19 - seguito USA Coast to Coast and Park to Park
4ª Tappa /2 - ANTELOPE CANYON - GRAND CANYON COLORADO - 230 km
In due ore, Antelope mi ha regalato molto e non rinuncio a fare due passi in uno storico villaggio navajo – non so se allestito a fini turistici – nel quale le capanne abitative denominate hogan, sono la peculiarità predominante.
Poi, riparto baldanzoso per andare ad osservare dall’alto di un burrone vertiginoso Horseshoe Bend, un’ansa strettissima a ferro di cavallo, disegnata dal fiume Colorado nel vano tentativo di abbattere uno sperone roccioso.
Per raggiungere il sito metto in funzione il mio navigatore satellitare che però, stranamente, sbaglia il percorso di avvicinamento a Horseshoe. Comunque, il luogo viene subito individuato da una grossa P bianca dipinta su una mesa alla sinistra, mentre subito a destra c’è l’accesso al parcheggio, visibile dalla strada. E’ già affollato di molte autovetture, enormi roulotte e bus turistici, mentre una sorta di processione percorre uno sterrato sabbioso per superare una collinetta dalla quale si accede, suppongo, all’orlo del precipizio. So che il tratto è lungo più di un chilometro e mezzo.
Parcheggio, inizio l’ascesa ….ma a dopo pochi minuti mi arrendo: a più di 38°, sotto il sole cocente, raggiungere il balcone panoramico è impossibile e non ho neanche un po’ d’acqua con me!
Capita raramente ma capita: appena termino di fare qualcosa di magnifico devo “pagare dazio”.
Primo inghippo e a malincuore rinuncio a Horseshoe Bend, ma a volte, come ho sempre sostenuto, bisogna cercare di evitare le insidie che possono pregiudicare il seguito del viaggio.
A questo punto posso solo guadagnare tempo cercando di raggiungere il Grand Canyon Colorado, oltre 200 chilometri più a sud…ma non ho fatto i conti con una interruzione sulla statale 89, mal segnalata, che mi ha tratto in inganno.
Secondo inghippo: più di 50 chilometri inutili, quindi, per aggirare l’interruzione attraverso una strada secondaria nella riserva navajo, con inevitabile perdita di tempo prezioso.
Percorro 120 chilometri di deserto pietroso con rara presenza di insediamenti che assomigliano più a baracche che a abitazioni.
Rocce e mesa più o meno elevate sono le attrattive più rilevanti, almeno fin quando raggiungo il raccordo con la 89, dopo il giro forzato. Nell’incrocio c’è soltanto un distributore di benzina e un Trading Post, con varia mercanzia, nel quale cerco di reperire qualcosa da mangiare che, peraltro, non soddisfa i miei gusti.
Riprendo la strada ed è sempre deserto cespuglioso da una parte e colline di arenaria dall’altra fino a quando trovo una coda per lavori in corso, per ripristino del manto stradale, che viene snellita velocemente, nonostante la mole di lavoro sia rilevante. Poco oltre trovo un’indicazione per la cittadina di Tuba City che dista solo quindici chilometri. Non sono tanti per andare a cercare lì un Subway, mangiare qualcosa e tornare a riprendere la US-89. Giunto in città trovo subito quello che mi serve e anche un’officina meccanica per cercare di togliere la sabbia infilatasi nelle scarpe, soffiandoci aria compressa. Da noi sarebbe un’operazione facile ma per adoperare il compressore bisogna inserire in una macchinetta, simile a quella per le bevande, una moneta da un quarto di dollaro… che non ho.
Chiedo assistenza a un dipendente dell’officina, facendogli intendere che non devo gonfiare i pneumatici dell’auto ma solo dare una pulita alle scarpe. Lo vedo sarcasticamente sorpreso, ma in ogni caso mi allunga un tubo d’aria compressa e così, finalmente, riesco a ripulire la sabbia, molta, che si era accumulata nei miei mocassini.
