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My USA on the Road...and more.

34 - seguito USA Coast to Coast and Park to Park

11ª Tappa - GRAND TETON - YELLOWSTONE - 220 km

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Alle sette di mattina sono già in piedi. Dal pontile della Marina di Colter Bay lo spettacolo del Grand Teton e delle montagne che gli fanno compagnia è entusiasmante.
Le altissime cime ancora innevate, illuminate dalla luce radente del mattino, sembrano quasi toccare un cielo limpido e sgombro di nuvole.​
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E’ un ottimo preludio per questa giornata importante nel mio programma di viaggio perchè sto andando alla scoperta di un luogo unico al mondo: Yellowstone e i suoi geyser spettacolari.
Nel Wyoming nord occidentale potrò assistere a uno scenario meraviglioso, talmente particolare che i primi che lo videro e lo descrissero vennero considerati “pazzi”.
Infatti, nel 1807, separandosi dalla spedizione di Lewis e Clark, il trapper John Cold, con suo immenso stupore si imbatté, per caso, in un immenso territorio vaporoso che descrisse in seguito come una terra fatta di fuoco e zolfo che letteralmente bolliva. Un’affermazione talmente delirante che gli valse l’allontanamento dall’esercito. Però, appena dieci anni dopo, le strane storie di Cold furono confermate perchè coloro che facevano parte della prima spedizione ufficiale dovettero ammettere di trovarsi in un territorio talmente unico e sorprendente che valse per Yellowstone l’istituzione del primo Parco Nazionale degli Stati Uniti
Yellowstone ha più sorgenti calde e pozze di fango di qualsiasi altra parte del pianeta. Tutta l’area è disseminata di più di 10.000 pozze termali e più di 300 geyser che rappresentano i due terzi del totale di quelli dell’intero globo. L’origine di tali fenomeni risiede nelle profondità del parco di Yellowstone che, di fatto, è una caldera attiva, grande più o meno quanto la nostra Basilicata, pronta a esplodere in qualsiasi momento dando luogo ad un cataclisma di proporzioni immani con ripercussioni mondiali.
Il calore sprigionato dal materiale lavico, che si trova nelle profondità del suolo e che fa bollire l’acqua delle sorgenti che scorrono fra le rocce, permette al liquido di innalzarsi di molto al di fuori del terreno sotto forma di vapore, fenomeno noto con il nome di geyser.
Non da meno, sulla superficie dell’enorme caldera del parco di Yellowstone bollono innumerevoli fumarole e pozze gorgoglianti di acqua e roccia fusa che ammorbano l’aria con esalazioni di gas nauseabondi.
Questo Parco, dove neanche le rigide temperature invernali riescono a scalfire il fuoco perenne che si cela sotto terra, è nondimeno l’habitat di bisonti, alci, orsi, coiote e numerose altre specie di animali che vivono in un ambiente selvaggio, incontaminato, nel quale sono presenti anche laghetti, torrenti, cascate, foreste, il lago Yellowstone Lake, quattro volte più esteso del Jackson Lake, e il Gran Canyon nel quale scorre lo Yellowstone River.

Purtroppo, la difficoltà della mia visita a Yellowstone risiede sulla vastità del suo territorio e sulla impossibilità di trattenermi più del tempo disponibile che gli ho riservato. Non potrò vedere molto ma almeno qualche pozza spettacolare e il suo famosissimo geyser Old Faithful certamente sì.
In sostanza, potrò soltanto attraversarlo entrando da sud e piegare poi verso l’uscita a est in direzione di Cody.

Parto sulla statale 191 alla scoperta di quel paradiso selvaggio e dopo aver attraversato per trenta chilometri una foresta di pini e abeti, sono davanti ad un grande cippo che segna l’ingresso allo Yellowstone National Park, quasi accanto a un gruppo di motociclisti che attraverso il parco andranno sicuramente a Sturgis.

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A Yellowstone, come per coloro che nello Yosemite Park vanno a vedere la sequoia gigante General Sherman, la massima attrazione per tutti, ma proprio per tutti, è Old Faithful, il geyser per eccellenza di tutto il parco. A quel geyser spettacolare sono diretto anch’io, primo impegno del programma odierno che prevede, inoltre, di effettuare una sorta di percorso a guisa di “otto” sulla Grand Loop Road perché tocca tutti i posti più importanti e interessanti per un visitatore.
Il Parco è grande, grandissimo, e le opportunità di sosta, sia pure per fare qualche fotografia, sono veramente infinite. Necessariamente, non senza rammarico, evito di inoltrarmi nel bacino dei geyser West Thumb, puntando subito verso il complesso turistico del Visitor Center e Old Faithful.

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Sessanta chilometri percorsi non sono pochi da quando sono entrato ufficialmente dal casello sud ma finalmente giungo nel grandissimo parcheggio del Visitor Center dal quale si accede direttamente all’area di Old Faithful .
I pennacchi vaporosi si notano quasi dappertutto e senza entrare nel centro mi dirigo verso il geyser la cui estesa area di pertinenza assomiglia a un grande campo di gioco, quasi perfettamente circolare, reso accessibile per mezzo di un percorso pedonale.
Questa eccentrica attrazione di Yellowstone è nota con l’appellativo o nomignolo “il vecchio fedele” a ragione del suo geyser che erutta a intervalli precisi, al pari di un orologio svizzero.

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Old Faithful è simile a una collinetta conica e tondeggiante del diametro di circa duecento metri e ha un colore biancastro dovuto ai depositi di calcare a seguito dell’eruzione di acqua bollente. Al centro c’è la stretta bocca del geyser e nel momento in cui arrivo sbuffano e si levano nuvole di vapore alte qualche metro. Più lontano, nei dintorni, altri segni di vapore si levano qua e là silenziosi, mostrando comunque un’attività ribollente e perenne del magma nelle profondità del terreno.

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Ci sono molti turisti ma non so se attendano una prossima eruzione. Per sincerarmi penso che sia meglio chiedere informazioni nel Centro Visitatori e appena entro trovo subito e in modo sorprendente la risposta al mio interrogativo perchè un grande cartellone evidenzia l’ora, pressoché esatta, del prossimo getto di vapore: 11:15, 10 minuti più o 10 minuti meno.
Mi tocca quindi attendere parecchio, avendo perso mezz’ora fa quella precedente.

Comunque, Yellowstone non è certamente un parco dove ci si può annoiare, sia pure per qualche momento e quindi, nell’attesa, faccio almeno un giro di ispezione nel Centro Visite dove parrebbe necessario trattenersi almeno un paio d’ore per guardare tutte le mostre sulle caratteristiche idrotermali, sull’ecosistema di questi ambienti estremi, sul vulcano sotto Yellowstone e sulle ricerche scientifiche in corso in questo laboratorio vivente tra i più grandi sulla Terra.
I rangers presenti sono sempre lieti di collaborare e offrire tutte le informazioni di cui il turista abbia bisogno e non lesinano consigli sulla migliore fruizione del Parco. Non tralasciano di rammentare l’osservanza di alcune regole fondamentali che riguardano soprattutto la distanza di sicurezza da rispettare quando si incontrano gli animali (orsi, lupi, bisonti) e di rimenare nei percorsi stabiliti quando si va per escursioni nelle aree idrotermali.
Dopo questo primo doveroso sopralluogo mi reco al di là di Old Faithful, sulla Geyser Hill dove passerelle di legno, sapientemente predisposte dal servizio del parco, permettono di osservare ciò che accade intorno e sotto di noi, camminando senza paura…di “scottarsi”.

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A me sembra di procedere in un “inferno dantesco” perché, ovunque guardo, pozze d’acqua bollente e gorgogliante dappertutto si confondono con pennacchi di vapore che si levano dal terreno le cui rocce, a volte, assumono una colorazione giallastra dovuta alla presenza di zolfo che scivola liquido. Tutta la zona è pervasa da gas sulfurei che producono il classico odore di uova marce.
Qui l’acqua è perfino più acida dell’elettrolito delle batterie dell’auto e talmente corrosiva da trasformare le rocce circostanti in fango liquido. Di geyser ce ne sono tanti, dai nomi più strani, sparsi un pò ovunque e fra loro scorre il fiume Firehole rendendo il paesaggio altamente spettacolare, drammatico e vivo allo stesso tempo.

continua...​
 
seguito YELLOWSTONE N.P.

Conto di andare a vedere almeno i geyser e le pozze di acqua bollente fra i più importanti, ma ora è tempo di tornare a dare un’occhiata a ciò che accade a Old Faithful.
Migliaia di persone si sono assiepate intorno alla collinetta, pronte con macchine fotografiche e videocamere a immortalare lo spettacolo imminente. Allo stesso modo di spettatori di una partita di calcio importante che attendono il fischio d’inizio per dare sfogo alla loro passione sportiva, tutti attendono l’esibizione straordinaria del “vecchio fedele”.​
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E’ quasi giunta l’ora indicata sul cartellone del Visitor Center e anch’io sono in fibrillazione per l’evento che con precisione singolare alza il sipario e da inizio allo show.
Sono le 11 e 20 e un gorgoglio di acqua bollente alta quasi un metro si leva lentamente ma costantemente dalla bocca eruttiva e, man mano che il tempo passa, l’altezza del ribollimento assume proporzioni e quote sempre maggiori.
Poi, in men che non si dica, una considerevole esclamazione di stupore accomuna tutto il pubblico perché “il vecchio fedele”, fra nuvole di vapore, spara un getto di acqua bollente di almeno 120 gradi centigradi che sale ininterrottamente fino alla rilevante altezza di oltre 40 metri. Questo spettacolo continua per almeno un minuto fino a quando l’eruzione pian piano si acquieta, producendo solo bizzarri e spossati sbuffi di vapore.​

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Allo stesso modo per un goal segnato in una partita di calcio, sale spontaneo dagli spettatori uno scosciante applauso di gradimento che dura quasi quanto l’eruzione. In ogni caso, per quanti avessero perso quest’occasione spettacolare, Old Faithful, concederà il bis fra meno di un’ora e mezzo… con la consueta puntualità!

