto di partenza quando il sole è già tramontato.
Mi dirigo subito all’Holiday Inn, distante appena tre chilometri. L’hotel è abbastanza elegante, con un’architettura cubica e bassa, una colorazione di un bel rosso arenaria ed è inserito correttamente nel contesto paesaggistico navajo, alla maniera di un Trading Post, con la presenza gradevole di un carro originale “old west”dei pionieri. A mio favore c’è una interessante connessione wi-fi gratuita, una piscina stagionale all'aperto e un ristorante. L’interno è abbastanza simpatico con una zona riservata al ristorante e un’altra al negozio di souvenir.
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Alla reception c’è una ragazza navajo abbastanza carina alla quale chiedo una camera per pernottare. Nessun problema. Acquisisce i dati del passaporto, pago con la carta di credito e salgo in camera.
Sono sfinito per non essermi fermato un attimo da stamani; non ce la faccio nemmeno a stendermi sul letto e, purtroppo, mi tocca fare anche il bucato per lavare soprattutto i pantaloni corti e la camicia, carichi di …borotalco di arenaria rosa!​
Tutto il resto…domani mattina presto!

continua...
 
25 - seguito USA Coast to Coast and Park to Park

CANYON DE CHELLY /2

Nonostante il letto e la stanza molto confortevoli non ho dormito bene, forse a causa della stanchezza accumulata ieri e l’impazienza di dover visitare quello che mi resta possibile del Canyon de Chelly. Inoltre, il mio programma impone la necessità di dover partire al più presto alla volta di Monument Valley.

Non c’è tempo da perdere e quindi mi reco nella hall dell’albergo per far colazione. Molti clienti sono già all’opera intenti al breakfast all’americana: bacon, uova strapazzate, ciambelle zuccherate al massimo e juice, immancabile spremuta color arancio.
Fuori dall’albergo, quantunque oggi sia domenica, avverto che in questo territorio navajo la giornata è una come tante altre e tipicamente lavorativa.
Riflettendo intanto sulla escursione di ieri, pur avendo dovizia di informazioni nel mio road book, non mi aspettavo un canyon tanto attraente; merito dalla visita ai punti panoramici nella parte nord che si è dimostrata eccellente e culminata nello straordinario Spider Rock.
Sono solo a metà dell’opera perché oggi devo concentrami sulla South Rim Drive, lunga 26 km, che permette di accedere, in sequenza, a sette punti panoramici:
- Tunnel Overlook e Tsegi Overlook;
- First Ruin
e Junction Ruin, due distinti pueblo occupati dagli Anasazi fra il 1100 e 1300 con
abitazioni arroccate lungo una stretta sporgenza piana della parete di roccia;
- White House, altre bellissime rovine Anasazi;​
- Sliding House, rovine di circa 40 abitazioni costruite su uno stretto bordo di roccia tanto che
sembrano scivolare giù nel canyon;
- Spider Rock, che già ho avuto modo di apprezzare ieri.

Purtroppo il tempo è sempre tiranno e una mezza giornata non è certamente sufficiente per vedere tutte queste cose, a meno di Casa Bianca, quella che più mi interessa visitare.
Dal punto panoramico White House Overlook scenderò nel canyon per mezzo di un sentiero di quattro chilometri, andata e ritorno, che conduce fino alle rovine. Il sentiero è l'unico attraverso il quale è permesso ai visitatori di entrare nel canyon senza assumere una guida navajo autorizzata.
Per questa escursione mi occorreranno ameno tre ore di tempo. Pertanto, lascio tutti i miei bagagli in camera, approfittando del fatto che debbo abbandonarla prima delle undici, e mi avvio per raggiungere la meta del bordo sud del canyon.
Non molta strada, questa volta, perché, a soli dieci chilometri dal Centro Visitatori, un bivio sulla sinistra conduce al punto panoramico da cui parte il sentiero per White House.
A destra e a sinistra della strada il terreno è un misto di sabbia e pietrisco di arenaria sul quale crescono miracolosamente grandi cespugli verdi alti non più di un metro, mentre il paesaggio sembra desolato ma ugualmente attraente.
Più avanti, sulla mia destra si incominciano a distinguere le rossastre pareti che sprofondano verticalmente nel canyon fino al momento in cui la strada termina in un grande parcheggio. Sono elettrizzato perché mi attende ora un’affascinante avventura nella storia degli abitanti di questo luogo fantastico.
Intanto, un grande cartello di “benvenuto”, mi invita a rendere gradevole la visita osservando alcune precauzioni: chiudere a chiave l’auto togliendo gli oggetti di valore; attenzione alla scogliera che è a picco da trecento metri di altezza; prestare molta attenzione ai bambini al seguito; rimanere sul percorso stabilito, portate acqua da bere, rispettate la proprietà privata e non effettuare foto ai navajo senza permesso.
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Dal parcheggio, una breve passeggiata sul bordo del canyon porta a due logge panoramiche contigue e dalla seconda si possono chiaramente vedere, anche se minuscole e distanti, le rovine di Casa Bianca alla base di un’altissima e perpendicolare parete di arenaria su cui piogge millenarie hanno lasciato lunghe tracce brunite. Nella stessa parete, poco più in alto di quelle precedenti, in una specie di nicchia, altre rovine di abitazioni usate a scopo difensivo. Già da quassù lo spettacolo del canyon, delle vertiginose pareti a strapiombo e della fertile vallata sul fondo, coltivata a frutteto, hanno una connotazione assolutamente fantastica. Francamente, non so proprio come rendere meglio la meraviglia che si prova guardando tutto il paesaggio da trecento metri di altezza.
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Scendere giù nel canyon è moderatamente difficile, non faticoso e quindi messe in atto le doverose precauzioni sopra accennate, seguo le indicazioni per il sentiero White House Ruin.
Percorro la parte superiore della parete del canyon per qualche centinaio di metri e poi, con una sorta di inversione, comincio a scendere, passando attraverso un breve tunnel scavato nell’arenaria.
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Il sentiero ben congegnato serpeggia intorno a numerosi tornanti rendendo l'escursione molto facile e divertente e si snoda accanto ad alcuni ripidi pendii scolpiti nella pietra arenaria che mi sovrasta ad ogni passo. Nell’incedere, gli angoli di visuale sono spettacolari e spesso devo fermarmi per fotografare, man mano che il paesaggio cambia scendendo sempre più giù.

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Dopo esser passato sotto un secondo tunnel dal soffitto molto basso a cui devo fare attenzione, una volta toccato il fondo del canyon seguo uno sterrato attiguo alla canyon road, una pista sterrata adoperata dai mezzi di trasporto per giri turistici e altre necessità.
Una piccola passerella o ponticello permette di superare il torrente Tsaile Creek che in questa stagione è quasi asciutto. Cammino sulla morbida sabbia di arenaria verso le rovine e lungo il tratto finale sono circondato da navajo che dietro bancarelle ben allineate vendono i loro manufatti non reperibili altrove.​

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continua...
 
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CANYON DE CHELLY /3

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Withe House Ruins è punteggiata da alberi che con la loro chioma offrono un’ombra necessaria e qualche pick up per escursioni a pagamento si è già rintanato lì sotto. C’è anche una fattoria, defilata e quasi mimetizzata fra alberi di un frutteto che conferma come il canyon sia tuttora abitato dai navajo che vi praticano agricoltura e allevamento.
Tutto è pervaso da un meraviglioso senso di tranquillità che non ti aspetti: le rovine abitative sono una testimonianza visibile di persone che popolavano un tempo queste contrade sconosciute e che subirono atroci disavventure per la fame di ricerca di minerali preziosi da parte dei conquistatori del nuovo mondo. Tuttavia, la vita quaggiù, quasi nascosta e disinteressata del mondo moderno, continua a perpetuarsi in questo canyon bellissimo offrendo sostentamento essenziale ai Pueblo che lo abitano.
Finalmente, guardo sbalordito e da vicino, pur protette da una rete metallica che ne impedisce l’accesso, le rovine Casa Bianca, antico insediamento abitativo degli Anasazi.​
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Il complesso è formato da due distinti livelli: il primo abitato si trova ai piedi della parete rocciosa verticale mentre il secondo, forse a scopo difensivo, è situato più in alto in una grande cavità naturale nella roccia. I muri esterni delle abitazioni sono di intonaco bianco e sulla levigata parete rocciosa, al di sotto di quest’ultimo agglomerato, appaiono pittogrammi molto evidenti per la loro forma e dimensione.
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Milioni di anni di sollevamenti tettonici ed erosione dell’acqua hanno creato le coloratissime pareti rocciose di questo canyon magnifico, mentre sorgenti di acqua naturale ed un terreno fertile hanno fornito varietà di risorse, incluse piante e animali, che hanno dato sostentamento a questi popoli per migliaia di anni. Gli antichi Pueblo Anasazi trovarono qui un luogo ideale per la sopravvivenza di intere famiglie e molte abitazioni vennero costruite nei grandi anfratti delle rocce di arenaria per avvantaggiarsi del calore del sole e per una insita protezione.