Riparto verso il Gran Canyon in pieno deserto, piatto senza un minimo di vegetazione, almeno fino a quando, dopo trenta chilometri, superando il fiume Little Colorado, giungo a Cameron. Più che un paese, è un trading post attrezzato con un grande negozio di souvenir di ogni genere, un albergo, una stazione di polizia, un ufficio postale e un camping.
Niente di straordinario, quindi, ma in posizione strategica, per i turisti che visiteranno il Grand Canyon. Peraltro, la sensazione che si respira è quella di esser giunti in un’oasi del deserto, perché nei pressi dell’albergo c’è parecchia ombra sotto gli alberi e acqua da bere da una fontanella.
E’ quello che mi abbisogna e val bene una prolungata sosta rilassante e cercare di mettere qualcosa sotto i denti.
Nel grande esercizio commerciale, dove mi reco per dare un’occhiata, quasi tutti i turisti sono intenti a comprare, mentre le mogli al seguito si dilettano e si trastullano con gli articoli di gioielleria di fattura navajo dal costo rilevante.
Riprendo a viaggiare e pochi chilometri oltre Cameron svolto sulla statale AZ-64. All’orizzonte si cominciano a vedere i contrafforti del Grand Canyon e, in apposite banchine strategiche, compaiono i baracchini degli indiani navajo per la vendita di souvenir.
Il cielo è coperto da nuvole alte e stratificate: all’orizzonte non lontano scrosci di pioggia e qualche fulmine non promettono e niente di buono per il mio soggiorno al Parco.
Tuttavia, appena abbandono il deserto, almeno si comincia a salire di quota e il paesaggio cambia perché la vegetazione prendere forma con alberi e verdi radure.
Finalmente, dopo cinquanta chilometri da Cameron, raggiungo il cippo del Grand Canyon e nonostante una pioggerella fastidiosa, riesco a farmi scattare una foto da un turista lì presente, ricambiando la cortesia. Poco oltre, al casello del parco passo la tessera al ranger di servizio che me la restituisce assieme alle immancabili mappe.
Il mio road book, con gli appunti presi da Wikipedia, annota che il Grand Canyon è un'immensa gola creata dal fiume Colorado.
È lungo 446 km circa, profondo fino a 1.857 metri e con una larghezza variabile dai 500 metri ai 29 chilometri. Quasi due miliardi di anni della storia della Terra sono emersi alla luce grazie all'azione del fiume Colorado e dei suoi affluenti in milioni di anni hanno eroso le rocce strato dopo strato, unita al sollevamento del Colorado Plateau.
Il primo europeo a vedere il Grand Canyon fu lo spagnolo García López de Cárdenas, che nel 1540 partì dal Nuovo Messico alla ricerca del misterioso fiume di cui parlavano gli indiani Hopi. La prima spedizione scientifica del canyon, verso la fine del 1870, fu guidata da J.W. Powell che descrisse le rocce sedimentarie esposte come "pagine di un grande libro di storia".
Il primo punto panoramico di osservazione che incontro è Desert View ma le condizioni meteo sono pessime per via di una foschia tale che rende il paesaggio assolutamente deludente. Seguendo la strada del parco infilo in sequenza tutti gli altri punti scenografici e, nonostante la mia frenesia esplorativa, la delusione è ancor più cocente nella grande balconata di Navajo Point: si riesce a intuire vagamente l’immensità del Grand Canyon e il Colorado che vi scorre dentro.
Qualcosa cambia a Lipan Point e Grand View Point dove le condizioni del cielo sono migliorate ma non è il massimo che potessi attendermi.
Più che fotografare, meglio raggiungere il Visitor Center, evitando di far sosta per ora a Yaky Point, uno dei più belli della zona e al quale sono molto interessato.
Le indicazioni sono perfette e così posso lasciare la macchina nell’esteso parcheggio del Centro dove mi sto recando per ottenere alcune informazioni di cui ho bisogno.
La zona antistante il complesso è tutta coperta da tettoie di legno sotto le quali molti pannelli informano sulla geologia, sui percorsi da seguire, sulle infrastrutture del Grand Canyon Village, sugli orari e sui percorsi delle navette, sulla situazione meteorologica locale e altre necessità.