E’ tangibile la percezione di trovarsi sopra una grande pentola pressione pronta ad esplodere in qualsiasi momento e la caldera di questo supervulcano ha misure impressionanti e estremamente pericolose: 55 km di larghezza per 72 km di estensione!
Lo spettacolo straordinario del “vecchio fedele” ha ottenuto il suo alto indice di gradimento e per me, guardando la mappa del Parco, sarebbe molto semplice camminare sulle passerelle del’area nord e lungo il fiume Firehole River per andare ad apprezzare altri geyser e pozze bollenti di tutto rispetto.
Tuttavia, poiché si tratterebbe di percorrere a piedi non meno di cinque chilometri, senza mettere in conto il fatto di dover tornare indietro per riprendere l’auto dal parcheggio del Centro Visitatori, temo che “la passeggiata” non può avere successo.
Manca il tempo e a mie spese ho imparato che per visitare i parchi americani vige una regola essenziale: “soggiornare”.
Comunque, non tutto è perso perché l’area di Old Faithful è solo una piccola porzione dell’estensione di Yellowstone e fortunatamente c’è anche la strada panoramica che lo attraversa e mi facilita il proseguimento della visita.
La strada panoramica, dopo appena cinque chilometri di percorso in una bellissima vallata attorniata da alture boschive, fumarole e collinette di bianco calcare, affianca e incrocia ora il Firehole River e proprio qui trovo l’indicazione turistica per Biscuit Basin.
Il successivo incrocio mi fa giungere in un esteso parcheggio già gremito di molte automobili e autobus turistici dai quali, di continuo, sbarcano persone delle più disparate nazionalità che si accingono a visitare la coloratissima pozza termale di Sapphire Pool e altre minori, ugualmente accattivanti.

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Dal parcheggio, una lunghissima passerella di legno, protetta ad ambo i lati da staccionate, mi fa camminare a non più di mezzo metro di altezza su ampi rivoli di acqua calda che scivola su rocce levigate che hanno assunto diverse colorazioni, dal rossastro al giallastro. Queste acque si riversano nel placido torrente Firehole, reso tiepido, nel quale molti turisti immergono le proprie gambe, quasi fossero in una piscina termale.
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Delle quattro vasche termali presenti nel bacino, Sapphire Pool è la sorgente più vicina alla passerella e si fa ammirare per il colore turchese eccezionale e la limpidezza dell’acqua, originatasi dalla presenza di milioni di microorganismi. E’ una piscina bellissima, fantastica e talmente ammaliante da indurre chiunque ad immergersi: il risvolto della medaglia è …bollire a più di 150 gradi!
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Nuvole di vapore si levano dappertutto in questo capolavoro della natura, scenario apocalittico, drammatico, ma allo stesso tempo affascinante, reso ancor più spettacolare se potessi apprezzarlo dall’alto della collina dell’esteso bosco di abeti che fa da cornice all’intero bacino. Senza tener conto che lassù c’è anche la bellissima cascata Mistic Fall …che mi perdonerà se non posso andare ad ammirarla per mancanza di tempo.
La comodissima scenic Grand Loop Road segue lo scorrere del sinuoso Firehole River e la prossima fermata, consigliata dal mio road book e dalla mappa, è Grand Prismatic Spring, immancabile anteprima dell’estesissimo Bacino Superiore di Yellowstone…e sono arrivato appena a metà del Parco.
Per giungere al parcheggio devo fare una sorta di percorso antiorario e una volta sul posto noto che la capienza dei posti disponibili è estesa quanto e forse di più rispetto a quella di Old Faithful. Un comodissimo e grande ponte di legno scavalca il torrente Firehole mentre la consueta comoda passerella conduce fino ai bordi del Grand Prismatic Spring la più grande e profonda sorgente d’acqua calda di tutto il parco di Yellowstone.
La principale caratteristica è la gamma di colori bellissimi, forse quelli più belli che abbia visto fino ad ora. Sono simili alla scala cromatica di un arcobaleno con il giallo e poi l’arancione cupo che circondano la grande piscina dove l’acqua di colore azzurro nel centro scaturisce a 150 gradi dal sottosuolo.
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I consueti micro organismi che si sviluppano solo a temperature elevate sono i protagonisti di questo scenario artistico. Moltiplicandosi lungo il bordo della sorgente d’acqua, producono i pigmenti colorati: blu, dove la temperatura è altissima e scale cromatiche di verde, di giallo, di arancio man mano che la temperatura diminuisce approssimandosi ai bordi della sorgente.
A farle compagnia in questo scenario di raccapricciante bellezza e vapore, altre passerelle conducono ad ammirare altre pozze spettacolari e simili: Turquoise Pool, turchese come unico colore; Opal Pool, colore opalino circoscritto dall’arancio; Excelsior Geyser Crater, una grande piscina celeste immersa in un vero e proprio cratere di basse pareti ammantate di calcare.

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Non c’è assolutamente modo di annoiarsi e il contatto quasi fisico con queste pozze meravigliose è ciò che fa di Yellowstone un territorio che nessuno immagina di poter ammirare e apprezzare così da vicino.
Tuttavia, se qualcuno pensasse che sia finita, deve assolutamente ricredersi perchè il Parco, fin’ora, ha mostrato solo una parte minima delle sue “beautiful attractions”.
Certo, non posso fermarmi ogni dieci minuti e spendere almeno un’ora di tempo per ciascuno dei siti interessanti – con questo non voglio pensare che non ne valga la pena - ma il Parco è grande, troppo grande per poterlo visitare in una giornata e mezza.
Tuttavia, desidero andare a vedere Norris Geyser e le spettacolari terrazze calcaree di Mammoth Hot Spring, ben cinquanta chilometri più avanti, tenuto conto che sono situate al limite nord del Parco.

continua...​
 
Deve essere stato davvero uno spettacolo vedere l'incredibile varietà di gaiser e "piscine" dislocate in quell'area del parco.
Durante l'attraversamento dello Yellowstone sei riuscito a vedere qualche esemplare di fauna come bisonti, alci o cervi?
 
Deve essere stato davvero uno spettacolo vedere l'incredibile varietà di gaiser e "piscine" dislocate in quell'area del parco.
Durante l'attraversamento dello Yellowstone sei riuscito a vedere qualche esemplare di fauna come bisonti, alci o cervi?
Il Parco è troppo vasto per poterlo esplorare degnamente nella tappa del mio viaggio. Tuttavia, va bene anche così perchè è stata una "calorosa"esperiza.
Per la seconda questione ti accontento quasi subito "giada50".
 
seguito YELLOWSTONE N.P. /2

Cercando di non perder tempo fermandomi ogni dieci minuti per vedere altre pozze e geyser interessanti (con questo non voglio dire che non ne valga la pena, ma il Parco è grande, troppo grande per poterlo visitare in una giornata), punto decisamente verso la meta ma, giunto al bivio per l’area di Norris Geyser …sorpresa: la strada è chiusa e quindi non posso neanche proseguire per Mammoth Hot Spring.
I tempi sono diventati alquanto stretti ma, se fossi stato a conoscenza della interruzione, avrei fatto meglio a vedere altri posti prima di arrivare al bivio.
Per inciso le terrazze calcaree sono simili a quelle che ho già viste tempo fa a Pamukkale in Turchia e quindi non penso di perdere molto in termini scenografici.
A questo punto reputo che la soluzione migliore sia quella di proseguire verso il Grand Canyon di Yellowstone, l’ennesimo gioiello del Parco.
Solo cinque chilometri sulla scenic road e passo su una deviazione che, su una strada abbastanza stretta, a senso unico e senza protezioni dalla scarpata, mi conduce a vedere la bellissima Virginia Cascade, originata da Gibbon River che qui precipita dall’altezza di più di venti metri.

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Dopo altri dieci chilometri sono a Canyon Village ma proseguo ancora per una strada secondaria che passa a ridosso del canyon con la possibilità di vederlo da più punti panoramici.
Alla prima area di parcheggio mi fermo e vado a piedi al Grand View Point, ideale per scattare fotografie e dove, con grande stupore, posso ammirare la grande e straordinaria spaccatura a forma di “V” del Grand Canyon di Yellowstone che si distende a perdita d’occhio e dello Yellowstone River che gettandosi con cascate altrettanto spettacolari precipita nel il fondo del canyon continuando la sua corsa impetuosa.

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Un chilometro di strada in macchina e subito c’è un'altra area di sosta, ben più grande della precedente. Un breve percorso pedonale conduce in discesa al punto di osservazione di una balconata, situata in una posizione strategica e strepitosa, dalla quale si può ammirare uno degli straordinari salti di cascata del fiume Yellowstone.

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E’ un’emozione e uno spettacolo bellissimo, tanto che mi pare quasi di toccare l’acqua verde smeraldo del fiume che con forza inaudita scorre vertiginosamente, si tuffa poi fragorosamente nel precipizio del canyon e si allontana tumultuosa nella profonda voragine.

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Il Parco non finisce mai di stupire e non basterebbero neanche due giorni per esplorare soltanto alcune delle meraviglie del canyon e del suo fiume. Purtroppo ho visto solo una minima parte – molto minima – dei richiami spettacolari con i quali questo immenso territorio può deliziare il visitatore, ma almeno gli scenari affascinanti e fantasmagorici ammirati finora rimarranno indelebili nella memoria del mio mini tour di Yellowstone.

Sono già le sei e trenta di pomeriggio e devo trovare posto per pernottare. La mia tabella di marcia di oggi prevedeva di raggiungere in serata la cittadina di Cody.
Devo rammentare a me stesso che il tour di Yellowstone non può essere assimilato a una gara di velocità, una sorta di mordi e fuggi delle attrattive di cui dispone ma, al contrario, deve essere assaporato con lentezza, quella tipica del viaggiatore attento.
Pertanto, devo fare autocritica sui tempi programmati che non sono stati ben impostati e, oltretutto, la città che devo raggiungere dista più 150 chilometri dal punto in cui mi trovo.
Devo fere sosta per cenare, passare la notte e far colazione domani mattina; la località più abbordabile, 25 chilometri lontana, è Fishing Bridge sull’esteso Yellowstone Lake.

Lasciando l’area del Grand Canyon, la strada panoramica transita accanto al fiume Yellowstone facendomi attraversare la bellissima Hayden Valley, ricca di praterie e regno incontrastato della fauna selvatica.
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Infatti, poiché alla fine della giornata normalmente gli animali si spostano in cerca di cibo, incomincio a vedere in lontananza qualche orso che vaga fra l’erba alta e qualche bisonte solitario.