Indugio molto ad allontanarmi da questo luogo ancestrale e avvincente. Mi piacerebbe starmene seduto assieme a quei ragazzi navajo per farmi raccontare le loro storie; chiedergli di insegnarmi a emettere e imitare con suoni acuti della bocca il verso di qualche volatile, come fa uno di loro con risultati eccellenti.​
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Mi piacerebbe stare a guardare con attenzione la manifattura degli oggetti artigianali sparsi sulle bancarelle navajo ma inesorabilmente il tempo corre più del necessario e il mio road book reclama attenzione a ciò che è stato programmato.

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Soddisfatto per essere arrivato fin qui e aver apprezzato questo luogo straordinario che narra la storia e la cultura di popoli americani antichi, riprendo la strada del ritorno.
Camminando, converso per un po’ con una famiglia francese, padre madre e figlio, a cui avevo chiesto di scattarmi alcune foto ricordo. Poi inizio l’ascesa dei trecento metri di dislivello fino al parcheggio, almeno per me non faticosi, opportunamente attrezzati, in punti strategici, con panche per riposare e compiacersi del paesaggio.
Giunto sul balcone panoramico volgo un ultimo sguardo appagato al maestoso Canyon de Chelly e in dieci minuti di guida arrivo al mio hotel, trascurando, purtroppo, gli altri punti strategici per… “tempo scaduto”!
Sorpresa! Il mio orologio segna quasi le undici ma quello sulla parete della reception segna quasi mezzogiorno: non ho tenuto conto del fatto che da aprile ad ottobre la Navajo Nation osserva l'ora legale e quindi è come se fossi giunto con un'ora di ritardo.
In ogni caso non ci sono complicazioni con l’hotel e ordinati i bagagli lasciati in camera li carico in macchina per andare a vedere il posto che tutti sognano: Monument Valley.

Sarà affascinante al pari o migliore di ciò che fin’ora ho già visitato? Vedremo!
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26 - seguito USA Coast to Coast and Park to Park

6ª Tappa - CANYON de CHELLY – MONUMENT VALLEY - 160 km

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E’ l’una di pomeriggio quando attraverso l’agglomerato di Chinle dirigendomi verso un agglomerato di fattorie che ha un nome veramente singolare: Many Farms.

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Il mio road book mi avverte che qui devo prendere a sinistra la Indian Route 59, verso nord; è una strada che attraversa tutta la riserva navajo e che non ha alcun insediamento degno di rilievo, almeno fino a Kayenta. Da questa città dovrò prendere la statale 163 che conduce a Monument Valley, lontana circa 130 chilometri e non meno di due ore di viaggio.

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Qualche chilometro prima dell’insediamento delle fattorie, è quantomeno singolare vedere sulla piana desertica e assolata un’autostoppista…donna che mi chiede un passaggio! Io sono sempre ben disposto verso il prossimo, soprattutto se devo comportarmi da “buon samaritano” nei confronti del gentil sesso e quindi la faccio accomodare in auto immediatamente.
E’ una ragazza navajo e da quel che capisco mi sa che deve proseguire otre quel paese. Le dico che proprio a Many Farms devo svoltare in tutt’altra direzione ma, conversando, mi distraggo tanto da transitare dritto senza aver il tempo di vedere lo striminzito cartello con l’indicazione della Indian Route 59.
L’accompagnerei fino dov’è diretta ma purtroppo devo lasciare “la bimba” e tornare indietro di qualche chilometro per prendere quella nuova strada nell’arida steppa del deserto dell’Arizona.
Ripensandoci, ho fatto male perché forse la sua meta non era poi molto lontana.
Gaffe imperdonabile!

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A destra e a sinistra della 59 solo modesti rilievi e un orizzonte lontano dove puntare dritto senza alcuna alternativa. Poi, ad un tratto, la statale sembra avere come punto di riferimento una formazione rocciosa conica, tanto da sembrare una sorta di faro che in questa solitudine attrae come un polo magnetico. Sono forse vicino alla mia meta?

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Niente affatto perché più viaggio e più questo riferimento si allontana quasi fosse un miraggio nella calura pomeridiana e un cielo azzurro sgombro di nuvole. Tutto questo fino a che giungo al fatidico incrocio con l’indicazione per Kayenta e il monolite conico, nonostante sia ancora lontano, assieme a meno elevate formazioni rocciose seghettate, sembra dominare la piana desertica e l’ampio orizzonte: sembra il confine o la barriera di Monument Valley.

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La strada corre giù nella vallata e verso Kayenta che poossiede anche un piccolo aeroporto nei cui pressi transito prima di giungere a un trafficatissimo e grande incrocio, inflazionato da distributori di benzina. Devo proseguire verso destra ma la mia pancia è attratta da McDonald's perché ha bisogno di “carburante”, come del resto la mia automobile, e bisogna assecondare entrambe. Un panino, un po’ di frutta, molta benzina e una sosta meritata, associata quest’ultima alla fibrillazione di ripartire per giungere il più presto possibile alla meta.

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continua...
 
seguito

da KAYENTA a MONUMENT VALLEY

Kayenta è un città importante e di conseguenza il traffico nel suo territorio urbano è abbastanza sostenuto e un po’ disordinato. Quasi tutti si dirigono si dirigono sulla US-163, una delle più belle strade panoramiche degli Stati Uniti: la Kayenta-Monument Valley Scenic Road, la porta di Monument Valley che i Navajo chiamano Tsé Bii' Ndzisgaii, Valle delle Rocce.

Abbandono quindi Kayenta e inizialmente la Scenic Road procede tranquilla in paesaggio costituito soprattutto da terreno arido e sabbioso, a volte roccioso da ambo i lati, e punta dritto verso una specie di imbuto fra colline di scarso rilievo che però limitano l’orizzonte visivo.
Raggiunto quel luogo, con una impercettibile ascesa, ciò che tempo prima pensavo fosse un avamposto ecco che ora svela la sua identità: alla mia destra, Agathla Peak un bellissimo picco conico alto 450 metri, considerato sacro per i navajo, noto anche con il nomignolo El Capitan attribuitogli dagli esploratori spagnoli ; alla mia sinistra, invece, Owl Rock una guglia solitaria che si erge poco lontano.

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Sembra che queste due simboliche rocce di arenaria, vecchie di 25 milioni di anni, siano state messe lì da madre natura a guisa di “torri di guardia”, per enfatizzare l’ingresso in un territorio sorprendente e per dare il benvenuto a quanti avranno la fortuna di poterlo ammirare.
Devo per forza fotografare!

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Accosto su una banchina sterrata posta proprio al miglio 398 mentre un cartello stradale, quasi ce ne fossi bisogno, mi rammenta che sto viaggiando sulla Kayenta Monument Valley Scenic Road. Nel frattempo giunge un’altra automobile il cui conducente ha deciso di fare la stessa cosa e quindi approfitto senz’altro, un po’ sfacciatamente, per chiedergli la cortesia di ritrarmi, avendo alle spalle quel bellissimo paesaggio.​
Riprendo a viaggiare transitando nel bel mezzo del territorio delimitato da quei due pilastri rocciosi e alla mia sinistra la Boot Mesa.
Dopo aver percorso un tratto curvilineo di qualche chilometro, ecco che dinnanzi a me si para un meraviglioso e fantastico scenario. La scenic drive, lunga dritta e in lieve discesa, sembra concludere la sua corsa al centro dell’orizzonte, fagocitata come linfa vitale da un cuore spalancato nel petto di un misterioso e suadente abbraccio di maestosi monoliti che si ergono nel deserto cremisi: Monument Valley, una vetrina di paesaggi emblematici, spettacolari e un luogo sacro per i Navajo.

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Una banchina asfaltata giunge a proposito per una sosta fotografica per ritrarre questa grandiosità e poco oltre, in un ampio sterrato, molte bancarelle navajo sembrano appostate nel miglior punto di osservazione per vendere ai turisti la loro mercanzia di manufatti artigianali autentici.
La strada panoramica si snoda ora attraverso paesaggi mozzafiato di maestose arenarie, formazioni rocciose e calanchi che si ergono possenti. E’ la storia del'Ovest americano e d’ora in avanti è come viaggiare all’interno di un set cinematografico.
A sinistra e a destra grandi mesa si stagliano sull’orizzonte fino a quando compare nel piatto deserto di terra rossa la grande ed elegante Mitchell Butte, un’incredibile torre di arenaria che si leva al centro di detriti scoscesi che la innalzano a oltre duecento metri, quasi con riverenza.