Tutto bello e ineccepibile ma, di contro…il Visitor Center ha chiuso i battenti alle cinque di pomeriggio, un quarto d’ora prima del mio arrivo.
Un'altra delusione che si somma a quelle precedenti!
E’ il terzo intralcio che proprio non ci voleva e mi sa che produrrà inconvenienti notevoli ai miei programmi.
Sono molto contrariato, devo trovare una sistemazione per la notte e non mi va di andarla a cercare nella grande area del cosiddetto “Villaggio” attraverso un percorso intricato di almeno dieci chilometri. Per di più, per poter dormire in hotel o in una delle casette dei Lodge disponibili è necessaria la prenotazione. Devo anche cercare di cenare per placare le ire della mia pancia che al solito brontola per fame e quindi l’unica soluzione resta quella di recarmi al paese di Tuyasan, vicino all’entrata sud del parco e lontana un quarto d’ora di viaggio. Gli appunti del road book dicono che lì ci sarebbe la possibilità di pernottare al 7Mile Lodge, al prezzo di 75 dollari per notte, ma stranamente l’albergo non accetta prenotazioni.
Giunto in paese, avverto che la località, dotata di tutte le infrastrutture per rendere piacevole il soggiorno dei visitatori del Grand Canyon, abbonda di turisti e non potrebbe essere diversamente perché siamo alla fine di luglio e in procinto del fine settimana.
Quando in seguito raggiungo l’albergo, un cartello affisso fuori dell’ingresso mi fa inviperire:
“NO VANCANCY”, cioè …esaurito”. Se questo è già pieno, figuriamoci gli altri!
Ennesima contrarietà che mi spinge a tentare almeno di cenare con risultati pessimi perché in un primo ristorante dove mi affaccio c’è una ressa di persone in attesa di prender posto. L’alternativa è appoggiarmi all’onnipresente McDonald’s, ma in ogni caso lo evito.
Torno mestamente nel parco e vado “in perlustrazione” con la macchina, cercando una soluzione ai miei problemi. Transito da Market Plaza dove sono disponibili tutti i servizi essenziali: il camping, l’albergo, la banca, telefoni, ufficio postale, negozi, emporio e quant’altro. Vado avanti passando sul retro della Stazione Ferroviaria del Grand Canyon, quella che permette ai turisti di arrivare in treno da Flagstaff, lontana 80 chilometri a sud del Parco e poi seguo le indicazioni per il Bachcontry Information e gli alloggi del Maswik Lodge.
In questa struttura funziona una grande tavola calda self service, una pizzeria e quindi devo subito approfittare degli alimenti disponibili. Le pietanze sono internazionali, c’è anche la pasta ma non mi fido molto. Preferisco prendere una bistecca che, a mia insaputa, il cuoco ha già irrorato con una crema gialla che già a vederla mi toglie l’appetito. Comunque, dopo aver tolto questo ingrediente giallastro che gli americani amano come condimento saporito, mi sazio un poco e approfitto della coca cola, sempre disponibile in quantità illimitata, da spillare dall’apposita macchinetta.
E’ già sera inoltrata quando termino la cena e adesso per dormire dovrei andare in campeggio. Purtroppo, con la stanchezza che mi ritrovo addosso, non mi va proprio di tirar fuori la tenda e sistemarla peraltro sul terreno umido di pioggia.
Questa volta, sperando che la sistemazione non sia proprio scomoda, propendo per dormire in macchia stanotte, nel grande parcheggio del Visitor Center e domani si vedrà.
Prima di prender sonno, medito malinconicamente su quanto accaduto e sui miei desideri offuscati.
Penso che la mia permanenza al Gran Canyon avrebbe dovuto essere pianificata con maggiore attenzione e la variabile “meteorologica” sopraggiunta ha sovvertito notevolmente i miei piani.