Dopo aver percorso una decina di chilometri in questo paesaggio mi sorprende la circostanza che sulla strada, più avanti, si è formata una lunghissima coda di automobili. Non ne conosco il motivo ma, poiché non mi va di stare fermo in fila, approfitto di una banchina per fermarmi e attendere. Uscendo dalla macchina e dando uno sguardo in lontananza, mi accorgo che la coda è causata dall’attraversamento sulla strada di una mandria di bisonti e tutti sono fermi per assistere a quell’evento, molto frequente prima del tramonto.
Pur guardando da lontano questa transumanza, attendo in macchina che la strada si liberi e approfitto per scrivere qualche cartolina da spedire e qualche pagina di diario riferita alla giornata odierna che non è ancora terminata e che forse riserva altre sorprese.
Nel frattempo, impegnato a scrivere per un tempo imprecisato, la coda di macchine si è esaurita e la strada più avanti è libera. Appena mi accingo a mettere in moto e fare manovra, vedo dallo specchietto retrovisore che dietro di me c’è un’automobile i cui passeggeri stanno osservando alla propria destra qualcosa degna di attenzione.
Volgo lo sguardo anch’io e vedo che un grosso bisonte attraversa la strada e incede verso il parcheggio. Passa a meno di due metri dal muso della mia Ford e si allontana pacificamente nella prateria, disinteressandosi dei nostri sguardi colmi di incredulità.​
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Tuttavia, appena riparto sono ripagato dalla presenza di un altro bisonte solitario impegnato a “far colazione”. Fermo la macchina e con tutta la circospezione possibile mi avvicino tantissimo per riprenderlo, sperando di non disturbarlo nella sua attività.​

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L’intermezzo è stato a dir poco sorprendente e molto spettacolare ma, pochi chilometri oltre, il Parco mi stupisce ancora vicino ad una grande area di parcheggio già affollata di turisti. Il sito è denominato Mud Vulcano ma tutti si recano principalmente a vedere Dragon’s Mounth Spring.

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Un’ottima passerella conduce non lontano ad ammirare questa ennesima manifestazione della caldera di Yellowstone. Infatti, alla base di una collinetta si apre un antro scuro e spaventoso dal quale scaturiscono, similmente alla bocca di un dragone, alti sbuffi di bianco vapore.

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Si avverte e si sente, a causa dell’esplosione dei gas e similmente al ringhio di un animale fantastico, il respiro affannoso del ventre della terra come qualcosa di vivo che sale dal magma delle profondità nel quale è imprigionato.
A tratti, ma costantemente, si verifica l’espulsione; per dirla tutta si tratta di vero e proprio “vomito” di acqua e fango in ebollizione in un contesto assolutamente inquietante, tanto da indurre una sensazione di vera paura a chiunque osservi questa scena.
Guardando questa orrida manifestazione di potenza, riesco a percepire e prefigurare solo minimamente quale catastrofe potrebbe generare su gran parte del territorio americano – e non solo - la caldera del vulcano che cova dinamicamente sotto Yellowstone.
Time out come dicono gli americani.
Sono quasi le otto di sera quando termina questa eccellente, ricca e eccitante giornata e i pochi chilometri di strada che mi rimangono sono solo quelli da percorrere per andare a cenare e pernottare a Fishing Bridge, sull’immenso Yellowstone Lake.

continua...
 
35 - seguito USA Coast to Coast and Park to Park

12ª Tappa - YELLOWSTONE - CODY – MEDICINE WHEEL - Dayton - 390 km

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Notte tranquilla a Fishing Bridge al contrario del movimentato programma odierno, incentrato a raggiungere due mete molto particolari: Cody, la città di Buffalo Bill e poi quella esclusiva di Medicine Wheel, luogo sacro per gli indiani.

Appena superato il ponte sullo Yellowstone River, non avendo come conforto il navigatore e omesso di dare un’occhiata alle carte stradali, al primo bivio scelgo tutt’altra direzione rispetto a quella che avrei dovuto prendere.
Accortomi dell’errore perché vedevo sfilare il lago Yellowstone alla mia sinistra, rimedio subito tornando a Fishing Bridge per proseguire diritto verso l’uscita est del Parco e poi sulla US-14 verso Cody.
Per una ventina di chilometri la strada segue la riva del lago, con le consuete fumarole di acqua calda, ma poi punta decisamente verso l’entrata est del parco, per me l’uscita. C’è la possibilità di salire su un punto panoramico per vedere il lago Yellowstone in tutta la sua estensione, ma declino a causa del cielo molto nuvoloso e piovigginoso.

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Questa zona est del Parco non è molto attraente e devo percorrere almeno una quindicina di chilometri per vedere qualcosa di interessante: il lago Sylvan Lake adagiato fra bassi rilievi e il più piccolo Eleanor Lake.
Di seguito, il paesaggio non è attraente almeno fino a quando, uscendo dal casello, un cippo di pietra ben visibile mi avverte che sono in procinto di attraversare la Shoshone National Forest.

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Ampie curve assecondano il fiume Shoshone ed altri torrenti che allietano un paesaggio bellissimo fitto di prati, foreste e possibilità di effettuare soste in pieno relax nei campeggi, nelle aree picnic e nei ranch, a ragione della vicina foresta e dei monti che hanno picchi di oltre 2.800 metri.

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Tuttavia, a causa della pioggerella che continua a cadere, il paesaggio perde molto ma sono maggiormente attratto da un gruppetto di motociclisti incurante delle intemperie mi sorpassa in tutta scioltezza verso Sturgis, meta ancora lontana, dove oggi inizia il famoso raduno motociclistico.

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Più o meno settanta chilometri mi fanno approdare in una pianura dove tutto parla di una figura leggendaria del vecchio west: Buffalo Bill.

continua...


 
seguito (non so perchè ma adesso mi il sito mi permette di inserire solo cinque immagini per volta)

Il Buffalo Bill State Park si presenta con una grande riserva d’acqua e una diga che portano lo stesso nome mentre il solito cartello color marrone invita i turisti a fermarsi nel Visitor Center, opportunamente disposto proprio sullo sbarramento del fiume Shoshone. Val bene una sosta per sincerarmi su questo sito storico il cui ingresso è libero. Per di più, dal grande parcheggio dove lascio la macchina, parte una piccola navetta che evita di far percorrere ai visitatori soltanto qualche centinaio di metri, conducendoli proprio sulla diga.

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La Buffalo Bill Dam con i suoi 99 metri di altezza era la diga di cemento più alta del mondo quando fu completata nel 1910, un vero monumento nazionale di ingegneria civile e propagandata come un trionfo americano.
Nel Centro Visitatori ci sonori tavole progettuali e macchinari originali dell’epoca, fotografie storiche e tavole esplicative. Quindi, si può ottenere una chiara informazione sulle motivazioni della costruzione della diga, la chiave per irrigare una vasta area semidesertica del Wyoming per trasformarla in terreni agricoli produttivi. Tra gli ideatori, investitori e ingegneri che nel 1890 fondarono la Shoshone Land and Irrigation Company e la città di Cody c’era anche William Cody , alias "Buffalo Bill".​
Uscendo dal Centro mi sposto proprio sulla curvatura della passerella di osservazione: lo spettacolo della diga è impressionante, per l’altezza considerevole e per lo stretto canyon fra le cui pareti è stata edificata e nel cui fondo scorre lo Shoshone River.

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Soltanto una decina di chilometri mi separano da Cody, la città fondata da Buffalo Bill, e dopo aver attraversato una serie di gallerie scavate in una delle pareti dello Shoshone Canyon giungo in un posto che meriterebbe sicuramente una sosta appropriata se avessi maggior tempo disponibile: Cody Stampede, ovvero, l’arena con cinquemila posti dove ogni giorno si svolge il Rodeo che ha contribuito fortemente a identificare la città come “la capitale mondiale del Rodeo”.
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Poco oltre, attira la mia attenzione un grande cartellone pubblicitario che invita a visitare un’autentica città di frontiera del vecchio West: Old Trail Town.
Seguo l’indicazione e trovo più in là, in stile “gost town”, la rappresentazione per antonomasia di un paese di frontiera, molto avvincente da un punto di vista storico e di stile di vita del vecchio West. Le informazioni recitano che si tratta in realtà di una rara collezione di reperti autentici provenienti da località remote del Wyoming e del Montana e che gli edifici storici presenti sono stati accuratamente smontati, spostati e rimontati in questo sito.
Tra innumerevoli carri da trasporto vecchi di almeno centocinquanta anni e vecchie diligenze, muovo i miei passi sull’ipotetica “main stret” che tagliava perpendicolarmente qualsiasi cittadina del vecchio west, avendo alla mia destra e alla mia sinistra baracche, casette di legno e altri edifici assolutamente originali identificati con opportune didascalie.​

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In particolare, desta meraviglia “la scuola” arredata con banchi, sedie e altre suppellettili tipiche di quell’ambiente istruttivo. Poi, il River Saloon, il più antico del Wyoming, frequentato da cowboy, fuorilegge e minatori della corsa all’oro.
Chiaramente segnalata, fra le cosiddette cabin, c’è quella in cui la banda di Butch Cassidy e Sundance Kid si nascose per pianificare la rapina ad una banca di una città vicina.
Chissà poi dove sia stata trovata e posizionata qui una delle canoe appartenute alla spedizione di Lewis e Clark nella loro ricerca del mitico passaggio a Nord-Ovest.

Tempo meteorologico pessimo ma finalmente il cippo mi segnala che sono giunto nella città che porta il nome del famosissimo cacciatore dei “poveri bisonti”: Cody.

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seguito 12ª Tappa /2

Appena entrato in città, qualche chilometro oltre, impiego il mio tempo per visitare il Buffalo Bill Museum, nei pressi della strada statale.
Davanti all’ingresso principale c’è la statua bronzea ad altezza naturale di Buffalo Bill, in posizione fiera e con fucile Winchester alla mano.​

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Una volta entrato, il museo si rivela come una struttura grande e moderna composta da cinque esposizioni in una che raccontano in sostanza la vita dei nativi e la loro arte; poi una grande e importante collezione di armi americane e europee risalenti al XVI secolo, quadri e stampe originali e infine una sezione che racconta la vita di William Cody e cimeli legati alla sua esistenza.
In città mi attende però un altro interessante e autentico luogo storico: Irma Hotel.

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Parcheggio proprio sotto l’edificio, progettato e fatto edificare da Buffalo Bill come un hotel di lusso. L’intento era quello di attrarre visitatori da tutto il mondo, di presentarlo come luogo di sosta per turisti diretti a Yellowstone, di cacciatori e di uomini d'affari che investivano in allevamento, estrazione mineraria e altre opportunità commerciali.
L’Hotel aprì i battenti nel 1902. Cody gli diede il nome di sua figlia e tenne a disposizione personale due suite e un ufficio. All’epoca, era probabilmente l'americano più famoso del mondo anche a ragione del suo Buffalo Bill's Wild West lo show che portò in giro negli Stati Uniti e in Europa per 30 anni.
L’Irma Hotel è un albergo a due piani le cui pareti esterne sono costituite da rocce di fiume e arenaria e si trova nell’angolo di un quadrivio verso il quale è rivolto l’ingresso principale. Sul secondo piano esterno, al di sopra della veranda e della suite privata di Buffalo Bill, c’è una grande testa di bufalo scolpita nell’arenaria, proprio sotto l’insegna “IRMA” Un bel portico coperto offre ampio spazio per sedersi e guardare la gente di passaggio, come un tempo facevano anche i proprietari dell’hotel.
Tuttavia, non è che sia cambiato molto da allora perchè, allo stesso modo, sotto il porticato di legno stazionano parecchi motociclisti intenti a parlottare e a scolare lattine di birra (non bottiglie di vetro, perchè all’aperto è vietato).
A questo punto mi pare giusto entrare per dare uno sguardo sia pur fugace a questo albergo famosissimo e subito l’emozione di un salto indietro nel tempo è tangibile. L’eleganza che tanto piaceva alla gente ricca è più che evidente nell’ampio salone della Silver Saddle Lounge, gloriosa sala da pranzo che The Irma presentava come biglietto da visita.