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Qualche chilometro ancora e supero la linea di confine fra Arizona e Utah, segnalato da un grande cartellone stradale che mi da il benvenuto. Pochissimo avanti, arrivo all’incrocio con la Monument Valley Road che porta a destra verso il Visitor Center del Tribal Park Navajo.​
Procedendo nel parco navajo sotto un cielo sereno con poche nuvole bianchissime, la spettacolare prospettiva è unica perché ora Monument Valley presenta il suo biglietto da visita con un paesaggio meraviglioso, tutto da scoprire.
Dopo cinque chilometri giungo al casello e pago 20 dollari perché qui, trattandosi esclusivamente di territorio navajo, la tessera National Pass non è valida. In breve, lascio la macchina nel vicino grande parcheggio e mi reco sull’argine di una balconata naturale sotto la quale, una decina di metri, numerosi sentieri sterrati si dirigono alla scoperta della valle in molte direzioni. Per qualsivoglia viaggiatore che si rechi negli Stati Uniti, questo è un posto da favola al quale non si può rinunciare e che almeno una volta nella vita bisogna vedere.​
West Mitten Butte, East Mitten Butte e Merrick Butte, assieme ad altre, sono le formazioni rocciose che esaltano il mio stato d’animo profondamente ammaliato, ancora una volta, dal modo con cui il vento, l’acqua e l’erosione hanno determinato questo scenario unico, magico e inconfondibile.
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Me ne sto lì in una sorta di contemplazione ascetica, sognando chissà che, ma poi il risveglio è quasi traumatico perché …è già tardi!
Manca circa un’ora al tramonto, fra poco il Centro Visitatori chiuderà, ho bisogno di far scorta di provviste alimentari e cercare un posto dove pernottare. Non posso campeggiare al vicino Mitten View Campground perché è esaurito e purtroppo non ero al corrente che con molto anticipo bisognava procurarsi un permesso di 24 ore presso uno degli uffici del Navajo Park.
Tutto sarà quindi rimandato a domani, compreso il tour nella valle, ma, del resto, non voglio certo perdermi il tramonto e lo farò da una posizione consigliata dal promemoria del mio road book.
A sette chilometri in linea d’aria, esattamente nella direzione opposta rispetto a quella in cui mi trovo, sotto le rosse pareti verticali della Rock Door Mesa, una grande collina di arenaria, ci sono molte attività commerciali fra cui un campeggio, un market, un hotel e il Goulding’s Lodge con museo annesso. Tutta la località dovrebbe trovarsi in una perfetta posizione dominante dalla quale poter assistere al tramonto sulla Monument Valley.
Pertanto, senza perdere altro tempo, mi avvio e quando arrivo trovo ad attendermi una vecchia staccionata western, una bella carrozza “old west” tutta rossa e il Gouldin Lodge, ben posizionato scenograficamente sotto le verticali pareti di arenaria della grande mesa.
Annesso all’abitazione del Gouldin Lodge c’è il museo e un saloon sulla cui porta di entrata indovinate chi c’è ad attendermi…John Wayne, con tanto di Winchester alla mano. E’ solo una gigantografia ma di sicuro effetto.
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Per curiosità entro nel museo che è solo il vecchio negozio dei coniugi "Goulding" fondato nel 1928 e a poco a poco diventato molto frequentato grazie ai vari registi e attori che giravano i film nella Monument Valley. Il museo ha diverse stanze e in una di queste c’è una piccola area commerciale d’epoca con varia mercanzia, attrezzi da cucina, prodotti in scatola, altro materiale e persino pistole. Molti di questi articoli come le vecchie bilance sono originali. La sezione successiva del museo è piena di fotografie del primo insediamento dei Goulding e foto di Navajo locali del XX secolo.
Interessante la “'Movie Room” piena di fotogrammi, fogli telefonici, poster e altri oggetti dell'età d'oro dei film western di John Ford e John Wayne. Inoltre, c’è una mappa topografica dettagliata dell'area Monument Valley, dove è possibile identificare diversi luoghi dove sono state girate le riprese esterne di film.
Il primo piano è stato restaurato più fedelmente possibile per evidenziare come appariva la casa di Goulding alla fine degli anni '40 e all'inizio degli anni '50. Quella porta dove ho visto John Wayne era in realtà l’ingresso del magazzino dove si conservava frutta, verdura e altri prodotti deperibili, poi trasformato nell’alloggio per quell’attore.
Al negozio di alimentari prendo qualcosa da mangiare, telefono piacevolmente a casa perché finalmente c’è linea sul mio cellulare e, approfittando di questa sorta di altana rocciosa, me ne sto a guardare il tramonto imminente.
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Salendo dal basso verso la sommità, la luce radente incalza le rocce monumentali East Mitten Butte, West Mitten e Merrick Butte che stendono pian piano un’ombra meritata sulla rossa terra, arida e assetata di pioggia. I magnifici colori d’un tempo scompaiono sotto un cielo grigio che le guglie sembrano toccare ed è come guardare un grandioso palcoscenico dove cala inesorabilmente il sipario della notte, accomunando tutti e tutto nel buio del grande silenzio nella terra navajo.

continua...
 

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27 - seguito USA Coast to Coast and Park to Park

MONUMENT VALLEY e NAVAJO TRIBAL PARK

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E’ un giorno importante da vivere nella Monument Valley iniziando da un momento sempre esaltante quale si rivela l’alba.

Nonostante sia primo mattino, al casello del parco c’è coda per pagare il ticket di ingresso ma, sgattaiolando fra le auto in fila, passo a sinistra del gabbiotto perché c’è una sorta di corsia preferenziale per coloro che hanno già il biglietto e che ha validità di ventiquattro ore. Al navajo che si presenta alla finestrella del botteghino glielo mostro, transito e parcheggio la macchina nei pressi di Navajo Point. Scendo nel campeggio dove sono stati allestiti un paio di hogan e aspetto che sorga il sole.

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Le “tre sorelle”, come amo definirle e presenti in tutti gli scatti fotografici che immortalano Monument Valley, sono sempre al centro della prospettiva, uniche e irripetibili, pronte a soddisfare l’insaziabilità dell’occhio umano spinto dalla ricerca di qualcosa di inafferrabile.
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Niente regge il paragone con le guglie rocciose più emblematiche dell’intera nazione americana: magnifici strati di arenaria ricchi di ferro la cui ossidazione determina il tipico colore rosastro. Plasmati da alluvioni risalenti a più di 50 milioni di anni fa creano un paesaggio impressionante di mesa e butte. Per secoli questa regione ha ospitato popoli nativi americani ed è considerata il vero selvaggio west, una terra però talmente arida perché i pionieri vi si potessero stanziare.
Attendo… attendo ma all’orizzonte, in un cielo di nuvole grigie stratificate, vedo solo una sottile striscia vagamente colorata di rosa che mi induce a pensare che il sole sia rimasto rintanato offrendomi solo una modesta parvenza di spettacolo. Solo più tardi i raggi dell’astro rompono il grigiore del cielo e illuminano le cattedrali monumentali del deserto navajo e la pista chiara di terra battuta che serpeggia nella Valley Drive color cioccolato, punteggiata da cespugli verde scuro.
Del levar del sole ho visto di meglio ma, in ogni caso, lo spettacolo di questo luogo che si para davanti a me è ugualmente bellissimo, con la capacità di provocare emozioni e sogni difficilmente riscontrabili altrove.

Primo impegno odierno concluso e il successivo è quello di andare a far colazione a ristorante del View Hotel, l’unica struttura alberghiera del parco: dalle vetrate di tutte le camere, disposte in fila e ad arte, si può godere tutto il giorno e la notte di un paesaggio eccezionale e unico.