L’amarezza stenta a placarsi perché, a onor del vero, non sono venuto al Gran Canyon solo per ammirare la vastità di questa meraviglia della natura e della sua lontanissima storia geologica. Non sono venuto solo per conoscere la storia ancestrale di questo luogo abitato dai nativi Hualapai, Havasupai, Zuni, Paiute e Navajo. Non sono venuto nel Parco solo per percorrere i bellissimi sentieri del sud rim e per fotografare il canyon dall’alto degli spettacolari punti panoramici.
Sono venuto, principalmente, con l’ambizione di realizzare l’escursione perfetta della mia avventura: scendere giù nelle profondità del Gran Canyon, percorrendo tutte le sue ere geologiche, per giungere alla acque del fiume Colorado che lo hanno plasmato. Poi tornare su ed essere felice di aver concluso un’esperienza bellissima e fuori dal comune.
Oggi pomeriggio, al Centro Visitatori avrei potuto ottenere la conferma di per poter scendere al Colorado percorrendo il South Kaibab Trail - 11 km - e poi tornare su dal Bright Angel Trial - 13 km - possibilmente nella stessa giornata.
Non lo nego a me stesso, ma la discesa al fiume Colorado è un’impresa difficile, non priva di rischi, ma fattibile e ammessa dai Rangers del Parco, adottando le necessarie precauzioni. Nel mio road book avevo ampiamente preso nota di ciò che serviva e avevo tutto l’equipaggiamento necessario.
Tuttavia, devo prendere atto che pur essendo fisicamente preparato mi manca la componente essenziale, quella mentale. Per dirla tutta, aleggia in me una sorta di paura: quella che ti frena mentre cerchi di superarla facendo leva sulla tua incoscienza e il nemico più subdolo in questo pericoloso trekking è la disidratazione. Domani sono attese temperature superiori a 39 gradi.
Nella vita non si può avere tutto. Come mi sono comportato in altri frangenti sfavorevoli, maggiormente questa volta per una questione di prudenza, “obtorto collo”, mi sa che devo rinunciare al mio trekking affascinante e… tirare innanzi!
Sorry…Colorado River!
continua...
4ª Tappa /2 - ANTELOPE CANYON - GRAND CANYON COLORADO - 230 km
In due ore, Antelope mi ha regalato molto e non rinuncio a fare due passi in uno storico villaggio navajo – non so se allestito a fini turistici – nel quale le capanne abitative denominate hogan, sono la peculiarità predominante.
Poi, riparto baldanzoso per andare ad osservare dall’alto di un burrone vertiginoso Horseshoe Bend, un’ansa strettissima a ferro di cavallo, disegnata dal fiume Colorado nel vano tentativo di abbattere uno sperone roccioso.
Per raggiungere il sito metto in funzione il mio navigatore satellitare che però, stranamente, sbaglia il percorso di avvicinamento a Horseshoe. Comunque, il luogo viene subito individuato da una grossa P bianca dipinta su una mesa alla sinistra, mentre subito a destra c’è l’accesso al parcheggio, visibile dalla strada. E’ già affollato di molte autovetture, enormi roulotte e bus turistici, mentre una sorta di processione percorre uno sterrato sabbioso per superare una collinetta dalla quale si accede, suppongo, all’orlo del precipizio. So che il tratto è lungo più di un chilometro e mezzo.
Parcheggio, inizio l’ascesa ….ma a dopo pochi minuti mi arrendo: a più di 38°, sotto il sole cocente, raggiungere il balcone panoramico è impossibile e non ho neanche un po’ d’acqua con me!
Capita raramente ma capita: appena termino di fare qualcosa di magnifico devo “pagare dazio”.
Primo inghippo e a malincuore rinuncio a Horseshoe Bend, ma a volte, come ho sempre sostenuto, bisogna cercare di evitare le insidie che possono pregiudicare il seguito del viaggio.
A questo punto posso solo guadagnare tempo cercando di raggiungere il Grand Canyon Colorado, oltre 200 chilometri più a sud…ma non ho fatto i conti con una interruzione sulla statale 89, mal segnalata, che mi ha tratto in inganno.