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Un bellissimo bar in legno di ciliegio intagliato a mano, donato a Buffalo Bill dalla regina Vittoria nel 1900, in segno di apprezzamento per la sua esibizione al Wild West Show, è ancora al suo posto d'onore, dietro il bancone della sala da pranzo.
Sulle pareti sono esposti molti quadri con fotografie d’epoca e non mancano certo quelle di Irma e di Cody con la sua tenuta abituale: giacca di pelle sfrangiata, cappello a larghe tese, stivaloni oltre il ginocchio e l’immancabile fucile Winchester che gli fa compagnia.
Molte teste di animali impagliati come bisonti, cervi e pecore bighorn sono appese un pò ovunque, mentre le corna ramificate degli alci sostituiscono i bracci dei lampadari. In una grande teca, chiusa da una cancellata di ferro, posso anche apprezzare una splendida sella da spettacolo appartenuta a Buffalo Bill. Immancabile poi l’annesso Wild West Emporium, negozio fornitissimo di abbigliamento western, articoli da regalo e souvenir in grado di rammentare un tempo lontano nel quale il West selvaggio veniva scoperto e soggiogato.

Sono circa le tre e mezzo di pomeriggio, il cielo è completamente coperto e a tratti pioviggina. Sono molto indeciso se pernottare a Cody oppure proseguire per la prossima meta, non una città ma un luogo sacro per gli indiani: Medicine Wheel, 130 chilometri lontana.
Mi ci vorranno almeno due ore e poi dovrò cercare un posto nelle vicinanze dove cenare e pernottare. Adottando questa soluzione di certo avrò guadagnato tempo prezioso, tenuto conto che pernottare a Cody è molto caro: a Irma ci vogliono ben 180 dollari, il Super 8 chiede 170, mentre Sunrise Motor Inn è il più abbordabile a 120 dollari. Potrei sistemarmi anche nel campeggio Ponderosa ma con questa situazione meteorologica piantarvi la tenda non mi sembra il caso.
Allora decido di proseguire e dopo quattro isolati trovo un incrocio con la direzione da prendere: US-14 East.
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continua...
 
ragazzi che goduria di post! me lo sto gustando foto per foto, parola per parola, davvero un sacco di grazie per aver condiviso così tanta roba!
 
Grazie "massimilianob", il mio intento è proprio quello di "condividere" le mie avventure e ne ho ancora una di scorta. Purtroppo il numero delle foto da postare sarà minore perchè ora il sito ne accoglie solo cinque.
Ancora grazie. Ciao.
 
seguito 12ª Tappa /3

MEDICINE WHEEL

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Puntando a est, attraverso tutta la piatta ed estesa vallata del fiume Bighorn e solo dopo quaranta chilometri giungo nella cittadina di Powell di scarso rilievo paesaggistico ma, un tempo, insediamento primario per coloni e operai che si dedicavano alla costruzione della diga sullo Shoshone. A seguire, altri cinquanta chilometri di strada piatta e rettilinea, dove ho notato solo qualche fattoria e un allevamento di cavalli mustang, mi portano a transitare sull’esteso Bighorn Lake.

Davanti a me, quasi a sbarrare l’incedere, si levano i possenti monti della Bighorn National Forest che dovrò superare per passare dalla parte opposta.

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Non appena la strada comincia a salire la pendenza si fa sempre più consistente e molti ampi tornati si susseguono attraverso colline brulle che non allietano per nulla la traversata, tranne una banchina che permette una veduta panoramica a perdita d’occhio sulla valle dalla quale provengo.

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Poi finalmente, dopo una ventina di chilometri dall’inizio dell’ascesa, trovo ben segnalata la strada che conduce all’altura di Medicine Wheel, ovvero, “La Ruota della Medicina”, un luogo sacro per i nativi americani e, nello stesso tempo, un sito storico, archeologico e…misterioso.

A sinistra della statale, una strada sterrata di cinque chilometri mi conduce molto più in alto dove c’è un'area di parcheggio e un paio di piccole casette di legno, chiuse, che dovrebbero essere adibite a Centro Visitatori. E’ tardi e non c’è neanche la presenza del consueto ranger. Comunque, tutte le informazioni necessarie per visitare questo sito sono disponibili su due grandi bacheche illustrate e non manca la tabella del Landmark storico.
Una prima tavola “Medicine Wheel – Sacred Circles” parla dei moltissimi cerchi di pietra, simili a quello che vedrò, che sono disseminati nelle pianure del Nord America e sulle Montagne Rocciose. Più di un centinaio sono note con il nome di “Ruota della Medicina” e quella del Bighorn è probabilmente la più importante e sacra per gli indiani Arapaho, Bannock, Blackfeet, Cheyenne, Crow, Lakota Sioux, Cree, Shoshone e altri popoli tribali.
La “ruota sulla collina” del Bighorn è formata da pietre calcaree disposte a formare un cerchio di circa ottanta metri di diametro con ventotto linee o raggi che si irradiano dal centro verso il bordo. Nessuno sa chi e perché sia stata creata e gli indiani Crow sostengono che quando si insediarono per la prima volta in questo territorio “la Ruota” era già presente.
Tuttavia, i ricercatori ritengono che il manufatto di pietra sia stato realizzato in un periodo compreso fra 1.500 e 500 anni fa.
La finalità della “Ruota” è illustrata in questo modo da un leader culturale Cheyenne:
"Tradizionalmente, le tribù andavano e continuano ad andare sulla montagna sacra per pregare. Molte tribù native usano ancora la Ruota della Medicina nel Wyoming per ottenere visioni, fare offerte di preghiera, digiunare, condurre la cerimonia della Danza del Sole e cercare il rinnovamento spirituale e la guarigione”.

Alcuni sostengono che “la ruota”, sia un luogo di importanza astrologica, perché i raggi indicano stelle specifiche in determinati periodi dell'anno. Infine, su questa prima tavola informativa sono riportati i seguenti insegnamenti di Black Elk (Corna d’alce), capo dei Lakota Sioux:
Tutto ciò che il Potere del Mondo fa è un cerchio. Il cielo è rotondo. La terra è rotonda come una palla, e così sono tutte le stelle. Il vento con la sua forza genera vortici. Gli uccelli fanno i loro nidi in cerchio. La Luna è anch’essa rotonda. Anche le stagioni formano un grande cerchio nel loro mutamento e poi tutto ritorna come prima. La vita di un uomo è un circolo che va dall'infanzia all’infanzia successiva ed è così in ogni cosa in cui il potere si muove”.
“Il cerchio è l'essenza della vita dei nativi americani. La Ruota della Medicina lo circonda. È un luogo in cui molti hanno vissuto la loro visione, un luogo di riti, un luogo di preghiera, un luogo dell’ultima visione”.


Nella seconda bacheca si legge testualmente: “L’uomo bianco ha chiamato questo posto Medicine Wheel ma per gli indiani nativi americani questo è “Il posto dove l’Aquila atterra”. Per molte persone, questo è un luogo sacro, e pochi vanno via senza aver vissuto un’esperienza fuori dall’ordinario. E’ forse il luogo di Medicine Wheel che contribuisce tanto potentemente al sentimento, alla sacralità e alla maturità”.
Più sotto c’è la consueta raccomandazione de Servizio nazionale dei Parchi: “Molti circoli come Medicine Wheel hanno una funzione cerimoniale e rivestono un grande significato per il popolo degli Indiani Americani. Questi siti sono protetti dalle leggi federali. Rispetta la legge e le credenze tradizionali dei tuoi concittadini”.

Dalle casette del Centro Visitatori parte un sentiero sterrato di due chilometri in leggera salita, percorribile solo a piedi, che comincio a seguire e che terminerà, ancora più in alto, alla “Ruota”.
E’ piuttosto tardi e fra poco il sito chiuderà. Sono a 2.900 metri di quota, il cielo minaccia pioggia, fa un pò freschetto e quindi devo affrettarmi per poter vedere questo luogo misterioso. Percorrendo il sentiero trovo pozze di neve recente, segno che a queste quote le nevicate, anche in estate, sono un evento non del tutto insolito.
Sono in compagnia di qualche altro visitatore e quando dopo un quarto d’ora di marcia arrivo in cima alla montagna trovo un pianoro spazzato da venti gelidi su cui è stato composto il cerchio sacro.

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Una tavola di “Benvenuto” mi accoglie come visitatore tramite a una frase di Old Mouse, un capo indiano Arikara:
Eventually one gets to the Medicine Wheel to fulfill one's life”.
(Alla fine si arriva alla Ruota della Medicina per appagare la propria vita).

Per delimitare il sito, il cerchio è recintato da tre binari di spesse corde collegate a pali di tronchi d’albero alti circa un metro. L’ingresso al sito vero e proprio è costituito da due semplici tronchi con un architrave e da una tavola di legno sulla quale c’è scritto che “passare oltre” è severamente vietato, salvo per le persone autorizzate. Alle corde, lungo tutto il recinto circolare, quasi a dar segno di vita a questo posto, sono legate un’infinità di strisce di stoffa, sciarpe, fazzoletti e acchiappasogni di ogni colore immaginabile che svolazzano al vento quasi fossero preghiere rivolte al “Grande Spirito”. Inoltre, qualche penna di rapace è stata conficcata, in posizione eretta, fra blocchetti di pietra calcarea.
La Medicine Wheel misura approssimativamente 28 metri di diametro, una circonferenza di circa 75 metri e ha un tumulo centrale di pietre calcaree, a forma di ciambella, dal quale partono 28 raggi di pietre più piccole che si irradiano verso la corona del cerchio. Su questo anello di pietre, simile a una ruota, altri sei tumuli più piccoli si trovano a distanze differenti uno dall'altro; 5 di essi sono periferici alla corona, mentre il sesto dista circa 3 metri dalla linea della corona stessa. Di questi 6 tumuli, 4 si affacciano verso il centro del cerchio, uno si affaccia verso nord ed un altro verso est.
E’ probabile che il sito della Ruota abbia anche una funzione astronomica e serva da punto di riferimento per identificare l'alba del solstizio d'estate. Inoltre, per alcune tribù di nativi, il numero 28 è sacro ed è associato al ciclo lunare.
Più semplicemente, a mio parere e in accordo con quanto afferma sostanzialmente il capo indiano Black Elk nella bacheca del Centro Visitatori, Medicine Wheel è un simbolo di tutta la creazione, di tutte le razze di persone, di uccelli, pesci, animali, alberi e pietre. La forma circolare della Ruota rappresenta la terra, il sole, la luna, i cicli della vita, delle stagioni, dell’intera giornata dal giorno alla notte mentre al centro di tutto, anch’esso di forma circolare, c’è lo “Spirito del Creatore”.