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Anche per me, mentre faccio colazione, la vista sui Mittens attraverso le grandi vetrate della zona ristorante è comunque pur sempre gradevole e quando termino mi accomodo fuori su un lungo balcone con di tavolini e sedie metalliche che sembra siano lì ad attendermi.
Mi incuriosisce, per di più, una bacheca su un piedistallo che ha un’istantanea western….di John Wayne. La didascalia a caratteri cubitali recita testualmente:John Wayne’s Point. L’attore considerava questo luogo il posto migliore per godere la bellezza e la quiete di Monument Valley. Nel 1939 il suo primo film diretto da John Ford fu “Ombre Rosse”. Interpretò in questo territorio altri quattro film e l’ultimo fu “Sentieri Selvaggi” nel 1953”.
Mi siedo, approfitto della quiete dell’esaltante scenario, scatto una bella fotografia e cerco di scrivere appunti nella mia agenda rossa, preziosa compagna dei miei viaggi.
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Tutto questo e non solo è senza dubbio uno dei motivi, se non il principale, per il quale, come tanti viaggiatori, mi trovo in questo posto. L’archeologica di questo territorio risale a migliaia di anni prima dell'epoca dei popoli ancestrali degli indiani Anasazi che risiedevano in quest’area che oggi ospita la più grande tribù del Nord America: i Navajo o Diné. La loro storia è intrecciata con le prime incursioni spagnole e messicane nella zona, così come il periodo della corsa alla nuova frontiera.
I Navajo sono stati a lungo considerati uno dei popoli nativi fra i più pacifici ma, dopo un lungo periodo di ostilità con gli “uomini bianchi” assetati di conquista, nell’inverno del 1864 furono sfrattati con la forza dalle loro case e costretti a percorrere a piedi, tra neve e ghiaccio, 563 chilometri dall’Arizona fino alla riserva di Bosque Redondo, in New Mexico. La "Lunga Marcia" così come la chiamano i nativi, causò non meno di mille morti e si rivelò un vergognoso olocausto.
Il confinamento a Bosque Redondo durò cinque anni ed è segnato come la pagina più nera della storia dei Navajo. La riserva era ubicata in un territorio malsano, quasi privo di vegetazione e inadatto all'agricoltura. Nel 1868, fra i Navajo e il governo degli Stati Uniti, fu stipulato un trattato che pose fine all’indegno esilio e definì i confini di una nuova riserva posta a cavallo fra gli stati americani di Arizona, New Mexico, Utah: la Navajo Nation.

Il ritorno ai territori d'origine segnò una drastica mutazione nella storia dei Navajo. La popolazione tornò all'attività agricola, intensificò l'allevamento, l'artigianato, in particolare la tessitura e la lavorazione dell’argento. La popolazione conta oggi circa 250.000 persone e costituisce il gruppo etnico più numeroso fra i nativi americani. Il territorio dei Navajo supera di molto quello di altri stati americani, gode di autonomia amministrativa e la nazione rappresenta uno dei pochi esempi di conservazione di una forte identità amerindia all'interno della società statunitense. Pur mantenendo vivi i propri valori, lingua, cultura, tradizione, i Navajo si sono adattati al progresso nell'ultimo secolo organizzandosi in una struttura sociale autonoma moderna e integrata come nazione all'interno di una nazione. I Navajo dipendono molto dal turismo, contenti di condividere la loro terra e mostrare la loro cultura. Tuttavia, la folla di turisti rappresenta per loro pur sempre un disagio per il fatto che la loro la patria per cui hanno lottato così duramente rimanga soggetta a costante invasione, anche se di un tipo più amichevole.

Mi reco al Visitor Center per curiosare sul tipico abbigliamento navajo, sui prodotti artigianali, per acquistare qualche cartolina e le mie immancabili calamite da frigo. Sono in vendita bellissimi monili d’argento e pietra turchese: anche molti tappeti e proprio la tessitura, dai disegni assai complessi, è al centro della cultura navajo come forma d'arte tradizionale. In un’altra zona, su una parete, si proiettano vecchi film western girati nella valle, con John Wayne protagonista assoluto.

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Piuttosto, mi interessano, in un altro grande locale, numerose fotografie, oggetti e ritagli di giornale della seconda guerra mondiale. Infatti, qui è rappresentato uno degli elementi di vanto dei Navajo come cittadini americani: il linguaggio dei così detti code talker. I soldati navajo usavano proprio la loro lingua come codice di comunicazione, assolutamente indecifrabile per il nemico. Il contributo di una lingua complicata e praticamente sconosciuta al di fuori degli Stati Uniti, mai decodificata dal controspionaggio giapponese, si rivelò fondamentale per i risultati delle battaglie dell'esercito americano nella seconda guerra mondiale.

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Scendo nell'ampio parcheggio del Centro visitatori che ora pullula di jeep di compagnie navajo desiderose di accompagnarti in tour guidati.
Con molta discrezione mi avvicino a uno dei pick-up con cassone, allestito con una struttura metallica e teli per protezione per ospitare una decina di persone ospitate su panche di legno.
Con la mia non abituale sfacciataggine mi faccio forza e chiedo al conducente di poterlo riprendere con la telecamera: permesso accordato mentre lo ringrazio per avermi concesso l’opportunità di ritrarre un vero navajo.
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La polizia della riserva indiana sorveglia discretamente tutto e tutti e di sfuggita mi accorgo che qualche turista americano guarda divertito la targa “Alaska” della mia automobile, meditando sul conducente che è arrivato da così lontano.
E’ vero, ma io vengo da molto…da molto più lontano!

Al casello di ingresso del parco mi è stato consegnato un opuscolo informativo abbastanza completo su tutto quanto è di interesse per la visita. Si fa anche cenno alla possibilità di fare un’escursione a piedi e senza guida sul Wildcat trail, un sentiero ad anello di circa sei chilometri che consente – per così dire - di avere un incontro ravvicinato con il West Mitten Butte.
Mi piacerebbe intraprenderlo ma, pur non essendo difficile, francamente non me la sento di effettuarlo per il poco tempo che ho disponibile; per di più, non sono particolarmente attrezzato, farà caldo e bisogna fare attenzione…ai serpenti!
L’altra escursione consentita, senza guida, è quella di percorrere la Valley Road a bordo della mia auto così come ho visto fare ad altri. Però, guardando lo sballottare dei mezzi, all’inizio della pista sconnessa e piena di buche, mi convinco che anche questa opzione è impraticabile, a meno di rompere qualche sospensione della macchina, la qual cosa certo non posso permettermi.
L’ultima alternativa possibile è quella di effettuare un tour a bordo dei gipponi scoperti, con guide navajo autorizzate, che sostano in attesa di turisti smaniosi, come me del resto, di vedere da molto vicino i monumenti spettacolari della valle.
Nell’opuscolo informativo che mi è stato consegnato vi è una mappa con l’indicazione di una decina di punti nei quali la Scenic Drive si inoltrerà permettendo di sostare e vedere da vicino i monoliti e le bizzarre formazioni rocciose di Monument Valley: East and West Mitten Butte, Merrick Butte, Elephant Butte, Three Sisters, Camel Butte, Yei-bi-chai, North Window, Totem Pole e The Thumb.

Peraltro, è disponibile un percorso restrittivo a parte che consente di entrare nella Mistery Valley, territorio considerato sacro e cuore della valle, dove si trovano le Yi Bi Chei, torri di roccia che per i Navajo rappresentano “spiriti danzanti” insieme all’incredibile Totem Pole alto 137 metri. Quest’area, vietata ai mezzi privati, è accessibile con guide autorizzate prenotando un tour con un costo supplementare, in aggiunta a quello standard, abbastanza elevato.
Molti sono i divieti nel corso dell’escursione, come quello di non allontanarsi troppo dal percorso, di non effettuare fotografie a scopo commerciale, non bere alcool, rispettare animali e piante, non arrampicarsi sulle rocce e altri ancora.
La strada sterrata è lunga circa venti chilometri e ci vogliono dalle 2 alle 4 ore per completare il percorso perché il limite di velocità ammesso è solo di 25 chilometri/ora. Pertanto, le escursioni più frequentate sono quelle che prevedono, in un punto ben preciso, di tornare indietro mediante un percorso ad anello intorno alla Rain God Mesa.

Sono in difficoltà perché desidero entrare nella valle ma c’è una complicazione meteorologica: il cielo promette pioggia!
Infatti, non passa molto tempo perché il fenomeno temporalesco si presenti puntualmente, invitando tutti a mettersi al riparo. Per di più, vedo alcune camionette scoperte piene di passeggeri che rientrano tutti inzuppati dall’escursione nella valle.
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Fortunatamente, però, la pioggia ha breve durata, il cielo è comunque coperto ma io non voglio perdermi l’occasione di percorrere la Valley Drive con un gippone dei tour navajo.

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La Monument Valley..... la sua straordinaria bellezza naturale, il suo significato culturale ed il suo impatto visivo sono alcuni degli elementi che rendono questo luogo così speciale.
Per la Nazione Navajo, che gestisce la Monument Valley, questo luogo ha un significato spirituale e culturale. Le formazioni rocciose sono viste come entità viventi, e l'intera valle è considerata sacra.
 
seguito

Sollevando nuvoloni di terra rossa sospinta da un vento teso, molte camionette cercano di rientrare in un traffico congestionato con innegabile insoddisfazione dei passeggeri.