Secondo inghippo: più di 50 chilometri inutili, quindi, per aggirare l’interruzione attraverso una strada secondaria nella riserva navajo, con inevitabile perdita di tempo prezioso.
Percorro 120 chilometri di deserto pietroso con rara presenza di insediamenti che assomigliano più a baracche che a abitazioni.
Rocce e mesa più o meno elevate sono le attrattive più rilevanti, almeno fin quando raggiungo il raccordo con la 89, dopo il giro forzato. Nell’incrocio c’è soltanto un distributore di benzina e un Trading Post, con varia mercanzia, nel quale cerco di reperire qualcosa da mangiare che, peraltro, non soddisfa i miei gusti.
Riprendo la strada ed è sempre deserto cespuglioso da una parte e colline di arenaria dall’altra fino a quando trovo una coda per lavori in corso, per ripristino del manto stradale, che viene snellita velocemente, nonostante la mole di lavoro sia rilevante. Poco oltre trovo un’indicazione per la cittadina di Tuba City che dista solo quindici chilometri. Non sono tanti per andare a cercare lì un Subway, mangiare qualcosa e tornare a riprendere la US-89. Giunto in città trovo subito quello che mi serve e anche un’officina meccanica per cercare di togliere la sabbia infilatasi nelle scarpe, soffiandoci aria compressa. Da noi sarebbe un’operazione facile ma per adoperare il compressore bisogna inserire in una macchinetta, simile a quella per le bevande, una moneta da un quarto di dollaro… che non ho.
Chiedo assistenza a un dipendente dell’officina, facendogli intendere che non devo gonfiare i pneumatici dell’auto ma solo dare una pulita alle scarpe. Lo vedo sarcasticamente sorpreso, ma in ogni caso mi allunga un tubo d’aria compressa e così, finalmente, riesco a ripulire la sabbia, molta, che si era accumulata nei miei mocassini.
Riparto verso il Gran Canyon in pieno deserto, piatto senza un minimo di vegetazione, almeno fino a quando, dopo trenta chilometri, superando il fiume Little Colorado, giungo a Cameron. Più che un paese, è un trading post attrezzato con un grande negozio di souvenir di ogni genere, un albergo, una stazione di polizia, un ufficio postale e un camping.
Niente di straordinario, quindi, ma in posizione strategica, per i turisti che visiteranno il Grand Canyon. Peraltro, la sensazione che si respira è quella di esser giunti in un’oasi del deserto, perché nei pressi dell’albergo c’è parecchia ombra sotto gli alberi e acqua da bere da una fontanella.
E’ quello che mi abbisogna e val bene una prolungata sosta rilassante e cercare di mettere qualcosa sotto i denti.
Nel grande esercizio commerciale, dove mi reco per dare un’occhiata, quasi tutti i turisti sono intenti a comprare, mentre le mogli al seguito si dilettano e si trastullano con gli articoli di gioielleria di fattura navajo dal costo rilevante.
Riprendo a viaggiare e pochi chilometri oltre Cameron svolto sulla statale AZ-64. All’orizzonte si cominciano a vedere i contrafforti del Grand Canyon e, in apposite banchine strategiche, compaiono i baracchini degli indiani navajo per la vendita di souvenir.
Il cielo è coperto da nuvole alte e stratificate: all’orizzonte non lontano scrosci di pioggia e qualche fulmine non promettono e niente di buono per il mio soggiorno al Parco.
Tuttavia, appena abbandono il deserto, almeno si comincia a salire di quota e il paesaggio cambia perché la vegetazione prendere forma con alberi e verdi radure.
Finalmente, dopo cinquanta chilometri da Cameron, raggiungo il cippo del Grand Canyon e nonostante una pioggerella fastidiosa, riesco a farmi scattare una foto da un turista lì presente, ricambiando la cortesia. Poco oltre, al casello del parco passo la tessera al ranger di servizio che me la restituisce assieme alle immancabili mappe.
Il mio road book, con gli appunti presi da Wikipedia, annota che il Grand Canyon è un'immensa gola creata dal fiume Colorado.