La solitudine regna sovrana su questa montagna, spoglia di alberi e piante, spazzata da freddi venti impetuosi, dal gelo e dalle nevicate anche estive. Resta comunque il fatto che, in qualche modo, proprio questa forma di isolamento e di pace estrema induce chiunque, me compreso, a vedere questo luogo con rispetto. Mi rammarico solo per le condizioni meteorologiche e l’ora tarda non appropriate perchè, altrimenti, potrei contemplare da questa cima il paesaggio magnifico dei picchi delle Bighorn Mountains, la vastità della vallata del fiume Bighorn e sognare le visioni.

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Medicine Wheel mi piace rappresentarla come un luogo quasi segreto, un luogo umilmente straordinario e, senza dubbio, un luogo fortemente ascetico e misterioso!

Sono già oltre le sei di un pomeriggio uggioso quando incomincio a scendere facilmente attraverso il sentiero sterrato. Ma ecco che inizia a piovigginare e, ancora una volta, devo affrettarmi per non andare incontro ad una vera e propria pioggia che mi inzupperebbe senza possibilità di scampo.
Riprendo la macchina e continuo a salire di quota viaggiando sulla statale 14, almeno fino a quando, a quota di 2600 sullo spartiacque delle montagne della Bighorn Forest, la strada incomincia a scendere nella valle opposta. Solo dopo una trentina di chilometri di un viaggio solitario trovo un complesso turistico pedemontano immerso in un’abetaia e abbastanza affollato di automobili, visto che c’è anche una pompa di benzina. Oltre questo punto, sulla statale c’è un’alternarsi di foreste di abeti, costeggio un lago e poi trovo una grande banchina panoramica che guarda la strada serpeggiare nella vallata di Sheridan verso un orizzonte piatto e sconfinato. Quando giungo in quella vallata, guardando dallo specchietto retrovisore, le montagne che ho appena valicato sembrano alquanto minacciose con questo tempo abbastanza inaffidabile.

Partendo da Cody ho percorso più di 250 chilometri, sono le otto e trenta di sera, è già quasi buio e il primo paese che incontro è Dayton, molto piccolo e anonimo. In men che non si dica lo attraverso quasi tutto, cercando una sistemazione notturna che non mi è parso di vedere e giusto per sgranchirmi un pò, avendo notato una panchina sotto una baracca con l’insegna “gelateria”, mi fermo qui per fare il punto della situazione.
A quest’ora è tutto chiuso, il prossimo paese è a soli dieci chilometri di distanza ma sono sicuro che anche lì troverò la medesima situazione. Non so che pesci prendere. Ad ogni modo, mi rimetto in marcia e, fortunatamente, dopo appena cento metri, proprio al termine del paese trovo un Motel con un campeggio annesso dove c’è anche la possibilità di mettere in pancia qualcosa.
Mi ci ficco immediatamente, risolvendo così una situazione che stava prendendo una piega non proprio favorevole.
Il proprietario della struttura mi accoglie quasi con stupore, considerato che sono le nove di sera, e mi assegna un’abitazione essenziale ma abbastanza ampia.
E’ quanto mi basta per passarvi tranquillamente la notte e…sognare le visioni!

continua...
 
13ª Tappa – Dayton - LITTLE BIGHORN – Belle Fourche - 430 km

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Alzi la mano chi non ha mai sentito parlare del Generale Custer, del 7° Cavalleria, di Toro Seduto, di Cavallo Pazzo e di… Little Bighorn.
La mia destinazione odierna è proprio il luogo dove si svolse la famosa e cruenta battaglia dei Sioux e Cheyenne contro le “giubbe blu” degli Stati Uniti.
Dopo la lunga e faticosa giornata di ieri, il riposo notturno mi ha alleviato notevolmente; recandomi a far colazione incontro un motociclista che ha dormito nel motel e da una breve conversazione capisco che è diretto al raduno di Sturgis.
Salutato il proprietario del motel/camping, parto subito verso il sito storico nazionale della battaglia di Little Bighorn. Devo percorrere 100 chilometri per arrivarci e dopo averlo visitato dovrò continuare per altri 350, giusto per rispettare la tabella di marcia che ha come ulteriore punto di riferimento per il pernottamento la città di Spearfhish, nel Sud Dakota e poco lontano da Sturgis.

Dieci chilometri di tracciato e transito da Ranchester per prendere il raccordo per la Interstate 90 che mi conduce verso nord. Lo Stato del Montana mi da il “Benvenuto” con l’ormai classico cartellone: nessuna didascalia ma solo cavalli e cawboy. D’ora in poi si tratterà di attraversare le “grandi pianure” centrali degli Stati Uniti e quindi niente più curve ma solo asfalto e rettilinei infiniti.

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Per ottanta chilometri non ho nulla da documentare, almeno fino a una stazione di servizio di carburante che affianca l’autostrada e un museo riferito alla battaglia. Sembra che il luogo sia proprio quello nel quale si trovava uno degli accampamenti indiani lungo Little Bighorn. Mi fermo per fare benzina e riparto subito per la meta che si trova pochi chilometri oltre. Sono già nel territorio della battaglia e sulla mia destra riesco a intravedere il fiume.
La frenesia di arrivare incomincia a prendere piede perchè nella mente si fanno strada le reminiscenze infantili di quando giocavamo a fare gli indiani con archi improvvisati e frecce fatte con stecche tolte da vecchi ombrelli. Per noi gli indiani erano i “cattivi” e le “giubbe blu” erano “i buoni” perchè così ci raccontavano i film western che ogni tanto ci capitava di andare a vedere.
Man mano che crescevamo e imparavamo, tutto cambiava aspetto e mi piace riportare, a proposito dei rapporti di forza fra “uomo bianco e “indiani”, ciò che dice lo scrittore e saggista amicano Dee Brown, nel suo libro “Lungo le rive del Colorado”, che il mio amico “Gatto Rosso” mi aveva cortesemente prestato da leggere, prima che partissi per questa avventura:
“Per comprendere veramente cosa accadde agli indiani delle pianure, un americano bianco dovrebbe immaginare di essere privato improvvisamente del proprio lavoro, di ogni mezzo di trasporto, negozio alimentare, materiale da costruzione, vestiti e lasciato completamente in balia di un’orda di conquistatori stranieri che si abbattono su di lui costringendolo ad abbandonare la sua religione, le sue abitudini e la sua lingua, mentre gli viene imposto ossessivamente che appartiene a una razza inferiore e che tutto ciò che per lui ha un significato è comunque inferiore a ciò che ha significato per chi lo domina.”

Sull’autostrada, l’uscita per Little Bighorn Battlefield è perfettamente segnalata e non è difficile notare su un’altura anche la presenza di quattro tende indiane colorate. Proseguo per il Visitor Center e appena varcata la postazione dei rangers c’è sulla destra un grande cimitero che raccoglie i resti dei soldati caduti in quella battaglia. Di fronte al cimitero, circa 200 metri più avanti, si leva la collina dell’ultimo baluardo difensivo di Custer e dei pochi cavalleggeri del 7° rimasti.
A segnare questo luogo, in memoria degli sconfitti, è stato eretto un monumento commemorativo.

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Da solo, questo scenario infonde un senso di tristezza per sorte di quanti persero la vita: soldati, per vanità del comandante e indiani, per difendere la loro terra e le loro ragioni di vita.

Il Centro Visitatori è al solito accogliete, con un grande scaffale abbastanza fornito di libri che raccontano la battaglia e quadri che mostrano esplicitamente quello che accadde. In una teca di vetro è conservato un bellissimo copricapo indiano da battaglia con penne colorate, un lungo calumet e una cesta di vimini. La targa recita che questi reperti originali sono lì per onorare Lori Piestewa, la prima donna indiana, uccisa nel combattimento, assieme a tutti gli altri nativi deceduti.

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In un’altra teca di vetro posso vedere un manichino di un indiano vestito con un classico abbigliamento da battaglia: copricapo di piume, camicia a quadri rossa, pantaloni di pelle, mocassini e fucile a ripetizione.
Mi soffermo a guardare, più attentamente, un grande pannello diviso in tre riquadri. Al centro compare una grande mappa del territorio americano all’epoca delle guerre indiane del 1876.
Invece, nei riquadri di destra e in quello di sinistra sono riprodotte le fotografie dei principali protagonisti della battaglia di Little Bighorn: Colonnello George Custer, Maggiore Marcus Reno, Capitano Frederick Benteen da una parte; dall’altra i capi tribù Toro Seduto, Cavallo Pazzo, e Chief Gall.

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In altre teche sono mostrate armi e oggetti appartenuti a soldati e indiani rinvenuti sul campo di battaglia, le uniformi di Custer e i suoi oggetti personali.