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All’orizzonte non si vede quasi nulla e occhi attenti di navajo e turisti sembrano scrutare con attenzione l’evolversi dello spiacevole intoppo metrologico, me compreso.

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Nel parcheggio, riprendo di sfuggita un navajo che nervosamente fa avanti e indietro davanti al suo botteghino turistico mentre poco più in là un pigro pick-up, quasi emblematicamente posizionato sotto Merrick Butte, attende con pazienza di portare a spasso noi viaggiatori. Del navajo ciò che più mi piace e attrae la mia attenzione sono il suo naso aquilino e gli stivali sui quali sono stati messi gli speroni per cavalcare.

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seguito Monument Valley

NAVAJO TRIBAL PARK TOUR

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Più il tempo passa e più l’indecisione di intraprendere l'escursione nella Valle con questo tempo inclemente si fa spasmodica. Come spesso accade, però, giunge il momento di passare all'azione per non sfarsi sfuggire un’occasione forse irripetibile…costi quel che costi e pioggia permettendo!
Mi avvicino a due navajo che attendono speranzosi che qualche interessato abbia voglia effettuare l’escursione a bordo del proprio gippone scoperto e chiedo il prezzo della "corsa": mi dicono che occorrono 75 dollari…prendere o lasciare! Prendo!

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Nel frattempo anche una famiglia con due bambini ha acquistato il tour. Ci accomodiamo tutti sulle panche spartane del pianale posteriore del fuoristrada Toyota e iniziamo questa benedetta escursione: alla guida del gippone c’è una donna navajo, abbastanza attrezzata come muscolatura.
All’inizio del sentiero di terra battuta, buche e massi affioranti dal terreno si sprecano in un dissesto quasi messo di proposito per impedire a mezzi privati di organizzare un tour “fai da te”.

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Sballottati di qua e di là dalle sospensioni del fuoristrada, scendiamo nella valle transitando per prima davanti a Mittens e Merrick Butte, in verità abbastanza lontani, ma non tanto da impedire di apprezzare la loro mole indiscussa di monoliti che modellano uno dei paesaggi più famosi al mondo e considerati a ragione l’autentico simbolo della Monument Valley.
Sul postpo sventola anche una bandiera americana con l’effige di Geronimo, uno dei più famosi capi Apache e strenue guerriero contro i soldati dell’Unione.
Questo è il primo degli undici “pit stop” che effettueremo nel percorso: si scende, si guardano le onnipresenti bancarelle navajo, si ammira il paesaggio spettacolare, si fotografa e si riparte.
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Ora, la pista sabbiosa è diventata più percorribile e meno polverosa per la pioggia caduta qualche ora fa, ma è la particolarità di essere completamente immersi fra colline e torri di arenaria rossa che ha qualcosa di sconvolgente e nello stesso tempo affascinante.

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seguito Navajo Ttribal Park Tour

Elephant Butte, gigantesca e bizzarra conformazione rocciosa, così denominata per la sua presunta somiglianza con un elefante, si para davanti con la sua mole minacciosa. Altra sosta per ammirare la magnifica eleganza di Three Sisters, tre sottili pinnacoli piuttosto caratteristici che si differenziano dai ben più spessi e tozzi monoliti del panorama circostante.

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Lì vicino c’è John Ford’s Point e ci vado a piedi assieme alla famiglia che ho compreso trattatasi di persone di nazionalità svizzera.


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Il sito è veramente spettacolare con la valle che si distende sotto di me verso l’infinito. Il luogo è dedicato al regista che ha immortalato la Valle come lo scenario hollywoodiano simbolo del Far West. Proprio questa altana naturale su un paesaggio grandioso era il suo luogo preferito per dirigere le riprese cinematografiche dei film con diligenze, indiani e cavalleggeri.

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Mentre sono intento a scattare fotografie, giunge un cavallo e una signorina che si fa fotografare in groppa. Se ho compreso bene dalle parole del navajo sono sufficienti tre soli dollari per essere ritratto sul destriero avendo alle spalle non il cartone dipinto del paesaggio ma quello vero di Monument Valley.
Non resisto alla tentazione!
Il navajo mi aiuta a salire in groppa, mi porge un cappello e un lazo da cowboy, facendomi apparire come un personaggio pronto al colpo di ciak di una scena cinematografica.
Mentre il mio compagno di viaggio mi scatta una foto sul palcoscenico di questo paesaggio perfetto, vagheggio anch’io di essere il protagonista improbabile – assai improbabile – di un film western come “Sentieri selvaggi”.
Purtroppo l’abbigliamento non è consono: i calzoni corti proprio no!

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L’escursione prosegue verso Camel Butte una grande struttura rocciosa, complessa ed evocativa, battezzata “collinetta del cammello”.
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Poi, i peculiari pinnacoli di Totem Pole regalano alcune delle vedute più belle di Monument Valley.
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seguito Navajo Ttribal Park Tour

Artist’s Point, poi, il luogo più spettacolare di tutta la valle; quello che più di ogni altro mi ha emozionato e impressionato.
L’entusiasmo di guardare dal miglior punto strategico privilegiato l’assieme prospettico unico della formazione emblematica delle rocce che si stagliano e si perdono nell’orizzonte infinito ha qualcosa di irripetibile.
Devo per forza affermare la mia presenza in questo paesaggio magico.​

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Procediamo per North Window, il luogo ideale per una panoramica della valle vista da settentrione e prima di far ritorno al parcheggio in alto, vicino al View Hotel dal quale siamo partiti, l’ultimo punto di interesse è The Thumb, un bizzarro monolite a sé stante simile a uno stivale da cowboy.

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La nostra camionetta ci attende per rientrare e nel frattempo, sotto sbrecciate pareti verticali di arenaria, stimolato dai bambini svizzeri che giocano con la sabbia, raccolgo un sacchetto di terra rossa da conservare come cimelio di questa splendida, entusiasmante e indimenticabile escursione nella elettrizzante Monument Valley.

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L’unico rammarico deriva dal fatto di non aver avuto il supporto delle condizioni di luminosità per poter fotografare nel migliore dei modi tutto quello che ho avuto il privilegio di ammirare.
Tuttavia, anche questa “passeggiata” spettacolare è “un’altra di quelle cose che nella vita bisogna fare almeno una volta!”

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Sono già le sette di sera e preso atto che non posso pernottare nel vicino campeggio, devo trovare un’altra sistemazione per dormire e un posto dove cenare.
A risolvere questo inghippo ci pensa il mio fidato road book che mi consiglia di andare a Maxican Hat, trenta chilometri più a nord, percorrendo la statale 163.
Il cielo è grigio e quindi ritengo che non potrò neanche assistere a un tramonto degno di nota, ma comunque mi permetto un’ultima foto al paesaggio di Merrick Butte e West e East Butte.
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Decido di assecondare il suggerimento delle mie informazioni e mi avvio verso quella destinazione sulla lunga e rettilinea statale 163, classificata sulle carte stradali anche come UT-22.
Una linea di demarcazione immaginaria tra Stati passa proprio attraverso la valle e quindi dall’Arizona ora mi trovo subito nello Utah.
Nonostante incominci a far sera, dallo specchietto retrovisore vedo la strada che termina in un solo punto dell’orizzonte completamente conquistato dallo sky-line delle rocce ormai scure della valle. Tuttavia, mi sembra di aver letto da qualche parte che la prospettiva migliore per fotografare, percorrendo la 163, si determina la mattina venendo da Mexican Hat con il sole alle spalle.
Non intendo farmi sfuggire anche questa ghiotta opportunità se avrò tempo disponibile…domani mattina.
Intanto, la strada corre nel deserto puntando verso un’estesa collina di arenaria che sembra sbarrarle il passo. Falso allarme perché l’altura viene aggirata e raggiunge in poco tempo il San Juan River, il fiume che scorre serpeggiando fra le gole di arenaria. Attraverso un piccolo ponte di ferro e sulla sinistra vedo un trading post sotto luna formazione rocciosa collinare.