È lungo 446 km circa, profondo fino a 1.857 metri e con una larghezza variabile dai 500 metri ai 29 chilometri. Quasi due miliardi di anni della storia della Terra sono emersi alla luce grazie all'azione del fiume Colorado e dei suoi affluenti in milioni di anni hanno eroso le rocce strato dopo strato, unita al sollevamento del Colorado Plateau.
Il primo europeo a vedere il Grand Canyon fu lo spagnolo García López de Cárdenas, che nel 1540 partì dal Nuovo Messico alla ricerca del misterioso fiume di cui parlavano gli indiani Hopi. La prima spedizione scientifica del canyon, verso la fine del 1870, fu guidata da J.W. Powell che descrisse le rocce sedimentarie esposte come "pagine di un grande libro di storia".
Il primo punto panoramico di osservazione che incontro è Desert View ma le condizioni meteo sono pessime per via di una foschia tale che rende il paesaggio assolutamente deludente. Seguendo la strada del parco infilo in sequenza tutti gli altri punti scenografici e, nonostante la mia frenesia esplorativa, la delusione è ancor più cocente nella grande balconata di Navajo Point: si riesce a intuire vagamente l’immensità del Grand Canyon e il Colorado che vi scorre dentro.
Qualcosa cambia a Lipan Point e Grand View Point dove le condizioni del cielo sono migliorate ma non è il massimo che potessi attendermi.
Più che fotografare, meglio raggiungere il Visitor Center, evitando di far sosta per ora a Yaky Point, uno dei più belli della zona e al quale sono molto interessato.
Le indicazioni sono perfette e così posso lasciare la macchina nell’esteso parcheggio del Centro dove mi sto recando per ottenere alcune informazioni di cui ho bisogno.
La zona antistante il complesso è tutta coperta da tettoie di legno sotto le quali molti pannelli informano sulla geologia, sui percorsi da seguire, sulle infrastrutture del Grand Canyon Village, sugli orari e sui percorsi delle navette, sulla situazione meteorologica locale e altre necessità.
Tutto bello e ineccepibile ma, di contro…il Visitor Center ha chiuso i battenti alle cinque di pomeriggio, un quarto d’ora prima del mio arrivo.
Un'altra delusione che si somma a quelle precedenti!
E’ il terzo intralcio che proprio non ci voleva e mi sa che produrrà inconvenienti notevoli ai miei programmi.
Sono molto contrariato, devo trovare una sistemazione per la notte e non mi va di andarla a cercare nella grande area del cosiddetto “Villaggio” attraverso un percorso intricato di almeno dieci chilometri. Per di più, per poter dormire in hotel o in una delle casette dei Lodge disponibili è necessaria la prenotazione. Devo anche cercare di cenare per placare le ire della mia pancia che al solito brontola per fame e quindi l’unica soluzione resta quella di recarmi al paese di Tuyasan, vicino all’entrata sud del parco e lontana un quarto d’ora di viaggio. Gli appunti del road book dicono che lì ci sarebbe la possibilità di pernottare al 7Mile Lodge, al prezzo di 75 dollari per notte, ma stranamente l’albergo non accetta prenotazioni.
Giunto in paese, avverto che la località, dotata di tutte le infrastrutture per rendere piacevole il soggiorno dei visitatori del Grand Canyon, abbonda di turisti e non potrebbe essere diversamente perché siamo alla fine di luglio e in procinto del fine settimana.
Quando in seguito raggiungo l’albergo, un cartello affisso fuori dell’ingresso mi fa inviperire:
“NO VANCANCY”, cioè …esaurito”. Se questo è già pieno, figuriamoci gli altri!
Ennesima contrarietà che mi spinge a tentare almeno di cenare con risultati pessimi perché in un primo ristorante dove mi affaccio c’è una ressa di persone in attesa di prender posto. L’alternativa è appoggiarmi all’onnipresente McDonald’s, ma in ogni caso lo evito.