In un’altra sala, invece, è in corso la proiezione di un filmato di 25 minuti circa la battaglia e vi partecipo fintanto che si concluda.
Il cortometraggio parte dall’antefatto della battaglia, forse la più importante nella guerra tra americani e indiani d’America, svoltasi il 25 giugno 1876 nei pressi del torrente Little Bighorn.
Lo scontro vide una coalizione di Sioux, Cheyenne e Arapaho da una parte e il 7° Cavalleria dall’altra.
Storicamente accertati, questi sono i fatti che mi piace riportare per gli interessati:

Il “casus belli” fu la scoperta da parte dell’uomo bianco di immense quantità d’oro sulle Black Hills (Paha Sapa in lingua Lakota), luogo però sacro, il più sacro per gli indiani delle praterie, in cui riuscivano a comunicare con il Grande Spirito.
Anni prima, nel 1868, il presidente americano Grant firmò un trattato con Nuvola Rossa e Coda Chiazzata (appartenenti alla tribù Sioux Oglala), dichiarando che le Colline Nere sarebbero state per sempre proprietà dei nativi. Però, dopo la scoperta dei giacimenti d’oro, sempre più minatori si introdussero nelle Black Hills e le autorità americane fecero poco o nulla per impedire la caccia all’oro.
Dopo molte proteste da parte dei capi Sioux ai funzionari di Washington, il presidente americano (chiamato Grande Padre dai nativi) decise di stipulare l’ennesimo contratto in cui si chiedeva di vendere le colline per sei milioni di dollari, cifra assai bassa se si pensa che una sola miniera delle Black Hills ne fruttò 500 milioni. L’offerta venne ovviamente rifiutata e questo provocò la reazione degli Stati Uniti che nel 3 dicembre 1875 emanarono un ultimatum che obbligava gli indiani che si trovavano fuori dalle riserve a rientrare entro il 31 Gennaio. In caso contrario, sarebbero stati considerati come indiani ostili. Per il grande freddo di quell’inverno e per l’impossibilità di trasportare anziani e bambini sotto bufere di neve e vento, gli indiani risposero che sarebbero rientrati nelle riserve in primavera.
Questa dichiarazione fu un ottimo pretesto per cominciare a mandare soldati a dar la caccia ad ogni tribù e villaggio di indiani “ostili”. Questi si unirono formando un accampamento enorme, come non si era mai visto, nella valle lungo il Little Bighorn. L’accampamento era composto principalmente da Cheyenne, Sioux, ma anche da Arapaho ed altre tribù, i cui principali capi erano Toro Seduto e Cavallo Pazzo.
La mattina del 25 giugno 1876, il 7° Cavalleria, considerato forse il miglior reparto dell’esercito degli Stati Uniti, comandato dal Colonnello George Amstrong Custer (Capelli Lunghi per gli indiani) decise di attaccare il villaggio di sorpresa, non rendendosi conto che contava circa 1200 tende e 2000 guerrieri, i quali non si aspettavano un attacco, ma non si fecero trovare impreparati. Custer decise di accerchiarli con tre truppe, la sua, quella del capitano Benteen e l’altra del maggiore Reno.
Grazie alle grandi doti di stratega di Cavallo Pazzo e all’aiuto spirituale e autorevole di Toro Seduto che infuse coraggio ai guerrieri, nel giro di due giorni la coalizione indiana annientò le compagnie di Benteen e Reno costringendoli alla fuga, mentre quella di Custer venne completamente sterminata, non facendo prigionieri e uccidendo tutti i soldati, compreso lo stesso Capelli Lunghi.
Per gli indiani fu la più grande vittoria di tutti i tempi contro l’uomo bianco, ma non durò a lungo l’entusiasmo, perchè dall’Est arrivarono sempre più soldati e coloni americani. Con loro giunsero anche le malattie che uccisero più di due terzi della popolazione nativa che dovette arrendersi o trovare rifugio in Canada, come fece Toro Seduto. In quanto a Cavallo Pazzo, una leggenda vivente dalla battaglia di Little Bighorn, nel 1877 si dovette arrendere vedendo che i suoi 900 Oglala erano rimasti senza cibo, senza armi e con i cavalli che stavano morendo di fame.
Fu così che forse il più grande guerriero e capo Sioux, per il bene del suo popolo, smise di combattere gli americani che lo rinchiusero in una riserva senza cavalli e senza armi, ma senza mai averlo sconfitto in battaglia"

continua...
 
seguito LITTLE BIGHORN

I ranger sono sempre prodighi di informazioni e invitano i visitatori che hanno tempo disponibile a vistare il sito seguendo quest’ordine: a piedi fino a “Custer Last Stand” e il “Memorial Iindiano” e poi un tour di 10 km a/r in macchina fino al campo di battaglia Reno-Benteen, con fermate lungo la strada per consultare le 18 tavole interpretative che spiegano i fatti di rilievo.

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Mi avvio alla collina, poco lontana dal Centro Visite, e una volta sul luogo mi reco presso il Monumento commemorativo, alto solo quattro metri, sul quale sono riportati i nomi di tutti i soldati caduti nella sanguinosa battaglia.
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La piccola altura, dove si erano arroccate le ultime risorse di Custer prima di soccombere, degrada dolcemente verso il basso. Sul pendio, recintato da una balaustra, sono posizionati almeno cinquanta marcatori di marmo bianco, con il nome del caduto e segnano il punto esatto del suo ritrovamento. Fra queste lapidi c’è anche quella di Custer che, peraltro, non è sepolto qui ma a West Point.

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Questo luogo mi cagiona una grande commozione allo stesso modo di quando visitai l’anno scorso Wounded Knee, la collina dove furono sepolti uomini, donne e bambini indiani dopo il massacro perpetuato il 29 dicembre 1890 dall’esercito statunitense. Per ironia della sorte, qual’azione ignominiosa fu messa in atto proprio dal 7° Cavalleria, desideroso forse di prendersi una rivincita, vergognosa, sui Lakota Sioux dopo la sconfitta di Little Bighorn.
E’ triste prendere atto, anche qui, quanto dolorose e senza speranza siano tutte le guerre e le battaglie che causano una morte sempre ingiusta su persone che desidererebbero vivere la propria esistenza solo e semplicemente in pace.

Oltre a Custer perirono 267 soldati, abbandonati poi su questa terra che gli indiani chiamano “erba grassa” e solo successivamente furono sepolti da altri commilitoni accorsi dopo la sconfitta.
Gli indiani caduti in battaglia, invece, furono subito recuperati, quasi tutti. A differenza dei marcatori di marmo bianco, quelli degli indiani sono di granito rosso macchiato brunastro e anch'essi posizionati dove perirono i nativi delle tribù Sioux, Cheyenne e Arapaho.
Nelle note del mio roadbook, leggo che del reggimento di Custer l’unico che si salvò fu un italiano: il trombettiere John Martin. (Sala Consilina 1852 – New York 1922)
Il Colonnello lo aveva mandato a cercare il Capitano Benteen per ordinargli di raggiungerlo con le sue truppe, peraltro, già accorse in aiuto del Maggiore Reno e occupate a difendersi dagli indiani.

Dall’altura “Custer Last stand” il mio sguardo spazia lontano nella vallata del fiume Little Bighorn dove erano situati gli accampamenti degli indiani fra boschetti di pioppi che allietano il paesaggio.
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Ma un piccolo rilievo, associato al giovane guerriero Cheyenne Wooden Leg, mi riporta tristemente al tempo dello scontro: è il marcatore del Guerriero Ignoto, un indiano che indossava un copricapo da guerra e del quale proprio Wooden Leg, fu testimone dell’uccisione.














continua...
 
.../... La frenesia di arrivare incomincia a prendere piede perchè nella mente si fanno strada le reminiscenze infantili di quando giocavamo a fare gli indiani con archi improvvisati e frecce fatte con stecche tolte da vecchi ombrelli. Per noi gli indiani erano i “cattivi” e le “giubbe blu” erano “i buoni” perchè così ci raccontavano i film western che ogni tanto ci capitava di andare a vedere..../...


Io andavo controcorrente. Io sono sempre stato dalla parte degli indiani e quando giocavamo volevo sempre fare l'indiano. 😂 Da ragazzo leggevo Tex (ne avevo tutti i numeri ora ho solo il n° 1 "La mano rossa") proprio perché lui era il capo dei Navajo con il nome di "Aquila della Notte" ed era il loro difensore.


A Little Bighorn oltre all'italiano John Martin combatterono anche altri italiani ( si dice poco più di una decina) ma, purtroppo per loro, non la scamparono.
 
Che mi dici "giada50" di Kit Carson, Pecos Bill, Capitan Miki, Zagor e compagni?
L a sera prendevamo le "strisce" e le attorcigliavamo a due stecche di legno che facevamo passare attraverso i lati maggiori di una scatola di scarpe. Il coperchio aveva una finestrella rettangolare dietro la quale il manovratore faceva scorrere pian piano le "strisce"dei nostri eroi: 5 lire per vedere il film!
Ciao.
 
seguito LITTLE BIGHORN /2

A circa cento metri dalla collina Last Stand c’è l’Indian Memorial ed è lì che mi dirigo.

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E’ singolare il fatto che quest’ultimo sia stato costruito solo nel 1999, dopo innumerevoli richieste, rimaste ignorate negli anni e inoltrate del Movimento degli Indiani d’America al Dipartimento dell'Esercito degli Stati Uniti. In sostanza, gli indiani desideravano e chiedevano di porre indicatori dedicati ai guerrieri caduti sul campo di battaglia di Little Bighorn.
A prima vista, almeno da lontano, il monumento sembra solo una collinetta ricoperta dall’erba della prateria che quasi lo confonde con il paesaggio limitrofo.
Però, una volta giunto vicino, è altrettanto sorprendente che, al contrario del modesto mausoleo dedicato ai soldati del 7°, l’Indian Memorial mi dia l’impressione di essere una vera e propria opera d’arte. Infatti, dall’iscrizione di una targhetta capisco che il monumento è un lavoro dei designer John Collins e Alison Towers, risultato vincente tra oltre 500 progetti presentati al Comitato Indiano preposto alla selezione.
Davanti al tumulo, seguo in senso antiorario, verso est, un marciapiede che si biforca anche nella direzione ovest. Mentre mi avvicino, questa allegoria della memoria sembra quasi che inizi a trascinarmi energicamente al suo interno, diventando più alta e più emblematica.
Sul tumulo, verso nord, i profili di metallo di tre guerrieri indiani a cavallo, rappresentazione dello Spirit Warriors, sembrano fantasmi che corrono nuovamente sul “sentiero di guerra ” nel paesaggio reale del campo di battaglia.

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Il concetto è semplice, elegante e nello stesso tempo molto simbolico perchè, traguardando, attraverso quelle bellissime figure stilizzate, traspare l’area completamente aperta della prateria del Montana.

Quando entro nella struttura architettonica, un muretto edificato con blocchetti di pietra e che ha la forma di un cerchio perfetto, mi sembra di essere catapultato in un altro mondo, cupo, profondo, retrospettivo e sacro allo stesso tempo. La terra rossa nel mezzo è incorniciata da una passerella di lastre di pietra calcarea, mentre sulle pareti interne sono stati collocate lastre di granito grigio dedicate alle tribù che presero parte alla battaglia: Sioux, Cheyenne, Arapaho, Crow, Arikara. Ogni tribù elenca i loro morti, inserendo anche bellissimi pittogrammi, iscrizioni e simboli.

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Ponendo le spalle alla figurazione dello Spirit Warriors e guardando attraverso una fenditura della parete, detto Muro Piangente, posso vedere, perfettamente centrato e allineato, il Monumento del 7° Cavalleria.
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Questa apertura è la Porta dello Spirito da cui passano i soldati americani caduti in battaglia, accolti nel Memoriale in amicizia, per unirsi ai guerrieri indiani deceduti.
Sotto quella “porta”, con un simbolismo perfetto, bellissimo ed efficace, un rivolo d'acqua scorre continuamente in una pozza: rappresenta le lacrime per i guerrieri e per i soldati caduti nella battaglia di Little Bighorn.