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Sono indeciso se fermarmi o continuare per cercare una soluzione migliore, anche per quanto riguarda la cena, poiché il villaggio di Mexican Hat è già in vista.
Infatti, dopo qualche chilometro, trovo altri due motel. Uno di questi, Mexican Hat Lodge, è quello che più fa al mio caso perché ha un ristorante annesso pubblicizzato da una tabella che è tutta un programma: Home of the Swinging Steak.
Ho la certezza che posso cenare a base di carne ai ferri e dopo aver parcheggiato lì vicino mi infilo fra i tavoli del ristorante alla buona, scegliendo una posizione comoda per guardare ciò che accade nel reparto cucina “a vista”.
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Una sorta di voluminosa vasca di lamiera, annerita dal fumo e che sprigiona fiamme dai carboni ardenti, è la base sulla quale dondola, letteralmente, un’altrettanto grande griglia di ferro. Su questa graticola bistecche di carne di manzo, alte tre o quattro centimetri, sono state messe ad arrostire da un signore grassottello, gioioso e vestito da cowboy. Sulla testa non gli manca un classico cappello a larghe tese e il piacere del mestiere al quale attende è chiaramente manifestato dal suo viso che sprigiona allegria e simpatia. Dalle fattezze, non mi sembra un navajo, come non lo è di certo una signorina che è intenta al prendere ordinazioni e a servire altri clienti.
Guardando il menu disponibile e quello che la ragazza serve a altri clienti, mi sembra di capire la scelta sia obbligata, trattandosi di fagioli con verdura, pane abbrustolito e bistecca cotta alla brace. Pertanto ordino le stesse cose e una birra, che tanto mi manca, per dissetarmi.

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Qualche goccia di pioggia mi fa spostare sotto una pensilina e poco dopo arriva la mia classica cena western. Per quanto riguarda i fagioli, la pietanza è passabile anche se mancava l’amata pasta…ma non si può avere tutto!
Invece la bistecca ha decisamente un sapore e un profumo più apprezzabile: 35 dollari la cena e la mia fame è soddisfatta.
Il piccolo villaggio non offre nulla di nulla ma la serata è piacevole. Quindi, non potendomi spostare altrove, mi sembra opportuno fermarmi qui per pernottare.

Monument Valley…unforgettable!
continua...

 
28 - seguito USA Coast to Coast and Park to Park

7ª Tappa - MONUMENT VALLEY – MOAB – ARCHES N.P. - 280 km

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Sveglia di buonora perché desidero vedere Monument Valley con i raggi del sole del primo mattino che la irradiano venendo da San Juan River.
E’ vero che devo poi tornare indietro a Maxican Hat e da qui proseguire per la tappa odierna; è vero che devo impiegare tempo prezioso, ma questa soddisfazione paesaggistica non posso certo farmela mancare.
Sono le sei del mattino. Dopo aver fatto benzina alla Shell, dirimpetto al motel, e aver bevuto una cioccolata calda parto verso San Juan River e Monument Valley.
Le condizioni del tempo sono ottime, niente a che vedere con quelle di ieri e allora mi godo il tragitto che sembrerebbe ancor più spettacolare provenendo da questa direzione. In effetti lo è, mentre banchine sterrate a destra e sinistra della UT-163 sono un’ottima opportunità per parcheggiare e fotografare.
Durante la preparazione del road book, mi era parso di leggere da qualche parte che c’era qualche attinenza tra questa strada e il film Forrest Gump. Il personaggio principale, interpretato da Tom Hanks, dopo mesi di cammino percorso senza soluzione di continuità, decide di terminare la sua corsa proprio qui, avendo alle spalle la scenografica Monument Valley.

Fermo la macchina in uno spiazzo sterrato abbastanza ampio perché la prospettiva regala davvero tutta l’emozione che questi luoghi e questa strada panoramica riescono a scatenare. C’è una bancarella navajo e ho prima l’impressione e poi la certezza, giustificata da uno striminzito cartello, che è proprio questo il famoso Forrest Gump Point.

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Lo spettacolo è assicurato e la prima impressione è quella di trovarmi su una collina lievemente degradante e dominante dalla quale la strada, perfettamente dritta, prima scende e poi sale lentamente per scomparire infine nell’orizzonte lontano, proprio dentro le incredibili mesa e butte della valle navajo.
Sono circa le sette del mattino, non c’è una nuvola in un cielo azzurro e quindi le condizioni sono eccellenti per permettermi di effettuare molti scatti fotografici nelle migliori condizioni di luce.
Sono veramente entusiasta e, riprendendo a viaggiare, i paesaggi di questo territorio fantastico si ampliano davanti, trasformando il parabrezza dell’auto in una sorta di finestra su una gigantesca cartolina in movimento. Non a caso, i prossimi chilometri della Utah 163 sono quelli più apprezzati e affascinanti del territorio e ciò che non ho potuto vedere ieri sera, oggi si delinea perfettamente a destra e sinistra della scenic road che transita attraverso la bellissima mesa di Monument Pass, quasi fosse stata divisa da parte a parte.
Monument Valley si delinea sempre con maggiori particolari, mentre sulla mia destra e alla mia sinistra sfilano in sequenza intriganti formazioni di butte e mesa. Ognuna ha una di queste ha la sua conformazione particolare tanto che i navajo, oppure qualche altro, le hanno contrassegnate e distinte fra loro con nomignoli curiosi: Sitting Hen, bellissimo butte appariscente e identificabile perché simile alla cresta di una gallina; Sleeeping Bear, un orso accovacciato e Eagle Rock. Tutte fanno parte della bellissima Eagle Mesa.
Mentre continuo a incedere, alla mia sinistra c’è un tripudio di forme rocciose dai nomi altisonanti: Brighams Tomb, alias Tomba dei briganti; King of is Trone, Stagecoach, Bear and Rabbit, Castle Butte, Big Chief, simile a una testa di indiano con il cappello piumato. Poi, Sentinel Mesa che, al pari di El Capitan per chi proviene da Sud, sembra anch’essa essere stata messa a guardia da madre natura alla Valle per coloro che vengono dalla parte opposta. Infine, approssimandomi alla linea di confine Utah/Arizona si impongono i monumenti inconfondibili e scenografici Mittens e Merrick.

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Solo il tempo di andare a fare una fotografia al monumento del Navajo Tribal Park e poi torno indietro verso Mexican Hat con lo sguardo irrefrenabilmente volto a guardare lo specchietto retrovisore che vede Monument Valley allontanarsi inesorabilmente.
Transitando sul ponte del fiume San Juan River è bello vedere questa specie di serpente dalle acque limacciose che nel suo lento scorrere ha scavato canyon molto profondi, erodendo continuamente la roccia arenaria che sotto i raggi del sole assume un delicato colore rosa.
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Fra andata e ritorno ho percorso almeno sessanta chilometri ma sono assolutamente contento, non mi sono perso quasi nulla di ciò che volevo vedere e adesso devo volgere la prua verso la città di Moab e il suo mitico Arches National Park.
continua...
 
29 - seguito USA Coast to Coast and Park to Park

ROAD TO ARCHES N.P.


Fra andata e ritorno dalla linea di confine Arizona/Utah ho percorso almeno sessanta chilometri ma sono assolutamente contento, non mi sono perso quasi nulla di ciò che volevo vedere e adesso devo volgere la prua verso la città di Moab e il suo mitico Arches National Park.
Conto di arrivarci oggi pomeriggio e adesso vediamo che cosa rammenta il mio road book: fra quaranta chilometri c’è Bluff, avamposto pioneristico, ma ancor prima dovrò incontrare il veroMexican Hat.
Infatti, dopo appena cinque minuti di percorrenza da San Juan River si presenta una formazione rocciosa, veramente singolare, stupefacente, impossibile da non vedere perché si leva in modo tale da attirare l’attenzione. Svetta quasi solitario, un alto cono di arenaria color rame che ha in cima un grande disco, della medesima roccia e in equilibrio precario, che gli fa assumere la forma del caratteristico sombrero messicano.

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Mexican Hat. sembra non molto lontano dalla strada asfaltata, ma il lungo sentiero per arrivare alla sua base è sterrato, forse ci sarà pietrisco e sicuramente mi costerà tempo prezioso. Allora, la cosa migliore da fare è quella di fotografare con il tele del telefono, non rischiare le sospensioni della macchina e continuare a viaggiare.
La statale percorre un paesaggio desertico e pietroso con basse colline e qualche altro cono di arenaria come quello che ha una specie di torre sulla sommità. All’orizzonte, una bassa catena montuosa sembra sbarrare la strada che miracolosamente ora vira a destra con un’ampia curva, punta dritto verso alcune colline che supera agevolmente dopo essere passata fra le loro pareti di arenaria e sfocia nuovamente n una piana desertica.