Torno mestamente nel parco e vado “in perlustrazione” con la macchina, cercando una soluzione ai miei problemi. Transito da Market Plaza dove sono disponibili tutti i servizi essenziali: il camping, l’albergo, la banca, telefoni, ufficio postale, negozi, emporio e quant’altro. Vado avanti passando sul retro della Stazione Ferroviaria del Grand Canyon, quella che permette ai turisti di arrivare in treno da Flagstaff, lontana 80 chilometri a sud del Parco e poi seguo le indicazioni per il Bachcontry Information e gli alloggi del Maswik Lodge.
In questa struttura funziona una grande tavola calda self service, una pizzeria e quindi devo subito approfittare degli alimenti disponibili. Le pietanze sono internazionali, c’è anche la pasta ma non mi fido molto. Preferisco prendere una bistecca che, a mia insaputa, il cuoco ha già irrorato con una crema gialla che già a vederla mi toglie l’appetito. Comunque, dopo aver tolto questo ingrediente giallastro che gli americani amano come condimento saporito, mi sazio un poco e approfitto della coca cola, sempre disponibile in quantità illimitata, da spillare dall’apposita macchinetta.
E’ già sera inoltrata quando termino la cena e adesso per dormire dovrei andare in campeggio. Purtroppo, con la stanchezza che mi ritrovo addosso, non mi va proprio di tirar fuori la tenda e sistemarla peraltro sul terreno umido di pioggia.
Questa volta, sperando che la sistemazione non sia proprio scomoda, propendo per dormire in macchia stanotte, nel grande parcheggio del Visitor Center e domani si vedrà.
Prima di prender sonno, medito malinconicamente su quanto accaduto e sui miei desideri offuscati.
Penso che la mia permanenza al Gran Canyon avrebbe dovuto essere pianificata con maggiore attenzione e la variabile “meteorologica” sopraggiunta ha sovvertito notevolmente i miei piani.
L’amarezza stenta a placarsi perché, a onor del vero, non sono venuto al Gran Canyon solo per ammirare la vastità di questa meraviglia della natura e della sua lontanissima storia geologica. Non sono venuto solo per conoscere la storia ancestrale di questo luogo abitato dai nativi Hualapai, Havasupai, Zuni, Paiute e Navajo. Non sono venuto nel Parco solo per percorrere i bellissimi sentieri del sud rim e per fotografare il canyon dall’alto degli spettacolari punti panoramici.
Sono venuto, principalmente, con l’ambizione di realizzare l’escursione perfetta della mia avventura: scendere giù nelle profondità del Gran Canyon, percorrendo tutte le sue ere geologiche, per giungere alla acque del fiume Colorado che lo hanno plasmato. Poi tornare su ed essere felice di aver concluso un’esperienza bellissima e fuori dal comune.
Oggi pomeriggio, al Centro Visitatori avrei potuto ottenere la conferma di per poter scendere al Colorado percorrendo il South Kaibab Trail - 11 km - e poi tornare su dal Bright Angel Trial - 13 km - possibilmente nella stessa giornata.
Non lo nego a me stesso, ma la discesa al fiume Colorado è un’impresa difficile, non priva di rischi, ma fattibile e ammessa dai Rangers del Parco, adottando le necessarie precauzioni. Nel mio road book avevo ampiamente preso nota di ciò che serviva e avevo tutto l’equipaggiamento necessario.
Tuttavia, devo prendere atto che pur essendo fisicamente preparato mi manca la componente essenziale, quella mentale. Per dirla tutta, aleggia in me una sorta di paura: quella che ti frena mentre cerchi di superarla facendo leva sulla tua incoscienza e il nemico più subdolo in questo pericoloso trekking è la disidratazione. Domani sono attese temperature superiori a 39 gradi.
Nella vita non si può avere tutto. Come mi sono comportato in altri frangenti sfavorevoli, maggiormente questa volta per una questione di prudenza, “obtorto collo”, mi sa che devo rinunciare al mio trekking affascinante e… tirare innanzi!
Sorry…Colorado River!