L’Indian Memorial è intitolato “Pace attraverso l'unità”, sintetizzato con queste parole da Enos Poor Bear Presidente e Capo onorario del popolo Oglala Lakota:
Se questo memoriale deve servire al suo scopo, non deve essere solo un tributo ai morti ma deve contenere un messaggio per i vivi: Pace attraverso l'unità”.

L’Indian Memorial, che nobilita questo parco storico, costringerebbe chiunque ad una riflessione attenta su ciò che le guerre indiane degli anni '70 del 19° secolo hanno significato per la nazione e per i popoli che hanno combattuto fra loro.
Tuttavia, mi sembra di notare che sono soprattutto “i bianchi” a visitarlo mentre sembra che l’America dei nativi resti rispettosamente nascosta.​

continua...


 
seguito LITTLE BIGHORN /3

Dopo la visita bellissima e commovente a Indian Memorial, riprendo l’auto per percorrere la strada di cinque chilometri che attraversa il parco in direzione est e che termina sul luogo dello scontro fra gli indiani e il battaglione del Maggiore Marcus Reno.

Il primoLong-Road-Marker.webp marcatore di granito rosso che noto è quello dell’indiano Lakota Long Road, mentre i pannelli interpretativi che ogni tanto compaiono sulla strada informano sulla cronologia e sui fatti della battaglia.

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Lungo il percorso si levano continuamente, sparsi nell’erba, parecchi segnaposti di marmo bianco (soldati) e molto meno di granito brunastro (indiani) che persero la vita combattendo.





Alla fine della strada c’è un parcheggio, una rotatoria per tornare indietro e un ultimo pannello che spiega ciò che accadde in questo preciso luogo di battaglia:
“Dopo aver avanzato per 4–5 km, Reno finalmente avvistò il villaggio e attaccò come gli era stato ordinato, ma i nativi, invece di fuggire, contrattaccarono in forze. Reno fermò la carica e ordinò ai soldati di scendere da cavallo e formare una linea di difesa. Prudentemente, ancorò il suo fianco destro su un boschetto di pioppi che crescevano sulla riva sinistra del fiume, ma la riga dei soldati era troppo corta per sbarrare la valle in tutta la sua larghezza e gli indiani aggirarono l'ala sinistra e cominciarono ad attaccare i soldati alle spalle. Reno ordinò una ritirata nel boschetto. Da qui, allarmato, ordinò una seconda, caotica ritirata attraverso il fiume e su per le scarpate della riva opposta. Arrivò su un’altura con metà dei suoi uomini, gli altri furono uccisi, feriti o rimasero nascosti tra gli alberi, incapaci di guadare il fiume. Lì Reno rimase assediato fino al giorno successivo”.

Tutto questo è perfettamente evidente guardando i marcatori che testimoniano la durezza dello scontro e il teatro di battaglia della tranquilla distesa di boschetti di pioppi e prateria nella quale serpeggia il fiume Little Bighorn, testimone silenzioso degli eventi fra lo Spirit Warriors e i soldati del 7° Cavalleria.

Dopo aver completato il percorso, torno mestamente verso la collina di Custer ma, una volta giunto nel parcheggio, mi solleva il morale …una “grandiosa” motocicletta.
(Non me ne vogliano tutti i miei amici lettori e dispesatori di generosi apprezzamenti, ma questa foto è dedicata a "essepi2": questione di feeling motociclistico!)

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E’ equipaggiata con tre borsoni neri sul portapacchi posteriore, posti uno sull’altro e in precario equilibrio. Sicuramente parteciperà al Rally di Sturgis e non passerà inosservata. Ciò che mi sorprende grandemente è il motore e come abbiano potuto ficcarlo sotto il telaio. Guardandola più da vicino, leggo su un profilato cromato del copri valvole della testata il nome Hogg Boss, forse un costruttore artigianale americano a me ignoto.
Fra tutte le moto viste finora, questa mi sembra proprio la più esagerata che mente umana abbia potuto concepire perchè sul coperchio copri valvole leggo anche la sigla CHEVROLET 502: la sigla non mi è nuova e identifica un motore V8 della Corvette C5 che ha una cilindrata di ben… 5.7 litri!
Anche se il serbatoio a goccia è molto grande, presumo che debba essere riempito di benzina abbastanza spesso per “abbeverare” quel potente motore assetato.
Gli americani sbalordiscono sempre con le loro stravaganze pur di attirare l’attenzione altrui.

Lascio Custer Last Stand e l’Indian Memorial un pò preoccupato perchè il cielo si è imbronciato e più procedo sulla sttale US -212 maggiormente le condizioni meteorologiche diventano cattive.

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La strada inizia ad essere bagnata e poi più avanti la pioggia comincia a cadere con veemenza. I camion che mi seguono e mi sorpassano continuano a viaggiare imperterriti lasciando dietro di sé un vortice d’acqua simile a una cortina impenetrabile. Il muro di pioggia e vento che colpisce l’auto lateralmente è talmente intenso e violento da costringermi ad accostare in una banchina nell’attesa che tutto si plachi.
Il passaggio di altri veicoli che continuano a viaggiare mi fa rimettere in cammino ma dopo qualche chilometro la situazione si fa drammatica.
Non si vede più nulla, né cielo né terra; né davanti, né alle mie spalle e nemmeno il bordo della strada per poter accostare e trovare un qualsivoglia rifugio e scampo a causa di una vera e propria tempesta di acqua e vento da uragano nella quale, purtroppo, sono incappato.
La paura inizia ad affiorare prepotentemente, mi sento perduto, non c’è via di scampo e anche il concreto rischio di essere tamponato perchè ho rallento di molto l’andatura. Con un pizzico di fortuna riesco a trovare dall’altra parte della strada una di quelle casette di legno con un porticato con uno spiazzo antistante dove parcheggio e mi fermo con l’auto tenendo alle spalle l’impetuosità del vento e della pioggia.
Non mi muoverò da qui fino a quando questa tempesta terminerà e me ne sto tranquillo in macchina ascoltando l’ululato del vento e il rumore della pioggia a catinelle che si riversa sulla carrozzeria della macchina. Credo di essere capitato proprio nel bel mezzo di una di quelle violente perturbazioni, frequenti sulle grandi pianure americane, determinate dallo scontro di masse di aria fredda e calda.
Dalla mappa satellitare del mio telefono vedo che sono fermo in un posto, per me assolutamente anonimo, che si chiama Boyes. Ho percorso 200 km, sono le cinque di pomeriggio e non mi resta altro da fare se non attendere in macchina che termini questa bufera.
Quando riparto, dopo più di mezz’ora da quando mi sono fermato, penso di averla scampata proprio bella, ma la paura è stata tantissima. Il cielo è ancora imbronciato ma la visibilità è diventata sufficiente per viaggiare e comunque ha smesso di piovere.

Sono un pò seccato per questo contrattempo ma ad alleviare questo stato d'animo ci pensa un posto che mi avrebbe fatto piacere raggiungere molto prima che si scatenasse la tempesta: Stoneville Saloon. Si trova vicino al confine del Montana con il Wyoming e dopo averlo “visitato” sicuramente non troverò un altro saloon più selvaggio e più hard di questo.

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Lo Stoneville Saloon, nei pressi della US-212 e quasi isolato, ha un aspetto che rammenta l’old west perchè due staccionate di legno sembrano pronte ad essere adoperate per sistemare i cavalli di improbabili pistoleri. Solo che i tempi sono cambiati e lì davanti sono parcheggiate tre motociclette Harley. In effetti, il luogo si trova sulla rotta per Sturgis e si direbbe un posto molto conosciuto e frequentato dai molti motociclisti di passaggio. Il portico con panche di legno si presta benissimo per sostare all’asciutto e difatti un motociclista con tuta antipioggia gialla se ne sta tranquillamente seduto in attesa che il tempo si rimetta per bene.

Appena entro in quella che mi sembra una vecchia catapecchia, la prima cosa che mi stupisce è il pavimento completamente ricoperto di segatura. Ancor più sconcertante, mentre alzo gli occhi, è il basso soffitto da cui pendono parti metalliche di motori, sedie sgangherate, corna di alce, pentole, vecchi attrezzi, cianfrusaglia di vario genere e non c’è il minimo spazio libero per metterci qualcos’altro.
L’atmosfera è piuttosto cupa per la scarsa luce che entra da piccole finestre, ma il bancone è in perfetto stile old west, stracolmo, alle spalle, di bottiglie di whiskey e lattine di birra. Due motociclisti sono intenti a bere e a parlottare allegramente con la ragazza che li serve, abbondantemente tatuata.
Tutte le pareti sono tappezzate di fotografie di uomini e ragazze hard, ritagli di giornale, locandine di Marylin Monroe, targhe americane di automobili, mentre nel retrobottega ci sono molti indumenti in vendita. Un grande cartellone pubblicitario della Harley-Davidson da il benvenuto a tutti i motociclisti che qui possono anche saziarsi, soprattutto con carne arrostita e patatine fritte.
Ma il pezzo forte del saloon, dove mi reco per la bisogna, è la toilette (termine elegante ma non appropriato, messo come rimedio ad un altro di sicuro effetto indecoroso).

Esco da questo saloon allucinante e mi siedo sotto il porticato, giusto per riposare un poco e per attendere qualche decina di minuti prima di ripartire in questo pomeriggio che si è rivelato assai problematico dal punto di vista meteorologico.
Dopo un’ora di viaggio e aver attraversato un angolo dello stato del Wyoming entro in quello del Sud Dakota, facendo sosta nella prima città che incontro: Belle Fourche.
Detiene la fama di essere il Centro Geografico degli Stati Uniti allorquando, nel 1959, l’Alaska e le Hawaii diventarono, rispettivamente il 49° e 50° Stato della Confederazione.
Comunque sia, più della questione geografica, a me interessa mettere qualcosa in pancia e il Subway che vedo in una stazione di servizio affollata si presta benissimo alla necessità.
Da stamani ho percorso 420 chilometri.

E’ già sera, una sera che non promette allettanti prospettive se son quella di cercare un motel e andare a riposare.​

continua….
 
..:ROFLMAO:.in prima battura, leggendo Hogg Boss, mi è venuto in mente Hazzard , una serie tv degli anni 80...
Boss Hogg era uno dei personaggi principali, il commissario della contea. In USA la serie era "The duke of Hazzard"

ps
..esiste una società che si chiama Boss Hoss Cycles, Inc .... simile ma non uguale...
-->https://bosshoss.com/
 
seguito My USA on the Road...and more

14ª Tappa - BELLE FOURCHE – STURGIS – WALL - 250 km

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Belle Fourche è così denominata perché situata sulla confluenza dei fiumi Redwater, Hay Creek e Belle Fourch. Nell’ottocento e inizi del novecento era un importante centro di allevamento e commercio di bestiame che fornivano risorse di cibo ai minatori impegnati nella “corsa all’oro”. Inoltre, trovandosi questa città vicino al confine di tre Stati era molto apprezzata e punto d'incontro per trappers e commercianti di pellicce.
Visto che vi ho passato la notte, non potevo certo mancare di andare a visitare la sua attrazione principale rappresentata dal Parco che celebra l’epicentro degli Stati Uniti: Center of the Nation Monument.
E’ un bel parco con museo e un originale monumento di granito a forma di rosa dei venti, circondato da pennoni di tutte le bandiere nazionali degli Stati Uniti, Alaska e Hawaii. Al centro del rosone è incisa una carta geografica degli Stati Uniti con il Geo Center focalizzato a Belle Fourche.