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Da quando sono partito non ho notato alcun insediamento umano e il rettilineo continua imperterrito verso l’orizzonte almeno fino quando…miraggio!
In lontananza la parvenza di bassi caseggiati diventano sempre più evidenti man mano che li raggiungo e a rendere piacevole la loro ubicazione c’e almeno un po’ di verde e ombra sotto minuscoli alberi che allietano il paesaggio fin qui desertico. Ci sono distributori di benzina, motel, qualche negozio di generi alimentari ma è il fiume San Juan che transitando vicino al paese elargisce la sua linfa vitale al territorio circostante.
Il grande cippo di mattoni di arenaria recita semplicemente Bluff-Utah, ma quello che mi sorprende maggiormente, alla mia sinistra e sotto alcune rupi di rossastre, è la presenza di Bluff Fort: è l’antico insediamento pioneristico annoverato nella mia guida.

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Il luogo è carino, i servizi turistici non mancano, penso che val bene una sosta e quindi parcheggio lì vicino per andare a curiosare.
Al Centro Visitatori mi accolgono due simpatiche signore mormoni, poco avanti con gli anni, con grembiule e classica cuffietta in testa; gestiscono il negozio di molti articoli di regalo, da quel che vedo, abbastanza interessanti.
Do uno sguardo, ma le signore, pensando ad un turista americano, mi invitano a salire al piano superiore dove, fra cimeli e foto d’epoca, potrò conoscere la storia di questo villaggio.
Da quanto riesco a leggere, vedere e capire si tratta di una storia epica dei pionieri mormoni che, per ubbidire a “una chiamata” dei loro capi, nel 1879 si trasferirono da Escalante, più a nord, per fondare in quest’area una “Missione” e portare la legge in un luogo che ne era privo.
Settanta famiglie composte da 250 uomini, donne e bambini partirono per un viaggio di circa 350 chilometri che si rivelò durissimo. Fra altre vicissitudini, a forza di braccia dovettero scavare un passaggio nella fenditura di una falesia rocciosa del fiume Colorado alta 600 metri per consentire alla carovana di accedere alla sottostante foce del fiume Escalante. Questo passaggio o sentiero è noto al giorno d’oggi come Hole-in-the-Rock-Trail, ed è considerato, a ragione, uno fra i più straordinari esempi di spirito pionieristico. Spostandosi più a sud fondarono Bluff City vicino al San Juan River ma le condizioni aspre del territorio costrinsero molte famiglie a trasferirsi nella più fertile terra di Blanding e Monticello, non molti distanti.
Dopo questa bella introduzione storica, esco all’aperto dove il recinto di Bluff Fort rende evidente la sistemazione delle capanne dei mormoni sui lati di un ipotetico grande quadrato che ha al centro un pozzo per l’acqua. Delle 36 antiche capanne, edificate facendo ricorso a tronchi d’albero e canne per il tetto, con l’entrata e una finestra rivolte verso lo spiazzo centrale, ne rimangono solo alcune, in parte originali e in parte ricostruite o ristrutturate.
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Non manca una capanna più grande che veniva utilizzata come chiesa, scuola, sala da ballo e luogo di riunione pubblica.
L’edificio della cooperativa di mormoni, utilizzato per commerciare con gli indiani e vendere i prodotti agricoli, è quello che ora accoglie il Visitor Center.
Entrando nella casa-capanna originale appartenuta ad un pioniere di nome Walter Lyman mi rendo conto di quanto fosse essenziale l’esistenza di questi mormoni: un caminetto di mattoni per riscaldarsi e che fungeva anche come posto per cucinare, un letto, uno scrittoio, un lume a petrolio, pentole, pochi piatti e qualche quadro di famiglia.
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Nel recinto del caseggiato attirano la mia attenzione due hogan, un tepee navajo e un carro originale che faceva parte della spedizione. Noto anche la presenza di una famiglia in costume alla quale chiedo di posare assieme per una foto.
Richiesta esaudita con gentilezza.​

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Torno nel negozio e attratto dalla mercanzia faccio incetta di souvenir personali e da regalare che mi costano parecchi dollari e soprattutto tempo prezioso. La signora mormone, avendo appreso la mia nazionalità, mi incita a salire al piano superiore per assistere a un cortometraggio su Bluff Fort, anche in italiano. Devo rinunciare e per placare le cortesi insistenze le faccio una bella foto e le dico che gliela spedirò dopo essere tornato a casa.
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Intanto sono volate due ore, non inutilmente devo sottolineare, e quando riparto non ho il tempo di dare un’occhiata veloce al Twin Rock Cafè, mirabilmente piazzato sotto una conformazione di arenaria.

continua...
 
seguito Road to Arches N.P.

Devo percorrere 160 chilometri e la mia automobile, transitando in una gola fra pareti di arenaria, viaggia ancora una volta nel deserto biancastro con la rara eccezione dei campi coltivati di Blanding e un grande parco di conifere a Monticello, un bel paese dove avevo deciso di fermarmi per pranzo, ma il tempo è ora inclemente: piove!

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Basse colline si vedono all’orizzonte il cui skyline è conquistato da cumulonembi minacciosi che non promettono nulla di buono proprio nel territorio dove mi sto dirigendo.

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Tuttavia sono ancora lontano da Moab e man mano che proseguo, le formazioni rocciose rosacee cominciano a rendere piacevole il paesaggio che ad un certo punto culmina in un incontro inaspettato ma superlativo.
Una grande banchina panoramica, sapientemente predisposta, è il miglior luogo per ammirare un capolavoro fantastico della natura: Wilson Arch.

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E’ praticamente un “buco”, largo 30 metri e alto 14, nel bel mezzo della struttura di roccia rosata di arenaria. Wilson Arch è un testimone bellissimo e perfetto del modo in cui “madre natura”, con acqua, vento e pioggia ha saputo confezionarlo nel corso di millenni. E’ l’ottima anteprima di ciò che vedrò ad Arches Park.
C’è qualche persona là sotto ma, a confronto dell’arco naturale, sembrano solo dei lillipuziani ai quali mi farebbe monto piacere accodarmi scalando la facile collina ma, purtroppo, devo desistere perché – non so come - ho male a un polpaccio.

Dopo quest’ottimo intermezzo, nuovamente deserto e il cielo è diventato abbastanza nuvoloso. Non che faccia freddo, anzi, ma sarebbe meglio apprezzare il paesaggio in condizioni meteo più decenti. Infatti, dopo una ventina di chilometri il territorio dello straordinario Utah è punteggiato da spazi verdi, colline rosacee, straordinarie formazioni rocciose e giganteschi monoliti di arenaria e qualche bella area di sosta. Bellissima è quella che trovo a Kane Springs, segnalata da una grande parete di arenaria che ha in alto la grande scritta bianca Hole in the Rock (buco nella roccia).​

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Un territorio costituito per lo più da colline che circondano la Spanish Valley e qualche insediamento è il paesaggio nel quale transita la statale, annunciando l’approssimarsi alla città di Moab.​
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Man mano aumenta un formicaio di motel, distributori di carburante, campeggi, supermercati, attività commerciali; soprattutto punti noleggio dove affittano i quad, quadricicli per fuoristrada di derivazione motociclistica utilissimi per gli appassionati di off-road che hanno fatto di questo territorio fantastico una meta leggendaria. Sono sparsi lungo la carreggiata della larghissima e trafficatissima statale che passa proprio nel bel mezzo della città.​

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Moab, nome di derivazione biblica che lascia intendere la fondazione da parte dei mormoni, è una cittadina di solo seimila abitanti sparsi però in un vasto territorio di qualche decina di chilometri quadrati. Determinante, però, è la sua posizione geografica in relazione alle caratteristiche geologiche di due famosissimi parchi e delle fredde acque del fiume Colorado che passa solo a qualche centinaio di metri dall’abitato. La sua rilevanza turistica quindi è considerevole e centro di partenza di innumerevoli escursioni a piedi, in auto o con i quad attraverso le incredibili e affascinati formazioni di roccia arenaria.
All’epoca della programmazione del mio viaggio inoltrai attraverso internet a www.utah.travel e discoverymoab.com una richiesta di cataloghi turistici riguardanti Utah e Moab. Quando giunsero i depliant, sfogliando le pagine e guardando soprattutto le immagini di paesaggi unici, mi resi conto che l’avventura in quei luoghi si prospettava affascinate.
Lo Utah era presentato in questo modo: “Patria di 5 Parchi nazionali, ben 43 parchi statali e 7 monumenti nazionali, lo Utah esprime il meglio sia per le Montagne Rocciose sia per il deserto del Sud Ovest americano. Tenendo fede al motto dello stato “Life Elevated”, qualunque attività farete durante la vostra vacanza lo Utah abbaglierà i vostri sensi e vi accompagnerà a casa con ancor più desideri”.
Già Bryce Canyon, Zion Park e Monument Valley hanno confermato ampiamente quelle promesse ed ora c’è da aspettarsi qualcosa di veramente stupefacente nel territorio che intendo visitare, partendo da questa cittadina che l’opuscolo presenta così: “Moab, dove si realizzano tutti i sogni della vita all’aria aperta perché qui comincia l’avventura”. In questo contesto, assolutamente pertinente, calza a pennello la citazione dello scrittore americano Eduard Abbey che ho richiamata nel mio road book: “La natura selvaggia non è un lusso ma una necessità dello spirito umano”.
Sono veramente elettrizzato perché andrò alla scoperta di Arches National Park, uno scenario di roccia rossa fuori dal mondo caratterizzato dalla presenza di 2.000 archi di pietra arenaria fra i quali spicca Landscape Arch per le dimensioni e Delicate Arch per la sua bellezza, tanto da essere raffigurato come emblema dello Utah sulle targhe automobilistiche dello Stato.
Poi, dedicherò tempo al Canyonlands National Park non molto lontano da Arches, che con le sue migliaia di chilometri quadrati di canyon colorati, mesas e buttes mi indurranno a credere di trovarmi in capo al mondo.