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Il parco è carino con Centro Visitatori e un museo ben tenuto. E' un landmark concreto e simbolico allo stesso tempo, che, se non altro, ti fa riflettere sull'immensità del territorio circostante dove lo sguardo si perde fra fattorie sparse qua e là e sconfinate praterie.
Ciò che più attira la mia attenzione è la baita a due piani costruita e abitata dalla famiglia di Johnny Spaulding, pioniere ed esploratore della zona delle Black Hills, che arrivò nell'area durante la corsa all'oro del 1876. I tronchi di legno della costruzione furono tagliati a mano e trasportati dalle colline tra Crook City e Deadwood. La casa era originariamente situata sul Lower Redwater River, vicino Belle Fourche e in seguito trasferita qui e donata al Lions Club Belle Fourche che ne ha curato il restauro.
Tutte queste informazioni si leggono su un pannello al lato della porta d’ingresso dalla quale si accede ad un ambiente rustico arredato con suppellettili autentiche e fotografie di famiglia delle persone che vi hanno abitato sino al 1930.

Parto per tornare a rivedere il Motorcycle Rally di Sturgis che ha avuto inizio lunedì. Però, prima di arrivarci percorrerò la bellissima strada panoramica che attraversa Spearfhish Canyon, poco fuori dell’omonima città, lontana solo una ventina di chilometri da Belle Fourche. In seguito, mi sposterò nella vecchia città mineraria di Lead e nella mitica Deadwood, regno di pistoleri e gioco d’azzardo.
Spearfhish e il suo Canyon rappresentano un appuntamento mancato del viaggio dello scorso anno, ma questa volta ho tutto il tempo per percorrere la scenic road nel modo migliore.
Non appena mi avvicino a Spearfhish già molti motociclisti mi sorpassano e una volta attraversata la città c’è subito un punto di ritrovo per quanti hanno attraversato il Canyon, venendo da Sturgis, e per quanti sono in procinto di percorrere la Scenic Byway diretti al Raduno Il Dry Creek Bar ha un ampio parcheggio affollato di Harley e motociclisti in maniche corte e gilet pieni di borchie e adesivi. Specialmente le donne, parlano allegramente, con l’immancabile lattina di birra Budweiser, che come se fossero in procinto di fare una bella scampagnata.
Percorro una strada panoramica bellissima delle Black Hills (limite di velocità 50 km/ora) dove imponenti scogliere di calcare, dai toni marrone chiaro e alte qualche centinaia di metri, si innalzano a destra e a sinistra del percorso, mentre foreste di abeti, pini, pioppi e querce si aggrappano alle pendici di colline.

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Il torrente Spearfish, che contribuisce alla felicità di pescatori di trote che ho visto sulle rive, scorre lungo il fondo del canyon e la strada panoramica ne segue i contorni naturali. Flora e fauna selvatica prosperano indisturbate in questo ambiente, luogo peraltro ideale per gli amanti della vita all'aria aperta dove non mancano percorsi da trekking, aree picnic e cascate.
Di queste ultime, quella a più conosciuta, perchè la più accessibile nel canyon e adiacente ad un ampio parcheggio, è la Bridal Veil Falls, alta 180 metri. Parcheggio nell’area riservata e salgo su una piccola altana di legno dove quasi tutti i motociclisti sono intenti a scattare foto a questa bella cascata che scende lungo una scogliera a strapiombo.
Il ruscello mi tiene compagnia lungo il tragitto successivo, salendo dolcemente sul bordo settentrionale delle Black Hills mostrando il canyon come una delle porte nel cuore dell'antica catena montuosa. Vedute spettacolari si svelano dietro ogni curva fino a quando giungo a una bellissima e grande area messa a parco, impreziosita dall’elegante struttura paesaggistica dell’albergo Spearfish Canyon Lodge.
In pratica il canyon termina qui, ma i paesaggi montani verso Cheyenne Crossing sono ancora straordinari, con l’unico inconveniente che le condizioni atmosferiche - cielo nuvoloso e possibilità di pioggia - non sono proprio ideali per poter apprezzare il paesaggio.
Mancano otto miglia a Lead e i motociclisti sono diventati numerosissimi, tanto che quando giungo in città, il corso principale è preso d’assalto, in un via vai continuo, da centinaia di motociclette con il rombo assordante dei motori.
Impossibile parcheggiare e la medesima difficoltà trovo a Deadwood dove non esiste un sol buco dove infilare la macchina: tutti gli spazi disponibili sono stati accaparrati da motociclette su motociclette. Pertanto, mi limito solamente a percorrere la main street, forte del fatto che almeno Deadwood l’ho visitata ampiamente lo scorso anno.
Corro a Sturgis sorpassato da decine di motociclisti e mi fermo nel miglior punto di osservazione per apprezzare lo svolgimento in atto del 74° Motorcycle Rally: il grande parcheggio della McDonald.
Il via vai di motociclette Harley è al solito ininterrotto ma tutti rispettano le precedenze, non ci sono strombazzamenti ma solo e soltanto l’assordante rombo degli scarichi liberi dei motori. Molti si fermano a farsi fotografare davanti alla grande tabella “Welcome to Sturgis – City of Riders” e certo neanche io perdo l’opportunità prendendo “in prestito” uno chopper Harley, luccicante di cromature e una forcella chilometrica.

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Comunque, c’è sempre da rimanere sorpresi dal modo con cui molti amano esibire le loro cavalcature ma, a parte le Harley normali, la mente eccentrica dei riders si sbizzarrisce moltissimo sulle moto a tre ruote.
Vale per tutti un triciclo stratosferico che ho visto parcheggiato: colore viola metallizzato, poltrona a un sol posto ultra comoda, ruote da Formula 1, impianto stereo da concerto e un motore V8 Offenhauser di 5.7 litri con turbocompressore che non so quanta disumana potenza potrebbe sviluppare.

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La “festa” è entusiasmante per me e per tutti i motociclisti che amano da sempre questo Raduno ma il mio programma non prevede di fermarmi per la notte, anche perchè il tempo è inclemente. Piuttosto, me ne vado in giro sulla main street completamente invasa da migliaia di moto e mentre sto transitando sono affiancato da un motociclista che, non avendo forse a disposizione un passeggero normale, ha per compagno dietro di se…uno scheletro di plastica.
Gli americani, a volte, in fatto di stravaganza sono davvero semplicemente unici!
continua...
 

Seguito 14ª Tappa - STURGIS – WALL

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Lasciando Sturgis, transito nei pressi del Full Trottle Saloon, un posto amato dai motociclisti perchè di sera si tengono i concerti “live” e francamente non sono in grado di stabilire il numero delle motociclette ferme nel grandissimo parcheggio. Con qualche approssimazione al ribasso e non esagero, ce ne sono almeno 2.000.

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Tutta la cittadina di Sturgis è smisuratamente affollata e il ritrovo appena menzionato è solo una delle migliaia di occasioni che si ripetono giorno e notte per rallegrare, per divertirsi e per rendere indescrivibile e unico al mondo il mitico Motorcycle Rally.

Intanto…comincia a piovere!
L’unica cosa che posso fare è quella di andare a pernottare a Wall. Però, non scelgo di andare in direzione di Rapid City prendendo l’autostrada, quanto di aggirarla attraverso la bella Nemo Road che lo scorso anno ho mancato di percorrere a causa delle indicazioni stradali non appropriate.
Uscendo da Sturgis mi è facile proseguire su quella scenic road che attraversa una fitta foresta di pini e betulle, mentre i capeggi e le baite sono opportunità necessarie e ambite dai partecipanti al rally. Certo il paesaggio sarebbe molto più interessante se non ci fosse la pioggia a complicare le cose ma, nonostante tutto, i motociclisti, pochi questa volta, continuano imperterriti a percorrere questa strada nonostante sia viscida.

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Tanto viscida che ad un certo punto, purtroppo, vedo un motociclista solitario che affrontando una curva scivola e cade rovinosamente nella scarpata. Mi allarmo moltissimo perchè non c’è nessuno a cui chiedere aiuto ma tuttavia cerco in qualche modo di fermarmi per prestare soccorso. La strada è anche in leggera salita, lascio la macchina con le frecce di emergenza accese nel mezzo della carreggiata e mi appresto a fare il mio dovere. Nel frattempo sono giunte altre persone che offrono soccorso e così aiutiamo il malcapitato a mettersi in sesto. Fortunatamente non ha nulla di grave e sicuramente l’erba e la terra bagnata e spugnosa hanno in qualche modo attutito di molto la caduta.
Credo che neanche la moto abbia subito gravi danni, a parte il parabrezza incrinato, e allora mi limito ad andare verso la macchina per segnalare a coloro che sopraggiungono di rallentare.
Dopo essermi sincerato sull’incidente, concluso fortunatamente nel modo migliore per il motociclista, rifletto su quanto sia difficile e pericoloso viaggiare sulle strade “insaponate” dalla pioggia con le pesantissime Harley-Davidson.

Rifletto anche sulle circostanze dello scorso anno quando sono stato molto fortunato a non incappare nel maltempo e aver potuto viaggiare, invece, con condizioni meteo eccellenti.

Raggiungo Nemo, una piccola comunità incentrata su baite di vacanza, campeggi. Sulla grande area affollatissima del Nemo Guest Ranch i motociclisti sembrano disinteressarsi della pioggia, attendendo tranquilli sotto la pensilina del bar in compagnia di donne e dell’immancabile lattina di birra.

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Per un po’ mi fermo a guardare le allegre combriccole ma poi, visto che si trova quasi sulla direttrice di marcia, proseguo per i cinquanta chilometri che mi separano da Monte Rushmore.
Scelta errata, perché, riesco solo a vedere da lontano il monumento, ammantato da basse nuvole umide, e sono anche impedito di arrivare più vicino perchè la strada, causa pioggia… è interrotta.
A questo punto, non mi resta altro da fare se non invertire la marcia, prendere la Interstate 90, raggiungere Wall senza ulteriori soste e pernottare nel Motel Welsh, quello dello scorso anno.

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Driving in the rain… per 125 chilometri!​

continua…
 
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