Nel frattempo, fra le tante attività commerciali ne ho trovata una che fa al mio caso: un’area di servizio carburanti dove c’è …il mio mitico Subway! Mi ci ficco subito per lenire la fame e la stanchezza, contando di perdere meno tempo possibile e tentare di organizzare qualcosa nel pomeriggio.
La tappa successiva è al centro visite per prendere le mappe dei parchi, i sentieri percorribili a piedi e soprattutto le informazioni sulle condizioni meteorologiche di domani perché già adesso il cielo è cupo e minaccioso. Infatti, non appena metto piede nel Moab Information Center, situato in posizione strategica in centro città, scoppia un temporale grandioso con acqua a catinelle tanto da non poter nemmeno raggiungere la mia auto parcheggiata proprio davanti all’ingresso.

Approfitto per chiedere agli operatori quanto mi possa essere di utile nel soggiorno, guardo gli schermi interattivi, i grandi poster di dettagli spettacolari di archi e canyon e grandi mappe dettagliate per le escursioni nei parchi…mentre fuori piove fortissimo.
Approfitto anche della presenza della rete wifi per telefonare a Jack in California e rassicuralo che tutto procede nel migliore dei modi. In Italia è notte fonda e quindi dovrò pensarci domani.
Comunque sono già le cinque di pomeriggio e continua a piovere incessantemente tanto che necessariamente dovrò rinunciare a quanto avevo in programma. In queste condizioni non mi sembra neanche il caso di andare a piazzare la tenda nel campeggio previsto, sicuramente allagato, e quindi non appena possibile dovrò andare in giro a cercare un motel dove pernottare.​
Spero che domani il tempo non mi faccia brutti scherzi!

MOAB…where dream and adventure begins!

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continua...
 
29 - seguito USA Coast to Coast and Park to Park

ARCHES NATIONAL PARK

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Ieri sera era piuttosto tardi quando ha smesso di piovere e pur impegnandomi a cercare non sono riuscito a trovare nei dintorni del centro città una sistemazione abbastanza economica per le mie tasche. Pertanto, ho preferito passare la notte in macchina nel parcheggio del Centro Visitatori.
Oggi avrei desiderato soggiornare “en plein air” al campeggio Devils Garden di Arches: come rammenta la mia guida cartacea, bisogna però prenotare con minimo quattro giorni d'anticipo e quindi lo troverò completo. Otterrò la conferma sul posto e certo mi spiacerà se le mie note saranno confermate perché dovrò giocoforza tornare a Moab.

Assolutamente impensabile e in contrasto con le condizioni meteo di ieri pomeriggio, oggi la giornata è bellissima, il cielo è carico d’azzurro, privo di nuvole e quindi ci sono tutti i presupposti per andare ad esplorare il parco nazionale e i suoi meravigliosi archi di pietra arenaria.
Durante la colazione all’aperto nel Moab Coffee sulla main street do uno sguardo veloce alle informazioni del road-book attinenti Arches, raccolte all’epoca da Wikipedia, e soprattutto alla mappa del parco.
Il parco è geologicamente un letto salino sotterraneo depositato più di 300 milioni di anni fa quando un mare sommerse la regione e probabilmente evaporò. L’instabilità del sale sotto pressione è il responsabile della formazione di archi, spirali, rocce in equilibrio, pinne di arenaria e monoliti erosi. Le profonde fratture nella terra resero la superficie ancora più instabile, portando alla formazione di faglie che hanno contribuito allo sviluppo degli archi. L’erosione è il secondo elemento che ha modellato le rocce più giovani come le formazioni dell’Entrada Sandstone dal colore salmone la cui arenaria costituisce la maggior parte degli archi, e la Navajo Sandstone dal colore giallo pallido. Altri elementi come acqua, ghiaccio e vento hanno fatto si che si determinassero muri di pinne di arenaria che aggrediti poi da agenti atmosferici furono erosi e si frantumarono lasciando esposte solo le rocce più resistenti che diventarono archi.
Arches è il parco tra i più conosciuti dello Utah, è ampio solo 305 km² ma contiene la più grande concentrazione al mondo di archi naturali di pietra arenaria: sono più di 2.000 e fra questi spicca il bellissimo Delicate Arch, raffigurato anche sulle targhe dello stato. A parte gli archi, il parco possiede un'incredibile varietà di altre formazioni geologiche: pinne colossali di arenaria, rocce massicce in equilibrio impossibile su torri di arenaria, pinnacoli svettanti e guglie nane che possono essere osservati da punti panoramici o esplorati per mezzo di sentieri.
Come accaduto a Bryce Canyon, anche qui gli eventi naturali come pioggia, neve, ghiaccio, vento e le notevoli escursioni termiche, hanno modellato per anni, tutto il paesaggio, differenziando gli archi con dimensioni di un metro, il minimo per essere considerato un arco, a Landscape Arch, l'arco più lungo, che misura ben 96 metri da una base all'altra. Dal 1970, 43 archi sono crollati per l'erosione, l'ultimo il Wall Arch nel 2008.
La strada asfaltata che attraversa il parco mi darà la possibilità di vedere molto già solo dall'automobile, anche se approfittando di alcuni sentieri di trekking potrò vedere da molto vicino gli archi più noti. Il mio road book tiene conto di una tabella abbastanza dettagliata relativa alle piste, alla lunghezza, al tempo necessario per percorrerle, alle difficoltà presenti e alla denominazione degli archi che si incontrano sul percorso.

Il programma di ieri pomeriggio prevedeva di alloggiare a Moab, di dedicare il resto del tempo, tre ore circa, all’escursione a Delicate Arch, riservando tutti gli altri impegni esplorativi alla giornata odierna. La pioggia, purtroppo, aveva intralciato i miei piani.
Pertanto, ho deciso di passare tutta la giornata nel parco, dedicando la mattinata al Devils Garden Loop, sentiero lungo e difficile della durata di almeno quattro ore. Nel pomeriggio, percorrendo a ritroso la strada panoramica, cercherò di vedere tutto quanto mi è possibile, con il preciso intento, però, di non eludere il trail per raggiungere il famoso Delicate Arch.

Mi avvio entusiasticamente verso l’ingresso del parco situato a soli sette chilometri da Moab e appena fuori della cittadina transito sul fiume Colorado che scorre tranquillo fra pareti rocciose. Poco dopo, una deviazione sulla US-191 mi conduce al casello. Il Visitor Center, poco oltre, è un basso palazzetto di mattoni di arenaria, ben inserito nell’ambiente circostante di alti dirupi rocciosi della medesima colorazione che sembrano proteggere questa piccola valle sottostante.

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Parcheggio la macchina ed entro più per curiosità, cercando di non perdere molto tempo. I ranger sono tutti pronti ad esaudire qualsiasi esigenza del visitatore in un ambiente organizzato a dovere, perfettamente fruibile per tutto ciò che attiene la formazione geologica del parco, mostre interattive, chioschi didattici, un auditorium da 150 posti e una libreria con guide, mappe, DVD, cartoline e molto altro.
Posseggo già la mappa, tutte le altre informazioni necessarie per effettuare le escursioni e perentoriamente mi avvio per percorrere la Arches Scenic Drive che termina, dopo una trentina di chilometri, a Devils Garden Trailhead, il luogo dove inizia la pista da trekking che passa vicino agli archi di roccia più importanti.

continua...

 
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